La crocifissione nelle arti visive della Grande Guerra: empatia, simbolo, immagine
Marco Falceri[1]
Introduzione
L’evento della crocifissione di Gesù di Nazareth è testimoniato da Tacito, Flavio Giuseppe, san Paolo di Tarso e dai vangeli (Bermejo-Rubio, [2018]2021, p. 106). Sullo sfondo di un conflitto interetnico, la scena del Golgota rappresenta la condanna a morte di un predicatore palestinese, la cui personalità acquisisce funzioni spirituali, morali, divine. Concentrandosi più sulle profezie e sui miracoli che sulle fonti storiche o giuridiche, i vangeli singolarizzano la figura di Gesù, stilizzando l’immagine di un eroe portatore di un’etica religiosa e di un credo universale. Come considera giustamente lo storico del cristianesimo Fernando Bermejo-Rubio, il nucleo drammatico della crocifissione va inteso però come una scena collettiva, poiché si tratta dell’avvenimento collegato alla vita di Gesù che presenta il maggior numero di testimonianze scritte e iconografiche (ibid., p. 373).
Nelle arti visive, la scena della crocifissione implica degli aspetti di composizione, come il bilanciamento delle figure nello spazio, la narrazione dello scenario evangelico e la condensazione di una simbologia politica e religiosa. Due storici dell’arte, David Freedberg e Georges Didi-Huberman, si sono interrogati sulla condizione empatica della percezione e della sensibilità di fronte alle immagini visive della crocifissione, dimostrando che i pensatori più radicali della cristianità, come gli apologeti e i teologi antichi, conferiscono un significato anagogico all’evento culminante della passione di Gesù, mediante l’uso testuale di apostrofi, esortazioni, esclamazioni e interiezioni (Freedberg, [1989]1993, p. 248-254; Didi-Huberman, [2007]2008, p. 160). In particolare, Freedberg indaga i meccanismi cognitivi nella reazione empatica del fruitore di opere d’arte, osservando che davanti alla crocifissione « […] si entra in empatia con un’immagine perché ha o mostra un corpo simile al nostro; ci sentiamo vicini a essa a causa della somiglianza del suo fisico con il nostro e con quello dei nostri vicini; soffriamo con essa perché porta i segni della sofferenza » (Freedberg, 1993, p. 284-285).
La crocifissione costituisce dunque un simbolo collettivo, ma anche un’immagine di potere che pone dei problemi interpretativi inerenti alla sua efficacia ontologica. Secondo un approccio ermeneutico volto ad indagare le pratiche esegetiche nell’arte cristiana occidentale, Didi-Huberman rileva invece i processi materiali e sociali che collegano la crocifissione alle figure sovradeterminate dalla pratica liturgica della narrazione testuale dei vangeli, come le reliquie, le stigmate o le immagini acheropite: « I cristiani hanno cercato la loro verità in un faccia a faccia perenne con la figura di un dio aperto, eretto su una croce, con le braccia allargate, le mani e i piedi inchiodati, il corpo trafitto come quello di un’enorme farfalla simmetrica, smorto, striato di rosso, il petto gocciolante di sangue. Questa figura si chiama appunto il “Verbo incarnato” » (Didi-Huberman, 2008, p. 17).
Al pari di altri episodi canonici dei vangeli come l’annunciazione o la resurrezione, l’efficacia simbolica della crocifissione riguarda in primo luogo i motivi dell’incarnazione, dei poteri figurativi che si esprimono nei dettagli della rappresentazione visiva, talvolta anche attraverso la materia cromatica o pittografica: l’effusione del sangue cristico, l’irradiazione luminosa, l’interazione simbolica dei personaggi sulla scena del Golgota si collegano ad un sottile lavoro d’interpretazione figurista delle Sacre Scritture (ibid., p. 149-150), un’ecfrastica della tradizione evangelica che gli artisti stessi si cimentano a praticare quando si impegnano nella composizione figurativa o plastica di una crocifissione.
Non basta quindi rintracciare il pathos drammatico nel mistero della bellezza divina, alla maniera degli studiosi dell’iconografia religiosa che riflettono sulla trasmissione delle immagini cultuali, ritrovandone i significati di fondo comunitario nei vangeli sinottici o nelle prefigurazioni dell’Antico Testamento, ma è importante interpretare i contenuti simbolici ed emozionali della crocifissione, analizzando le figure della violenza e dell’agonia a contatto con gli eventi della storia e con i meccanismi della finzione. Nell’approccio fenomenologico che qui privilegiamo allo studio della storia dell’arte contemporanea, l’empatia configura un processo psicofisico di comprensione del mondo delle cose e delle persone, una modalità di conoscenza non soltanto dell’emozionalità, ma anche della percezione e della memoria degli eventi[2]. L’empatia designa quindi una relazione con il sentire e con il conoscere. Con i suoi atti e processi eterogenei, essa si muove nella natura etica dell’intersoggettività, quanto nelle immagini della storia che sono popolate da figure e personalità spirituali (Stein, [1985]2020, p. 67-71; Merleau-Ponty, 1964, p. 234)[3].
Questo studio indaga comparativamente alcune immagini della crocifissione prodotte da artisti combattenti e non-combattenti della Grande Guerra, originari di diversi ex paesi belligeranti: Francia, Germania, Italia, Polonia, Regno Unito, Canada e Stati Uniti d’America. Confrontando le esperienze sociali e i contesti storici, si analizzano le testimonianze della guerra, incrociando fonti iconografiche (arti grafiche, pittura e scultura) e testuali (scritti e corrispondenze). Nella prima parte si vuole dimostrare che la crocifissione di Gesù non rappresenta soltanto un tema iconografico della religione cristiana distinto dalla croce e dal crocifisso, ma anche un simbolo politico che può avere connotazioni consensuali oppure dissidenti. In seguito, viene esaminata l’iconografia della crocifissione in due tendenze a geografia policentrica della storia dell’arte contemporanea, come l’espressionismo europeo e gli Ateliers d’art sacré che dalla Francia si sviluppano attraverso l’Europa. Descrivendo le pratiche e le rappresentazioni artistiche del conflitto armato, sarà importante chiedersi se la crocifissione costituisca un tema iconografico nella pittura e nella scultura monumentale del periodo interbellico (1919-1939), investigando i luoghi di memoria, le società in lutto e i media visuali come le esposizioni, le edizioni e la stampa. In conclusione, si rileverà che dalla restituzione dell’esperienza vissuta alla trasposizione figurativa del ricordo della Grande Guerra, l’iconografia artistica della crocifissione in larga parte si trasforma, rappresentando le violenze militari contro le popolazioni civili, la mobilitazione generale delle nazioni o la guerra di movimento, o ancora, i sacrifici degli « eroi della patria », caduti e reduci di guerra.
