« S’io veggio ’l sasso, penso a la sua doglia »
Èkphrasis e dispiegamento emotivo nella trattatistica d’arte del Cinquecento
Elena Paroli[1]
La macro-questione del parallelo delle arti è stata senza dubbio un motore di sviluppo maggiore tanto per le lettere quanto per le arti figurative, il cui confronto, benché presente sin dall’Antichità (Zanker, 2003, p. 59-62), ha assunto in epoca rinascimentale una particolare rilevanza di natura spiccatamente agonistica (Kristeller, 1998, p. 179-244). Attuando una colpevole schematizzazione si potrebbe affermare che il primo Rinascimento si è maggiormente contraddistinto per il tentativo, da parte della pittura, di rivendicare il suo statuto di arte liberale attraverso un’opera di intellettualizzazione delle arti figurative: se Alberti ha sottolineato come la compositio delle figure dipinte sia parallela alla costruzione di un discorso[2], Leonardo, portando la questione alla sua acme, ha tentato di affidare alla forma fissa della pittura ciò che vi è di più effimero e transeunte in seno al reale: il moto universale (Laurenza, 2006, p. 235-241). Il Rinascimento più tardo ha invece visto l’insorgere del fenomeno opposto: la diffusione senza precedenti di trattati, dialoghi e dibattiti epistolari sull’arte (Motolese, 2012, p. 111-112) ha posto in primo piano un’ampia e proteiforme riflessione sui limiti e sulle possibilità rappresentative della letteratura, chiamata a ricostruire sulla pagina la vivezza dell’immagine dipinta[3]. E proprio la questione dell’enargheia, la forza visiva che la parola può trasmettere (Manieri, 1998), assume in epoca rinascimentale un tratto specifico: contrariamente a quanto accadeva nella retorica antica, ove il genere ecfrastico rinviava alla minuziosa descrizione di svariate forme del reale (Webb, 1999, p. 7-18), nel corso del Cinquecento l’èkphrasis si focalizza in larga misura su un serrato parallelo con la pittura, a sua volta considerata come la sola fedele e vivente[4]imitazione del reale. Il fatto che la rappresentazione pittorica superi, nei commenti dei contemporanei, la realtà stessa[5]implica una sfida particolarmente ardua per la letteratura poiché incuneata nella sua capacità a rendere visibile il mondo fenomenico; un limite ben presente nei dibattiti dell’epoca, giacché la poesia era definita, con una formula che è nel Cinquecento ormai luogo comune, « una pittura cieca »[6].
Nelle riflessioni che seguono vorremmo analizzare alcune espressioni del genere ecfrastico che costituiscono un ampliamento rispetto agli argomenti tradizionalmente convocati all’interno della pura forma agonistica del paragone; altrimenti detto, queste ekphráseis non si pongono più come obbiettivo il solo superamento della vividezza dell’immagine dipinta, ma scelgono una via certo più consona alla parola, quella dell’interpretazione dell’opera d’arte. In particolar modo ad interessarci sono una serie di ekphráseis che pongono l’accento sull’interiorità delle figure dipinte, ove la descrizione non è più ancella della pittura ma strumento che fa dire all’immagine ciò che essa da sola non dice. E non solo: benché i teorici della pittura del primo rinascimento abbiano insistito sulla necessità della precisione nella resa dei moti dell’animo (vero e proprio legame emozionale che deve unire opera e spettatore)[7], la scrittura ecfrastica amplifica tale aspetto attraverso il ruolo preponderante dato all’Io narrante, in quanto in gioco non vi è più solo la narrazione relativa all’oggettiva forma dei soggetti dipinti, ma anche – se non soprattutto – l’emozione soggettiva che il letterato-spettatore percepisce alla vista di quelle figure. Un approccio di questo tipo, in cui la dimensione umana insita nell’opera si fonde con il mondo interiore di chi la osserva, è uno dei frutti di quella che Batkin definisce l’« idea di individualità » nel Rinascimento, in cui la retorica del discorso diventa « l’elemento di un “Io” prima sconosciuto » (Batkin, 1992, p. 42). Proprio per questa ragione esaminare l’attenzione che le ekphráseis riservano al moto interiore delle immagini dipinte può permetterci di cogliere, almeno in parte, alcuni caratteri precipui dell’epoca, la sua « struttura della visione » (Alpers, 1984).