Sostituzioni: soldato crocifisso e patria crocifissa
Tradizione e modernità del Cristo dolente
Certo, ci sono dei momenti e dei personaggi nella storia dell’arte nei quali la visione personale dell’artista e i fatti politici si incontrano, dove l’esperienza dell’artista e gli avvenimenti politici possono integrarsi in una forma estetica, come per Guernica di Picasso o Potemkin di Ėjzenštejn. Ma un tale accidente politico si sviluppa sulla base di una lingua artistica e nell’ambito dell’arte, come espressione spontanea di un’emozione profonda, non come propaganda. C’è una grande differenza. Né l’Altare di Issenheim a Colmar di Grünewald, né Guernica, né Potemkin sono delle opere di propaganda, anche se poi sono state utilizzate per questo scopo. Ma non possiamo trarre da questi fatti la conclusione che un giorno arriveremo a creare una generazione di artisti che potranno mobilitare le emozioni e le visioni solo per delle ragioni politiche. È un’illusione suicidaria. (Richter in Sers, 1997, p. 116, trad.).
In un’intervista a Philippe Sers, Hans Richter affronta il difficile problema del rapporto tra arte visiva e propaganda visuale. Prima di mettere in guardia contro l’ideologia dominante che sostiene la necessità dell’impegno politico degli artisti, Richter menziona tre esempi di opere d’arte (due dipinti e un film) usate in seguito come immagini di propaganda. Descrivendo un processo riproduttivo che ricorda la benjaminiana perdita dell’aura nell’opera d’arte, l’artista sembra suggerire che queste immagini emozionali ad un certo punto si trasformino in oggetti inanimati e privi di senso. Ma non è così. È nondimeno significativo che tra queste opere del periodo interbellico (La corazzata Potemkin è del 1925 e Guernica del 1937), accanto ad una rivolta della rivoluzione russa e ad un bombardamento della guerra civile spagnola, si trovi la crocifissione del trittico di Grünewald, dove Gesù, moribondo e perforato dalle spine del legno della croce, incarna la postura del Cristo dolente.
La testimonianza non va ignorata, anche perché, come emerge da libri e mostre[4], la citazione del trittico di Grünewald torna a più riprese nelle considerazioni degli studiosi – pochi, in verità – che indagano la crocifissione di Gesù nella storia dell’arte contemporanea e del modernismo. Richter suggerisce che il motivo iconologico riveste anche un significato politico, non meno dell’arte di Picasso o del cinema di Ėjzenštejn. Un esperto dell’iconografia artistica della crocifissione, François Bœspflug, al pari di altri studiosi di teologia come Andrea Dall’Asta e Alfredo Tradigo, rileva giustamente la diffusione del Christus patiens nell’arte del periodo convenzionale 1900-1945. Per i conoscitori della spiritualità cristiana, si profilano due modi complementari e diversi di intendere il significato iconografico della crocifissione di Gesù. Per alcuni, la modernità porta alla « fine del rispetto contrattuale » (Bœspflug, 2019, p. 334, trad.) di un’immagine che avrebbe perduto definitivamente il suo valore simbolico, rimanendo una « convenzione » (ibid., trad.), « tropo pittorico ideale » (ibid., p. 10, trad.) che unisce scena e racconto evangelico. In questa prospettiva, si tratterebbe quindi della fine del controllo del cristianesimo su un’immagine sacrale che, all’epoca della secolarizzazione, ottiene dei valori rappresentativi ulteriori: « L’arte del XX secolo avrà potentemente contribuito a fare dell’uomo in croce il paradigma dell’uomo ingiustamente maltrattato, senza più preoccuparsi di manifestare una fede religiosa, […] di tradurre pittoricamente la divinità del Salvatore in croce » (Ibid., p. 459, trad.). Secondo altri studiosi, invece, la diffusione sincretica e mondializzata del Cristo dolente segna il ritorno di uno spiritualismo cristiano basato sui simboli universali della redenzione, della compassione e della salvezza, « […] probabilmente perché il Cristo è la figura per eccellenza che dice relazione, assunzione di responsabilità nella storia » (Dall’Asta, 2015, p. 127)[5].
Nonostante le diversità d’opinione, teologi e storici dell’arte convengono nel rilevare la continuità della tradizione del Cristo dolente nell’arte moderna e contemporanea, simbolo delle tragedie umane. Fra gli specialisti della Grande Guerra, Annette Becker ha sottolineato più volte il valore sincretico e stilistico dell’« imagerie chrétienne » (in Becker J.-J., 2005, p. 125; Becker A., 2014, p. 166), identificando nella passione di Gesù uno dei temi universali dell’anacronismo delle immagini accanto alla risurrezione, alla Vergine Maria, al massacro degli innocenti e all’apocalisse di san Giovanni (ibid., 2005)[6]. Malgrado l’interesse di questi contributi storiografici, non sembra rilevante però escludere le produzioni della propaganda visuale a beneficio degli artisti d’avanguardia che si sono confrontati con il tema iconografico del sacro. Le riflessioni critiche di Hans Richter rilevano che anche questi ultimi si sono spesso cimentati nella fabbricazione di immagini propagandistiche, compresi Picasso e Ėjzenštejn. Tornato gravemente ferito dal fronte orientale, anche Richter produce in quantità disegni antimilitaristi per una rivista pubblicata da Ludwig Rubiner nella Svizzera neutrale (Zeit-Echo). Tra 1917 e 1918, questi disegni, dove emergono alcune raffigurazioni del Cristo dolente, vengono diffusi dalla stampa periodica dei Volksblatt, i cosiddetti « fogli popolari » di impronta pacifista e rivoluzionaria (Benson, Michaud, 2013, p. 186-187).
Eroismo e anti-eroismo
Fig. 1: Jean Veber, La Croce di guerra, 1919 environ, litografia, 38.8x29.2 cm, Bnf, Parigi.
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Fig. 2 : George Grosz, Cristo con la maschera a gas, 1927-1928, eliografia, Archiv der Akademie der Künste, Berlino. ©Artists Rights Society, New York.
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Fig. 3: Sergey Solomko, Polonia, 1914-1918, litografia (www.wikiart.org/en/sergey-solomko/poland).
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La propaganda visuale è una pratica molto significativa della Prima Guerra mondiale che coinvolge soprattutto illustratori e caricaturisti, tra cui principalmente artisti non impegnati al fronte, ma anche alcuni artisti combattenti che disegnano per i giornali e le riviste, oppure per i cosiddetti « giornali di trincea »[7]. Si diffondono globalmente clichés di grande impatto emotivo, condensati in motivi iconografici popolari, come il Cristo combattente nelle trincee, benedicente le truppe, condannato a morte per esecuzione capitale e specialmente il soldato crocifisso. Secondo un aneddoto leggendario, il 24 aprile 1915, un sergente di fanteria, Brant, del corpo reggimentale canadese (1st Canadian Division) sarebbe stato crocifisso vicino al campo di battaglia di Ypres, a Saint-Julien, in Belgio (Ponsonby, 2005, p. 91). Come riporta in una notizia la stampa quotidiana americana (The Times, 10 maggio 1915), al posto dei chiodi i soldati tedeschi avrebbero utilizzato le lame delle baionette per crocifiggere l’uomo sul portone di un granaio, crivellandolo a colpi di fucile (ibid.). Nonostante questo fatto brutale costituisca una « falsa notizia » delle cronache di guerra, l’argomento impegna in un dibattito acceso le cariche militari, i funzionari delle chiese, i politici e i giornalisti. L’enfasi mediatica posta sulla vicenda suscita anche le reazioni di certi artisti, soprattutto non-combattenti, che recuperano la notizia dai giornali realizzando disegni e sculture dove la figura simbolica del Cristo dolente si sostituisce a quella di un soldato crocifisso.
Nell’opera scultorea di Francis Derwent Wood (Il Golgota del Canada, 1918, bronzo, 8.1 cm, Canadian War Museum, Ottawa), un artista non-combattente che lavora a Londra per la committenza statale del Canadian War Memorial Fund, l’affare scandalistico del sergente Brant autorizza la pratica di una speculazione plastica, allorché il motivo viene utilizzato dalla stampa statunitense come immagine di propaganda per mobilitare la popolazione cattolica delle Filippine (p. es., an., Your Liberty Bond, affiche, Library of Congress, Washington). Nel gennaio 1919, una volta esposta alla Burlington House di Londra, la scultura di Derwent Wood è stata censurata su ordine del governo canadese. Si tratta di un’immagine densa di significati, dove gli episodi evangelici del Cristo deriso e della crocifissione in parte si sovrappongono, cristallizzando simbologie politiche di impronta liberale e repubblicana.
Una litografia dell’illustratore francese Jean Veber (Fig. 1), un artista combattente, dimostra invece la funzione eroica e commemorativa del soldato crocifisso, agonizzante e posto vittoriosamente su una croce di guerra, l’onorificenza pubblica con cui gli stati moderni riconoscono l’impegno di guerra dei soldati, ma talvolta anche il valore militare dei civili. Nell’illustrazione politica o nella scultura commemorativa la figura del soldato crocifisso trova utilizzi strategici e significati ambivalenti, implicazioni necessarie d’ordine patriottico o rivoluzionario.
Oltre alla varietà delle fonti classiche e del materiale leggendario, per analizzare l’iconografia simbolica della crocifissione è importante considerare i rapporti tra la figura principale e le figure secondarie, ma anche le interazioni tra la forma e il fondo, tra il corpo cristico, l’ambiente e le cose che lo circondano. In quale misura gli artisti visivi che hanno vissuto la prima guerra mondiale si appropriano della simbologia della croce e del corpo crocifisso, restituendone una visione tanto drammatica quanto emozionale? Durante e dopo la Grande Guerra, la crocifissione del soldato trova declinazioni allusive, persino xenofobe e razziali, quando il soldato crocifisso riveste il ruolo politico del nemico. Pubblicata a tutta pagina nel giornale di trincea Il Montello, da lui diretto nelle retrovie della battaglia del Piave (Sironi, 12 ottobre 1918, n°2, n.p.), una caricatura politica realizzata dall’artista combattente italiano Mario Sironi (intitolata ironicamente: Deutschland Über Alles) colloca sulla croce di guerra[8] dell’esercito imperiale prussiano un soldato tedesco, riconoscibile dall’elmetto con la punta, mentre le truppe italiane sfilano eroicamente sotto di lui innalzando le baionette dei fucili a passo di marcia. Per accentuare il dramma, Sironi allestisce uno scenario di rovine e disegna tre chiodi al posto di quattro, inscenando il racconto delle reliquie di Gesù, secondo il quale sant’Elena, la madre di Costantino I, avrebbe riportato a Roma soltanto tre chiodi lasciando a Gerusalemme il legno della vera croce.
Accanto al soldato crocifisso, un tema allegorico e morale prevalente nella stampa è quello per certi aspetti interscambiabile della patria crocifissa (Fig. 3). L’artista non-combattente Sergey Solomko, nativo della Polonia ma attivo in Francia come illustratore di cartoline postali e affiches, recupera l’icona repubblicana della Marianne (un’allegoria della liberazione nazionale dall’Ancien Régime) per mettere in scena il dramma dell’invasione della Polonia occupata militarmente da tre imperi (russo, prussiano e austroungarico). In questo caso la figura in croce è femminile e mondana, quindi variano i gesti e le posture: Solomko inserisce lo stemma araldico del regno polacco con l’aquila coronata, inclinando leggermente la figura della giovane donna, le cui mani non sono inchiodate al legno della croce, ma soltanto legate a dei cordami. La sofferenza del Cristo dolente è simbolizzata nella seduzione di una donna dai capelli mossi che per liberarsi dalla stretta delle corde sembra denudarsi perdendo la sacra tunica: ancora una rappresentazione scenica, un’animazione virtuale delle reliquie del Golgota che, secondo la narrazione dei vangeli, i soldati dell’impero romano si sarebbero spartiti giocando una partita a dadi.
Ma l’esempio forse più noto di sostituzione figurativa, un meccanismo peculiare della propaganda visuale, resta la caricatura dell’artista non-combattente e rivoluzionario George Grosz (Fig. 2), di cui si conoscono almeno quattro versioni, leggermente diverse, pubblicate negli anni del periodo interbellico come illustrazioni di articoli e di libri (Becker A., 2014, p. 166; Moxey, [2013]2016, p. 154-155). Anche Grosz aggiunge alla composizione drammatica una reliquia del Golgota, il titulus crucis redatto da Ponzio Pilato, rappresentando Gesù nei panni di un predicatore cristiano dai capelli lunghi che indossa degli scarponi militari ed una maschera a gas. Non si tratta di cinismo nei confronti dei credenti, ma di una contestazione radicale dell’aristocrazia militare tedesca, allora fortemente compromessa con la Chiesa e col fascismo. Nell’ambito specifico della propaganda visuale, sebbene declinata in un registro anti-eroico, la figura del soldato crocifisso simboleggia un atteggiamento di opposizione alla violenza di guerra, pur servendosi ancora una volta di un argomento mediatico: la falsa notizia della minaccia securitaria della fine del mondo con l’uso delle armi chimiche e degli aeroplani sulle città, ricorrente negli anni del periodo interbellico, quando lo scenario della guerra aerochimica riveste una certa importanza e i regimi politici, non soltanto totalitari, impiegano sistematicamente i gas tossici nelle guerre industriali e coloniali.