Un’importante testimonianza della correlazione fra espressione dell’interiorità e scrittura è data dal dialogo Il Figino, overo del fine della pittura in cui l’autore, Gregorio Comanini, dovendo discettare di chi ami « più teneramente » le proprie invenzioni, se il poeta o il pittore, vi afferma senza esitazione:
Il poeta, stimo io, come quelli che fabbrica la materia e la forma del suo poema: la materia, che è la favola, e la forma, che è l’ornamento e ‘l vestimento de’ suoi concetti […]; quando il pittore, avendo la materia delle sue immagini dalla natura, cioè i colori […] altro non fa che introdurre la forma nella materia e vestirla: onde il pittore produce una sola parte della sua opera, e ‘l poeta il tutto. Perché dunque tutto quello che si ritrova nelle imitazioni poetiche è del poeta, ma non tutto quello che si ritrova nelle imitazioni della pittura è del pittore, nasce che l’uno sia più tenero amatore delle sue immagini, che l’altro non è. (Comanini, [1591], in Barocchi, tomo I, 1971, p. 402-403. Corsivi nostri).
Il profondo legame che il poeta ha con la propria opera deriva dal fatto che quest’ultima sia il frutto di una totale emanazione della sua intelligenza. Altrimenti detto, ogni singolo elemento del testo poetico è di volta in volta creato dall’ingegno dell’autore, che nulla trova di “prefabbricato” in natura, a differenza di quanto accade ai pittori[8]. Ed è sempre basandosi su questa distinzione fra invenzione ex nihilo ed elaborazione di una materia già esistente che, nello stesso dialogo, il Comanini insiste sulla presenza di due forme imitative, ove la seconda è superiore alla prima: quella icastica (appannaggio della pittura e dedicata alla mera riproduzione del vero reale) e quella fantastica, prodotto dell’immaginazione dello scrivente che mescola, in conformità con il suo sentire, realtà e immaginazione. Una simile concezione dell’atto poetico, considerato come suprema forma di espressione in quanto manifestazione della soggettività dell’autore, inizia a diffondersi proprio a metà Cinquecento, ovvero nel momento in cui la teoria imitativa di Aristotele, fondata principalmente sulla mimesi delle azioni esteriori, viene progressivamente messa in discussione in favore di un’imitazione dell’interiorità del narratore, sia essa espressa in prima persona o attraverso le voci dei suoi personaggi (Mazzoni, 2005, p. 110 e sgg.). A ciò si aggiungono i rigidi orientamenti post-tridentini che stavano prendendo forma in quegli stessi anni: se l’immagine deve nuovamente avere una funzione essenzialmente didascalica, l’inventività del pittore ne esce giocoforza ridotta, in quanto la pittura è relegata a dimostrazione e esemplificazione di ciò che è trasmesso nelle Scritture[9]. Allo stesso tempo, proprio il Concilio di Trento sarà alla base della centralità data, attraverso la parola, all’interpretazione emotiva dell’opera d’arte: la commozione provata dai poeti alla vista dell’effigie della Vergine e di qualsivoglia episodio biblico portava infatti al suo massimo grado la sopradetta “funzione pedagogica” che le immagini dovevano d’ora in avanti possedere. In questo senso, il rapporto fra la descrizione delle opere d’arte e l’empatia deve essere inteso anche, se non soprattutto, quale risultato di un determinato contesto storico e politico.