Restituzioni: espressionismo e art sacré
Devozione militare
La presenza della religione cristiana è consolidata istituzionalmente durante la Grande Guerra, al fronte come nelle retrovie, dove si svolgono le celebrazioni della messa e i preti eseguono le funzioni d’assistenza spirituale, specialmente nelle prigioni e negli ospedali, ma anche nelle caserme. Nelle sue memorie scritte e visive (Fig. 4-5), l’artista combattente Lorenzo Viani ricorda che alcuni soldati della fanteria italiana, prima dell’assalto, si ritirano in preghiera davanti a un’edicola dipinta con la crocifissione di Gesù, inginocchiandosi e contemplandola:
Carso, giugno 1917. Sulla strada che va nei labirinti del Carso c’è l’immagine della passione di Cristo. Il piano è coperto dalla profondità verde della notte. Il lume del Cristo, fra il tremolio delle lucciole, sembra un girasole in un campo di lupini fioriti. Dal vallone giungono lampi taglienti di fuoco, di luci verdi, di archi lucenti. Sulla via tortuosa passano in fila indiana le fanterie. Le scarpe ferrate risuonano come rulli di tamburo. Guardo in faccia i soldati: il loro pensiero vola al cielo. Domattina, alle quattro, c’è lo sbalzo delle fanterie. Lo sbalzo, il calvario del soldato, su cui si prepara la salvezza e la vittoria. (Viani, 1964, p. 61)
La passione di Cristo dipinta nella chiesetta al bivio di Bestrigna sulla via che va sul Carso come la via del destino era l’ultimo saluto alle fanterie che andavano all’assalto. Ogni soldato nel Cristo esangue con la lanciata nel costato sentiva la sua passione il suo dolore. Il sangue che a rivoli leggeri scendeva giù fino ai piedi della croce sopra il teschio bianco correva anche sul cuore dei soldati. Il vecchio centurione attizzava il lume anche di giorno chiaro fino alla notte chiara di stelle, perché il passaggio era eterno. (ibid., p. 90)
Fig. 4: Lorenzo Viani, Fanti in preghiera, Carso, 1917, olio su tela, 129x144 cm, coll. Farsetti, Prato.
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Fig. 5: Lorenzo Viani, La passione di Cristo, 1917-1918 environ, olio su tela, 67x61.5 cm, coll. privata.
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In questi due dipinti Viani restituisce le sensazioni visive che riporta anche nelle pagine autobiografiche del suo Diario carsico: la devozione religiosa dei soldati di fanteria al Cristo e alla Vergine Maria. In entrambe le scene del dipinto votivo compare il motivo della lancia di Longino, col sangue colante dal costato di Cristo, mentre sotto la croce figura sola la Vergine Maria, in atteggiamento addolorato. Come già osservato, la scena della crocifissione può presentare diverse varianti iconografiche dei motivi dottrinali e teorici dell’incarnazione. Se la lancia di Longino trova la sua fonte tanto nelle reliquie che nei vangeli sinottici, il motivo dell’effusio sanguinis dal costato di Cristo sul teschio adamitico occupa una posizione rilevante anche nella teologia e nella mistica medievale: « […] era la Passione di Cristo che offriva la più ampia opportunità per l’espansione di testi biblici relativamente scarni in termini calcolati per suscitare le reazioni di tipo empatetico necessarie ad una meditazione ben riuscita » (Freedberg, 1993, p. 257). E proprio l’effusio sanguinis è quell’evento su cui la teologia cristiana fonda, a partire da san Paolo e poi da Tertulliano, un pensiero del martirio che legittima la presenza dello Spirito Santo nelle immagini consacrate e nelle reliquie. Nelle meditazioni dei Padri della Chiesa non è lo sguardo, ma il sangue di Cristo a testimoniare la sostanza corporea della fede: « […] il termine martire porta in sé questo valore di conversione poiché, all’epoca di Tertulliano, il suo significato passa proprio dall’idea di testimonianza oculare a quella di “testimonianza di sangue”: come se, al di là del visibile, fosse lo stesso sangue a diventare il fondamento di uno sguardo » (Didi-Huberman, 2008, p. 88)[9].
Le testimonianze pittoriche di Viani mostrano le pratiche devozionali dei soldati al fronte, che pregano davanti ad una crocifissione dipinta da artisti ignoti o locali in un’edicola sul Carso, in prossimità dei combattimenti. A fondovalle si scorgono anche le croci di un cimitero militare (Fig. 4), un motivo molto diffuso nelle testimonianze iconografiche degli artisti combattenti. In queste scene, l’uso espressionista e drammatico del colore si ispira alla colatura del sangue dal costato di Cristo (Fig. 5) e al paesaggio cimiteriale del fronte (Fig. 4). Il pittore e infermiere militare Max Beckmann si riferisce invece alla risurrezione, l’episodio complementare e successivo del Golgota. Mentre lavora ad un affresco in uno stabilimento termale occupato dall’esercito tedesco nelle retrovie del fronte occidentale, in una lettera spedita alla compagna Minna Tube, datata 11 maggio 1915, evoca il tema iconografico del giudizio finale: « Lavoro senza fermarmi la forma. Quando disegno, quando penso e quando dormo. Mi capita di pensare di diventare pazzo tanto questo piacere doloroso mi affatica e mi tormenta. Tutto sparisce, il tempo e lo spazio, ed io non penso che a una cosa, come dipingere la testa del Cristo resuscitato davanti agli astri rossi nel cielo del giudizio universale » (Beckmann, 2002, p. 158, trad.).
Gli espressionisti descrivono le sensazioni visive del fronte in atmosfere cromatiche. Malato e smobilitato, Beckmann dipinge una risurrezione calata nello scenario di un giudizio finale, adottando un formato monumentale, ma senza portare a termine la composizione (Risurrezione, 1916, olio su tela, 345x497 cm, Staatgalerie, Stoccarda). Non dipingerà una crocifissione di Gesù, ma una deposizione nella quale l’artista combattente si ritrae nelle vesti di pittore seduto dietro le donne addolorate (Discesa dalla croce, 1917, olio su tela, 151.1x128.9 cm, Moma, New York). Durante e soprattutto dopo la Grande Guerra, alcuni espressionisti tedeschi lavorano il tema della crocifissione. Se un artista combattente come Otto Dix affronta temi come la flagellazione ed i martiri (san Giorgio specialmente), anche disegnandoli al fronte, bisogna attendere il secondo dopoguerra per scorgere una crocifissione calata nella sintesi di un racconto evangelico la cui sequenza va dalla natività alla risurrezione, ma dove il Cristo dolente occupa il centro simbolico della scena, esemplificando la tipologia iconografica della testa calva, che adotta anche Beckmann dal 1916 (Otto Dix, Guerra e pace, 1960, tecnica mista su gesso silicato, 5x12 m, Ratsaal des Rathauses, Singen).
Ma l’iconografia artistica della Grande Guerra rivela anche altri aspetti, inerenti alla salvaguardia del patrimonio museale dai bombardamenti aerei e soprattutto dell’artiglieria. Il 13 febbraio 1917, le autorità tedesche spostano da Colmar a Monaco di Baviera il celebre trittico di Grünewald, che viene restaurato ed esposto al pubblico per la prima volta in Germania: « Erano organizzate delle escursioni per coloro che non abitavano in città, davanti all’altare di Issenheim si recavano i soldati feriti, i mutilati, si celebravano i servizi religiosi » (in Moxey, 2017, p. 149, trad.). Alla fine della guerra l’altare ritorna in Francia, nella città riconquistata di Colmar, indignando una parte della stampa tedesca, ma sollecitando anche le prese di posizione nazionaliste di alcuni artisti tedeschi, che tendono a rivendicare Grünewald come « […] un artista fondamentalmente tedesco, proiezione anacronica dell’idea di Stato-nazione, ignota al XVI secolo, aggiungendo alle vestigia materiali del passato una dimensione commovente nel contesto della disfatta tedesca » (ibid., p. 150, trad.). Come affermava Hans Richter (in Sers, 1997, p. 116), la propaganda visuale si appropria della crocifissione di Matthias Grünewald, deplorando il suo ritorno in Francia o spingendosi a fare dell’artista tedesco un modello di spiritualità protestante o un precursore assoluto dell’arte espressionista.
Iconografia de l’art sacré
Fra i vari movimenti delle avanguardie artistiche, soprattutto gli espressionisti (non soltanto tedeschi, ma anche francesi, italiani, etc.) trattano i temi religiosi o mitologici per contestare le atrocità e le devastazioni del conflitto armato. Gli artisti combattenti, soprattutto, interpretano l’anacronismo della crocifissione di Gesù nel contesto di una guerra che non implica soltanto i combattimenti nelle trincee, ma anche le violenze contro le popolazioni civili. Con l’introduzione di motivi drammatici, come la pietra delle rovine e il fuoco degli incendi, le scene della crocifissione possono alludere alle invasioni e alle occupazioni dei territori, agli spostamenti coatti di popolazioni e alle esecuzioni sommarie. L’iconografia attinge al repertorio giudeocristiano, ma anche all’attualità degli eventi politici e militari, con l’inserimento di croci delle tombe cimiteriali, di cadaveri di soldati e vestigia belliche.
Fig. 6: George Desvallières, La Chiesa dolorosa, 1926, olio su tela con maruflaggio, 255x151 cm, Petit Palais, Parigi.
Fig. 7: George Desvallières, Riconciliazione, 1937, olio su tela, perduto, riproduzione fotografica (in Ambroselli de Bayser, 2015, p. 189, fig. 185).
Nel periodo interbellico, le memorie della Grande Guerra si conservano ancora nelle medaglie dei reduci, nei cimiteri militari, nelle lapidi e nei monumenti ai caduti. La croce e il crocifisso diventano quindi oggetti di un sovrainvestimento emozionale, di una proliferazione qualitativa e quantitativa, funzionando come pretesto per la propaganda visuale, ma anche come motivo per la creazione artistica che restituisce il sentimento del lutto e della perdita. Dal 15 novembre 1919, nel contesto postbellico, sono organizzati in Francia gli Ateliers d’art sacré, guidati da Maurice Denis e George Desvallières, quest’ultimo reduce dal fronte con il grado di capitano (Fig. 6-7)[10]. In aperta opposizione all’accademismo sulpiziano[11] delle belle arti francesi e alle avanguardie artistiche come l’espressionismo tedesco, il razionalismo olandese o il cubismo descritto dalla critica d’arte di Apollinaire (Francia, 1960, n.p.), gli Ateliers d’art sacré privilegiano il sistema logistico delle corporazioni artigianali del medioevo cristiano (il compagnonnage), organizzandosi in una rete sociale di laboratori creativi che forniscono opere e oggetti d’arte con la collaborazione dei preti cattolici e delle confraternite domenicane, delle associazioni giovanili e degli scout. Sono soprattutto questi artisti francesi ed europei a rinnovare un’iconografia cattolica di afflato universalizzante, attraverso interventi in numerosi luoghi di culto (chiese, cimiteri, sacrari militari, etc.), ma anche con esposizioni e riviste che suscitano dibattiti. Sul piano intellettuale, l’ispiratore principale è il filosofo neoscolastico Jacques Maritain, l’allievo di Henri Bergson che incita a internazionalizzare il movimento associativo, chiamando nel suo circolo domestico pittori affermati e d’avanguardia come Gino Severini e Georges Rouault. E proprio sul piano dell’iconografia della crocifissione, nell’art sacré fioccano i temi moderni del cattolicesimo come il sacro cuore di Gesù, il milite ignoto e la corazza dorata di Giovanna d’Arco, la santa nazionale francese canonizzata da Pio X il 16 maggio 1920.
Nel 1917, Desvallières è impegnato come combattente al fronte e Denis è mobilitato nell’esercito francese, ma lontano dai combattimenti. Quest’ultimo presenta nel Bulletin du Salon d’Automne (Bonfils, 1917, n°6) dei disegni incentrati su temi devozionali come gli angeli e la Vergine Maria che sorreggono i cadaveri dei soldati, prefigurazioni concrete del milite ignoto. Nel dopoguerra, Desvallières restituisce una tipologia iconografica della crocifissione che più tardi costituirà un modello iconico di riferimento per i laboratori creativi di Henri de Maistre (Lavalle, 2003, p. 44-45). Si tratta della rappresentazione dell’unione, sulla croce, di una figura umana col Cristo dolente, declinata nelle versioni patriottiche della Vergine Maria protettrice dei caduti di Verdun (Fig. 6), del milite ignoto (Il milite ignoto sotto l’Arco di Trionfo, 1923, olio su tela, 120x143 cm, coll. privata), infine della Riconciliazione tra i reduci di guerra (Fig. 7): è questo un tema politico raffigurato in un bacio e abbraccio tra due uomini seminudi sotto la croce, intenti non più ad erigere muri separativi, ma ad abbatterli per costruire ponti di fratellanza. L’ambientazione scenografica del Golgota diventa quella del fronte della Grande Guerra, con le trincee e le spire del filo spinato.