Il concatenarsi di questi diversi fattori è dunque alla base, come abbiamo poco sopra ricordato, della particolare direzione assunta dal genere ecfrastico, che non imita l’imitazione pittorica[10] ma, letteralmente, la magnifica attraverso la duplice attenzione per l’emotività delle figure rappresentate e dell’osservatore narrante. Se analizziamo, ad esempio, le Stanze sopra le Statue di Laocoonte, di Venere e d’Apollo (1539) del poeta ascolano Aurelio Morani (1485-1554 c.), possiamo notare come la descrizione del gruppo scultoreo[11] sia l’occasione per esprimere al contempo la sofferenza del sacerdote troiano (la cui passione, seguendo un topos della trattatistica d'arte, viene trasformata dalla scrittura in parola dolorosa[12]) e quella dell’autore stesso, siglata dall’uso della prima persona:
S’io veggio ’l sasso, penso a la sua doglia;
E pensando a la doglia, penso al sasso;
Poi l’un con l’altro di pensier mi spoglio,
Sì ch’in altrui giudizio ambidue lasso,
Perché veder non so come scioglia
L’alma l’intenso duol dal corpo lasso
O, se pur alma in sasso non si trova,
Come tanto martir sopra gli piova.[13]
Il dispiegamento sentimentale dell’opera è dato dalla rifrazione di piani che l’èkphrasis crea: il lettore del Morani si trova infatti di fronte alla narrazione del dolore che il dolore di una rappresentazione artistica instilla in chi la osserva. Si noti la finezza del pensiero poetico che si fa, alla vista della pietra dolente, esso stesso macigno da portare, risolto nella rima sasso/lasso[14]. Si noti altresì come lasso sia utilizzato in funzione ambivalente, verbale e aggettivale: l’anima, essendo incapace di rimediare al dolore del corpo sfinito e sofferente (lasso), porta il poeta a rinunciare (io lasso) ad una riflessione a tal punto sofferta. Di conseguenza, l’opera d’arte non si limita a rappresentare il patimento, ma se ne fa sua stessa incarnazione, in un cortocircuito in cui la sola vista del sasso evoca la doglia, e viceversa. Ciò che rende poi i versi del Morani degni di nota, è il ritmo del pensiero nel suo sviluppo: l’emotività dell’autore non è statica, immobilizzata dalla pena, ma còlta in una progressione dinamica; in prima istanza, il poeta evoca il sopradetto cortocircuito, a seguito del quale decide di abbandonare il pensiero del Laocoonte (delegato « in altrui giudizio »), salvo poi ritornarvi prontamente nei quattro versi finali, in cui non riesce a trovare risposta rispetto alla risoluzione della sofferenza piovutasulla pietra e offerta alla sua vista. La mobilità dell’animo, sia essa manifestata dalla figura rappresentata o dal suo osservatore, è un altro carattere precipuo facente dell’èkphrasis un accrescimento emotivo. I teorici del Cinquecento sembrano d’altronde profondamente persuasi dall’idea che il continuo scandaglio dell’umano sentire sia terreno privilegiato della sola letteratura: nonostante le sopracitate riflessioni dell’Alberti e di Leonardo sull’importanza della resa dei moti dell’animo in pittura, larga parte della trattatistica d’arte successiva, di nuovo impegnata nel paragone delle arti, ritorna sul vecchio adagio secondo cui la pittura si dedicherebbe maggiormente alla riproduzione della forma esterna degli esseri umani, mentre quella dei moti interiori è lasciata alla poesia.[15] Non a caso numerose sono le ekphráseis in cui la resa verbale della potenza visiva dell’immagine lascia il posto alla minuziosa descrizione dell’invisibilità dello stato d’animo del personaggio rappresentato, con una particolare attenzione, come ci ha mostrato il Morani, proprio per l’idea di movimento, di progressione emotiva e finanche di contraddizione rispetto ai sentimenti che la figura esprime.[16]
Alla contemporaneità di stati d’animo opposti si rifà anche il sonetto tassiano Sopra il ritratto di San Giovanni Battista, facente parte delle Rime sacre: si tratterebbe, secondo l’ipotesi formulata recentemente da Morando (Morando, 2016, p. 19-36), di quelle che Hollander definisce « notional ekphrasis » (Hollander, 1988, p. 209-219), ovvero di una descrizione di opere d’arte non esistenti nella realtà. Il dato non ci allontana dal nostro proposito, ma anzi lo rafforza, nella misura in cui il fatto di assistere, nel tardo Cinquecento, tanto a delle descrizioni immaginarie che a delle pitture « di ricostruzione »[17] altro non è che un segno ulteriore della molteplicità e varietà di rapporti che si instaurano fra poesia e pittura nel prolungarsi del dibattito sul paragone delle arti. A questo proposito, il dipinto probabilmente immaginato da Tasso costituisce un esempio notevole di come la parola cerchi di portare la sua attenzione su ciò che sarebbe difficilmente esprimibile in pittura, ovvero la dimensione limbica e proteiforme del San Giovanni:
Eccovi il don de l’onorata testa
di lagrime sì degno e di sospiri,
ecco la faccia scolorita e mesta,
in cui viva è la morte e par che spiri.