La strategia figurativa che l’artista combattente adopera per restituire la dinamica scenica dell’accoppiamento è la sovrapposizione eterogenea di due figure in croce: fusioni che avvengono nel cuore della santa famiglia (Il Padre col Figlio, il Figlio con la Vergine Maria) o della patria (il milite ignoto col Cristo dolente)[12]. Nella Riconciliazione, Desvallières recupera un’allegoria della carità cristiana: due uomini nudi che si abbracciano e si baciano, Caino e Abele in un’ottica cattolica e francese (Ambroselli de Bayser, 2015, p. 354). Il dipinto, non localizzabile poiché perduto, è stato presentato per la prima volta al Padiglione Vaticano dell’Esposizione universale di Parigi nel 1937, infine riproposto all’Esposizione d’arte sacra moderna al Museo delle arti decorative nel novembre del 1938, dove la prefazione del catalogo è datata al ventennale dell’armistizio dell’11 novembre[13], a riprovare la correlazione tra i programmi iconografici e commemorativi. Desvallières ha rappresentato la crocifissione anche nelle decorazioni murali della cappella privata di Saint-Privat (Il grande sacrificio del Calvario, 1924, olio su tela con maruflaggio, 375x1273 cm, coll. privata), adottando una strategia figurativa che finalmente trova riscontro anche in Guerra e pace di Otto Dix, o in parte nella Risurrezione di Max Beckmann, seppure in Desvallières la figura di Gesù crocifisso e risorto faccia una comparizione decisamente più epica che anti-eroica sulla scena drammatica del Golgota.
Trasposizioni: memorie e contro-memorie
Iconografia del sacrificio
Fig. 8: Émile Othon Friesz, Gli orrori della guerra, 1915, olio su tela, 300x260 cm, Musée des Beaux-Arts, Grenoble.
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Fig. 9: Christopher Nevinson, Il culto infinito del sacrificio umano, 1934, olio su tela, 46x61 cm, Imperial War Museums, Londra.
Le raffigurazioni artistiche della crocifissione rievocano e talvolta revocano, ossia rigettano, ma salvaguardandone la memoria, i disastri della guerra, notificando per via allusiva o elusiva le violenze, i sacrifici e le perdite umane. Artisti combattenti come il pittore francese Émile Othon Friesz e l’inglese Christopher Nevinson dipingono degli olii su tela (Fig. 8-9) utilizzando il motivo iconologico della crocifissione come fulcro spaziale di un movimento di condensazione dei simboli e delle figure. Si tratta di immagini patriottiche, certo, ma dotate di un’ingente forza emotiva poiché esibiscono la connivenza di oggetti eterogenei, come i monumenti del patrimonio e le armi distruttive. Come ha osservato François Bœspflug in merito al processo di mondializzazione del tema iconografico della crocifissione nel corso del XX secolo, nelle opere degli artisti visivi, come i pittori, i rinvii ai disagi dell’epoca contemporanea coinvolgono « […] l’inserzione di motivi facilmente identificabili (soldati della Prima Guerra mondiale, croci dei cimiteri, timbri tricolore) » (Bœspflug, 2019, p. 361, trad.). Queste simbologie grafiche e cromatiche ricorrono nelle opere visive degli espressionisti originari di diversi paesi europei, come in quelle degli artisti aderenti al movimento internazionale dell’arte sacra, avviato alla fine del 1919 dagli Ateliers d’art sacré in Francia (Fig. 4-6).
Tornato ferito dal fronte, nel giugno del 1915, Friesz esegue un dipinto di grande formato (Fig. 8), a suo parere « […] una tela ambiziosa, michelangiolesca, un vero giudizio universale ispirato dalla guerra » (in Martin, Aittouarès, 1995, p. 24, trad.). Attraverso le testimonianze scritte, ritroviamo ancora una volta il motivo concomitante della risurrezione di Cristo, come nelle lettere dal fronte di Max Beckmann (Beckmann, 2002, p. 158). Il dipinto di Friesz rappresenta una sintesi degli episodi della guerra di movimento del 1914, che condensa icone popolari e simboli del potere dispotico desunti dalla storia universale del cristianesimo: la cattedrale gotica, la sfinge egizia, etc. I marescialli di campo Joffre e French galoppano sotto la protezione di un’odalisca di ispirazione matissiana, mentre le truppe francesi di fanteria si lanciano all’assalto con le baionette, un po’ come nelle scene edulcorate dei giornali illustrati. Intanto i villaggi bruciano e il paesaggio multifocale costruito attorno al fulcro simbolico del Cristo dolente, crocifisso sulla facciata della cattedrale di Reims, si popola di figure umane che ricordano il nudo michelangiolesco. Il motivo della crocifissione funge da operatore simbolico disgiungendo la composizione in due campi contrapposti di forze strutturanti: da una parte gli Alleati, i soldati della Triplice Intesa che si battono sotto il Cristo dolente, dall’altra i nemici che costeggiano il diavolo degli inferi, un’allegoria dell’imperatore tedesco Guglielmo II, all’epoca molto diffusa nella caricatura politica.
Nell’estate del 1915, Friesz raffigura una sintesi visiva della guerra di movimento, con l’invasione del Belgio e di una parte del nordest della Francia, ma anche con la vittoria degli Alleati nella battaglia della Marna. Invece, l’opera pittorica di Christopher Nevinson (Fig. 9) mette in scena, nel contesto commemorativo degli anni Trenta, un’allegoria della storia militare dell’impero britannico, erede della spada di san Giorgio e custode della chiesa anglicana. Il dipinto, esposto nel 1937 (Walsh, 2002, p. 210), raffigura una gigantesca parata militare di cavalieri che si svolge nelle brume di un campo di battaglia cosparso di cadaveri e corredato di cimiteri, attorno al fulcro spaziale e simbolico del Cristo dolente, mentre la Vergine Maria si allontana addolorata dalla scena. Bisogna notare che nell’iconografia della crocifissione di Gesù, prodotta dagli artisti combattenti della Grande Guerra, generalmente c’è poco spazio per la compassione delle molte donne che i vangeli sinottici situano davanti al corpo crocifisso del Redentore. Al contrario, figura quasi sempre e soltanto la Vergine Maria, che si allontana e si contiene nel suo dolore, portandosi le mani al volto, coprendosi con la veste, oppure contemplando il corpo del sacrificato (Fig. 4-5-6-9). Un prototipo iconografico del campo di battaglia cosparso di cadaveri poco visibili, perché schiacciati dalle formazioni di figuranti, si trova invece nella Battaglia di Alessandro di Albrecht Altdorfer (1529, olio su tela, 158.4x120.3 cm, Alte Pinakothek, Monaco di Baviera). La medesima associazione dell’obice col crocifisso, dell’arma al simbolo religioso che ricorre nel dipinto di Nevinson (Fig. 9), si riscontra anche nell’opera pittorica di Friesz, dipinta vent’anni prima (Fig. 8). L’artista inglese allestisce una scenografia allegorica che accentua maggiormente il contrasto di profondità, per suggerire la continuità di passato e futuro nella memoria del sacrificio patriottico: i cavalieri medievali inglesi sfilano con l’aviazione e l’artiglieria moderna, mentre le bandiere nazionali dell’Inghilterra e dei paesi alleati militarmente chiudono il sipario eroico della scena di mobilitazione e di vittoria. Nevinson collega l’iconografia di San Giorgio e della crocifissione, elaborando il motivo agiografico dei santi militari, come Desvallières fa con Giovanna d’Arco (Fig. 6) o come altri artisti fanno con i rispettivi santi nazionali. Ancora una volta, come nelle reliquie e nel sangue cristico, il sacrificio militare dei combattenti trova una potente similitudine col culto cristiano dei martiri.
Iconografia sacrificale
Le figurazioni delle reliquie e dei martiri si inseriscono appieno nella scena del Golgota, accanto a temi concomitanti desunti dai vangeli, come, soprattutto, la flagellazione o la risurrezione di Cristo, episodi che implicano una comune funzione strutturale nel racconto della passione. Più che una questione di tecniche o di formati, il repertorio giudeocristiano permette agli artisti di rappresentare temi umanistici e unanimistici. Tuttavia, ad eccezione de l’art sacré, difficilmente le testimonianze iconografiche della crocifissione trovano spazio nei luoghi di culto, relegandosi piuttosto ai monumenti ai caduti o ai cimiteri militari, sorta di musei a cielo aperto della scultura monumentale del periodo interbellico. È importante non sottostimare la varietà delle rappresentazioni né delle testimonianze artistiche della guerra, primariamente perché si legano ad una tradizione, ma anche perché, talvolta, si commisurano alla memoria collettiva del conflitto armato per formularne un giudizio critico e storico. Max Beckmann e Otto Dix introducono una tipologia iconografica inedita del Cristo dolente con la testa calva, che volta le spalle chinando il capo, tenendo le braccia conserte, oppure solleva tre dita della mano sinistra in segno di fratellanza pacifica, uscendo dal sepolcro verso l’umanità. George Desvallières o Henri de Maistre conservano invece il prototipo del Cristo dolente, aureolato e coronato di spine, fulcro della pietà cattolica e della metafisica della compassione (Fig. 6-7). Friesz e Nevinson recuperano modelli iconografici e moduli architettonici (la cattedrale gotica, il crocifisso ligneo), usandoli come fulcro spaziale e simbolico della narrazione visiva di un avvenimento della storia nazionale: la guerra di movimento con la battaglia della Marna (Fig. 8), la mobilitazione generale con la legge di coscrizione nazionale obbligatoria (Fig. 9).
Fig. 10: Wilhelm Morgner, Crocifissione, 1917, punta secca, dimensioni sconosciute, coll. privata.
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Fig. 11: André Masson, Massacro alla crocifissione, 1933, inchiostro di penna su carta, 47x63 cm, Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid. ©Adagp, 2022, Paris.
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Infine, c’è un’altra variante della crocifissione di Gesù, declinata specialmente alla maniera espressionista o surrealista, in cui la scena collettiva del Golgota ospita un teatro della violenza sacrificale e della crudeltà, revocando a maggior ragione la causa razionale della guerra. Le crocifissioni delle opere grafiche di Wilhelm Morgner e di André Masson (Fig. 10-11), artisti combattenti nella fanteria e feriti al fronte occidentale (Morgner muore in combattimento a Langemark nel 1917), esemplificano la violenza estrema delle rappresaglie contro le popolazioni civili, ma senza riferimenti espliciti né ai fatti storici né ai motivi tradizionali dell’iconografia devozionale cristiana. I simboli religiosi, invece di condensarsi, in queste immagini incise o disegnate si dilatano per dare voce al grido dell’agonia di Gesù nell’eclissarsi della luce solare e della sua vita (Fig. 10), oppure per dare forma alla reliquia del teschio adamitico che Masson sostituisce al volto figliale (Fig. 11), prefigurando una lunga ricerca sull’acefalia e sul rito della decapitazione intrapresa nel periodo interbellico, anche insieme allo scrittore Georges Bataille. Sono queste, forse, le espressioni tra le più drammatiche della crocifissione nelle arti visive della Grande Guerra, quelle del grido dell’abbandono e del teschio adamitico, che ricorda come il Golgota non indichi solo il luogo della crocifissione di Gesù, ma anche della sepoltura di Adamo, il « primo uomo » secondo la tradizione veterotestamentaria. Come in Morgner (Fig. 10) o in Desvallières (Fig. 7), oppure nel « sole nero » della Risurrezione incompiuta di Beckmann, in Masson la crocifissione è ambientata sullo sfondo dell’eclisse solare, secondo la narrazione ambientale dei vangeli sinottici. Inoltre, la crocifissione di Masson è anche incorniciata sulla parete interna di una dimora oltraggiata da degli invasori dove si consumano le peggio efferatezze della legge: furti, stupri, omicidi (Fig. 11). Sebbene sia relegata alla semplice funzione di quadro prospettico, come nella logica figurativa di una mise en abyme, nella stilizzazione grafica del corpo crocifisso si riconoscono l’eclisse solare e il sangue che cola dal costato del Cristo dolente. In queste scene di violenza parossistica, la crocifissione non è più il fulcro di una narrazione visiva, ma lo sfondo decentrato di una scena collettiva dove gli insorti del mito del cristianesimo sono repressi non più con gli obici e gli aeroplani, ma con i coltelli e con le fruste. D’altronde, la connivenza reciproca di armi arcaiche e moderne è uno dei paradossi visuali della Grande Guerra che hanno marcato profondamente la produzione di immagini.