Ecco per bene oprar gli aspri martiri:
muta è la bocca già sonora, e ‘n questa
vita mortale anco richiama e desta
l’alta sua voce a gli stellanti giri.
E ‘n gran deserto pur rimbomba, e intanto
l’Agnel di Dio vi mostra: udite il suono,
che nulla dopo morte al mondo estingue.
Ma fredda lingua accende ardenti lingue:
o di mano empia già spietato dono,
o spettacol crudel, ma sacro e santo
(Tasso, 1994, p. 1901-1902).
Il rapporto complesso ed evolutivo che il Tasso intrattiene con la religione ci impedisce di ridurre il testo ad una messa in rilievo post-tridentina del dogma della risurrezione della carne (Ardissino, 2003, p. 612-613). Piuttosto, come annota Flora, è la « profondità degli opposti sentimenti che chiedono di farsi luce in una raggiunta armonia » a suggerire, nel Tasso, « una maniera intimamente religiosa di sentire la realtà » (Flora, 1976, p. 370). Per questa ragione il sonetto deve essere inteso innanzitutto dal punto di vista letterario, della concezione che il Tasso ha della letteratura come luogo di composizione « de’ contrari »[18]. Il ritratto del San Giovanni è così l’emblema di una fine sul punto della rinascita, in cui è la morte è così viva da parere sul punto di « spirare » (respirare) poiché tramite per la vita eterna. Allo stesso modo, la voce castrata del Santo (la « fredda lingua ») si sta tramutando, sotto gli occhi dello spettatore-narratore, in parola universale del senso del martirio e della resurrezione (« […] udite il suono, / che nulla dopo morte al mondo estingue »). A ben osservare il testo possiede solo sporadici elementi visivi, concentrando il pathos sull’intrinseca molteplicità di significati dell’immagine del Santo: ritornano qui in mente alcune note di Chastel nelle quali, indagando i rapporti fra pittura e scrittura nel Tasso, sottolineava come la presenza di evocazioni affettive avesse la meglio su quella di immagini concrete (Chastel, 1985, p. 195-204), quasi a confermare la preponderanza per un racconto dell’invisibile a scapito del veduto. È del resto proprio l’attenzione al dinamismo interiore a dare vita ad una descrizione che situa l’immagine in uno sviluppo temporale, acuendone di fatto la dimensione patetica ed umana. La testa martirizzata di San Giovanni da effigie diviene così fulcro di una narrazione[19].
La battaglia portata avanti dal Tasso per sottolineare la dimensione narrativa dell’èkphrasis può d’altra parte risultare in qualche modo anacronistica se pensiamo ad una figura come quella dell’Aretino, il quale diede per la prima volta forma « organica » e « militante »[20] a questo genere letterario. Se confrontiamo le ekphráseis dell’autore con le opere d’arte da esse descritte non possiamo non notare una costante eccedenza verbale che spinge la descrizione del dipinto verso una vera e propria produzione letteraria ex novo[21]. Tale creazione si fonda sovente sull’amplificazione dell’aspetto emozionale dei personaggi rappresentati, un procedimento che risulta, anche in questo caso, particolarmente efficace nel trattare i soggetti sacri. Da sapientissimo narratore qual è (come già sapeva il Vasari)[22], l’Aretino riesce infatti nel complesso compito di umanizzare sacralizzando e di sacralizzare umanizzando, come testimoniano le descrizioni dell’Angelo Gabriele e del Salvatore relative a due opere di Tiziano, un’Annunciazione (oggi perduta) e il Cristo deriso. Nel primo caso[23] possiamo leggere:
[Un] lume folgorante […] esce da i raggi del Paradiso, da cui vengono gli angeli adagiati con diverse attitudini in su le nuvole candide, vive, e lucenti. Lo Spirito Santo circondato da i lampi de la sua gloria, fa udire il batter de le penne, tanto simiglia la colomba di cui ha preso la forma. L’arco celeste, che attraversa l’aria del paese scoperto da l’albore de l’Aurora, è più vero di quel che ci si dimostra doppo la pioggia inver la sera. Ma che dirò io di Gabriele messo divino? Egli empiendo ogni cosa di luce, e rifulgendo ne l’albergo con nuova luce, si inchina sí dolcemente col gesto de la riverenza, che ci sforza a credere che in tal atto si appresentassi inanzi al conspetto di Maria. Egli ha la Maestade celeste nel volto, e le sue guancie tremano ne la tenerezza composta dal latte e dal sangue […]. Cotal testa è girata da la modestia, mentre la gravità gli abbassa soavemente gli occhi; i capegli contesti in anelli tremolanti accennano tuttavia di cadere da l’ordine loro. […] Il Giglio recatosi ne la sinistra mano, odora e risplende con inusitato candore. In somma par che la bocca, che formò il saluto che ci fu salute, esprima in note Angeliche “Ave” (Aretino, I, 1997, p. 316-317).