Conclusione
Gli episodi evangelici precedenti o successivi alla crocifissione di Gesù di Nazareth, come la flagellazione e la risurrezione, qualche volta trovano spazio a margine delle scene del Golgota nelle opere di diversi artisti combattenti, soprattutto quando si tratta di decorazioni eseguite su supporti di ampio respiro. Gli esempi più probanti e nondimeno spettacolari si trovano nelle pitture murali di Otto Dix (Guerra e pace, 1960, Sala comunale di Singen) e di George Desvallières (Il grande sacrificio del Calvario, 1924, Cappella di Saint-Privat), due « summe monumentali » della crocifissione nelle arti visive della Grande Guerra che testimoniano di motivazioni espressioniste e di vicissitudini autobiografiche. Talvolta risulta difficile isolare tali episodi evangelici dallo scenario del Golgota, scomponendo ulteriormente l’analisi di queste figurazioni. Anche le testimonianze scritte degli artisti combattenti, infatti, come lettere e diari, rammentano questi passi dei vangeli quando descrivono e raccontano la sofferenza, la pietà e la morte, prendendo come termine di confronto il ciclo della passione di Cristo. Nelle scene della crocifissione, inoltre, le figure simboliche dei santi e delle pie donne trovano pochissimo spazio, per lo più riservato alla lamentazione della Vergine Maria.
Nelle rappresentazioni delle arti visive, il motivo drammatico della crocifissione (il Cristo dolente) origina un processo empatico che si apre alla ricezione estetica, un effetto di condensazione dei simboli religiosi, ma anche di movimentazione dialogica delle figure che, quando si muovono, in qualche sorta ci commuovono, suscitando l’emozione e invitandoci anche a coltivare l’apertura degli orizzonti conoscitivi. È importante riconoscere la funzione iconografica, psicagogica e nondimeno sociopolitica dei dettagli, che spesso traspongono visualmente materiali ricavati dai racconti sulle reliquie, dalle agiografie, o ancora dalle riflessioni teologiche sul significato della conversione e del martirio. Si tratta, in fin dei conti, di reinterpretazioni di una figura simbolica che accomuna generazioni e civilizzazioni diverse, continuando a suscitare passioni, interessi e dibattiti in un mondo contemporaneo che non cerca più soltanto la salvezza, ma esige anche e soprattutto la giustizia.
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[1] Marco Falceri, docteur en histoire contemporaine de l’Université Paul-Valéry Montpellier 3, email de contact : marcofalceri@yahoo.com
[2] Le arti visive designano un campo sperimentale dell’empatia. In quanto « nozione duttile » (Pinotti, 2014, p. 8) applicabile nell’ordine delle apparenze, l’empatia designa un’idea della relazione di reciprocità, la cui storia comincia con Platone e prosegue con la paleoantropologia, l’ecologia e le neuroscienze.
[3] L’empatia non si crea soltanto in una relazione simmetrica, né con l’identificazione tra il l’Io e l’Altro o tra il Soggetto e l’Oggetto. Mettersi al posto dell’Altro non significa sostituirsi né prendere il suo posto, ma tenersi accanto, afferrarlo, tendersi. I fenomenologi invitano a cogliere la complessità interazionale e costitutiva della relazione empatica, che può coinvolgere allo stesso tempo uomini, donne e bambini, ma anche animali e piante.
[4] La mostra Corps crucifiés. De Pablo Picasso à Francis Bacon opera la retrospezione del tema iconografico della crocifissione nelle arti visive e in particolare nella pittura moderna del XX secolo, prendendo come termine di confronto il trittico di Grünewald (Musée Picasso, Musée des Beaux-Arts de Montréal, 1992, p. 84-107).
[5] Secondo questi studiosi, le opere più emblematiche della Grande Guerra sarebbero Ecce Homo (1915-1923) di George Grosz (Bœspflug, 2019, p. 345) e Miserere (1917-1948) di Georges Rouault (Dall’Asta, 2015, p. 131). Tuttavia, queste serie incise tematizzano episodi evangelici precedenti alla crocifissione, come l’ecce homo, oppure racconti leggendari successivi, come il santo volto.
[6] Il termine anacronismo delle immagini non va inteso come un’impurità rappresentativa dell’opera d’arte, né come un errore di attribuzione storiografica, ma come una risorsa per pensare l’ingiunzione o l’insorgenza di temporalità eterogenee. Impiegando questa nozione, Annette Becker stabilisce una classificazione tipologica dei temi iconografici del cristianesimo confrontati alle rappresentazioni della Grande Guerra, ma la studiosa non giustifica il suo discorso teorico con delle prove iconografiche consistenti.
[7] Si tratta di periodici prodotti negli accantonamenti delle retrovie e destinati ad un pubblico maschile di soldati.
[8] Nella fattispecie, si tratta della croce di ferro (Eisernes Kreuz).
[9] Il motivo del sangue cristico acquisisce una funzione teologico-politica con la scena del Golgota: la piaga, le stigmate, il teschio adamitico, i chiodi, la lancia e il volto santo sono tutti motivi della dottrina dell’incarnazione che se i teologi descrivono nei loro limiti formali, i mistici della cristianità raccontano nelle loro forze plastiche. Nelle immagini della visione mistica della crocifissione di Gesù, per esempio, alcuni santi vengono « allattati » (cioè bagnati) dal sangue cristico (p. es. san Bernardo, san Francesco, etc.). Inoltre, nel caso di san Giovanni della Croce, egli stesso disegna la crocifissione da una prospettiva laterale e sopraelevata, immedesimandosi nello sguardo di uno dei condannati a morte. C’è un altro tema infine che attinge dai vangeli, di carattere ambientale e scenografico: alla crocifissione di Gesù, sarebbe avvenuta un’eclisse solare storicamente mai comprovata (Tradigo, 2013, p. 158 e p. 322-323).
[10] Nel 1926, la direzione della società è affidata ancora ad un artista reduce dal fronte, Henri de Maistre.
[11] Si intende qui la produzione massiva di immagini e di oggetti devozionali concentrata dalla fine del XIX secolo nel quartiere parigino di Saint-Sulpice. Normalmente, nelle testimonianze degli artisti l’espressione art sulpicien trova una connotazione peggiorativa, sinonimo di un aspetto convenzionale e talvolta di cattivo gusto.
[12] Il tema iconografico dell’accoppiamento delle figure in croce si riscontra anche in alcune espressioni della pittura monumentale di epoca fascista, come, per esempio, nella crocifissione che l’artista non-combattente Tito Chini realizza per la decorazione murale del Sacrario militare del Pasubio (1926).
[13] Espongono non solo artisti cattolici, ma anche artisti ebrei come Marc Chagall, Renée e Josette Foatelli. Fra gli artisti ex-combattenti, oltre Desvallières e de Maistre, prendono parte anche André Derain, Charles Dufresne, Jean Hugo, René Iché, Jean Lambert-Rucki e Bernard Naudin, ma senza presentare opere emblematiche della Grande Guerra (Pichard, 1938, n.p.).