La descrizione è interamente attraversata da una dimensione al tempo stesso celeste e terrena che si annuncia già nella forma del paesaggio, la cui pura luce si materializza in forme più mondane: lo Spirito Santo che si incarna in una colomba così realistica da far intendere lo sbattere delle sue ali (elemento, quest’ultimo, che può essere osservato nel dipinto solo quando è messo in rilievo dalla parola); la luminosità dell’arcobaleno che non rassomiglia ad una landa metafisica ma al paesaggio dopo la pioggia, senza tuttavia togliere mistero alla scena[24]. In questo contesto fa la sua apparizione l’Angelo, la cui umanità è tanto più emotivamente rilevante per il fatto di aprirsi, come una faglia, all’interno di una sacralità compatta. In continuità con lo sfondo, anche Gabriele appare come una pura forma luminosa, che rifulgendo crea luce nuova. Eppure, è anch’esso immediatamente attraversato da una profonda umanità, da quel gesto di sottomissione e riverenza al cospetto della Vergine che trasmuta il racconto religioso in testimonianza concreta, atto di fede (« ci sforza a credere che in tal atto si appresentassi […] »). L’aria maestosa del volto è umanizzata dal tremore dell’incarnato e dall’umiltà dell’espressione dello sguardo. Ma il vero punctum è il dettaglio che l’Aretino dà rispetto alla chioma dell’angelo (« i capegli contesti in anelli tremolanti accennano tuttavia di cadere da l’ordine loro »), un aspetto che assume una connotazione prettamente emozionale grazie alla fine interpretazione dell’autore, che nota nei capelli una manifestazione supplementare dei moti dell’animo di Gabriele, pronti come sono a soccombere, sciogliendosi dai loro stessi ricci, davanti all’impatto emotivo dell’evento[25]. Come se non bastasse, ci viene detto che la chioma accenna a disfarsi: ancora una volta la liquidità della parola pone la cristallizzazione pittorica in una dimensione in fieri, in cui l’Arcangelo è sul punto di lasciarsi andare al tremore. L’enfasi data alla timidezza e all’incertezza dell’Annunciatore ha inoltre la funzione di creare una climax rispetto a quello che era verosimilmente l’altro centro focale dell’opera descritta dall’Aretino, l’umano timore della vergine all’annuncio della prossima maternità[26]. Non si tratta qui semplicemente di mettere in luce la sapiente resa naturalistica del pittore[27], ma di far nascere dall’opera d’arte un’opera letteraria tutta centrata sull’interiorità mobile delle figure. Per parafrasare il commento alla poetica aristotelica di Castelvetro, ove l’autore sottolinea come il genio del poeta non si illustri quando narra « cosa certa e conosciuta », ma quando descrive « cosa incerta né conosciuta in ispezialità » (Castelvetro [1576], in Barocchi 1971, tomo III, p. 2712-2714), è nella messa in rilievo delle ignote intermittenze interiori di ieratici personaggi sacri, nel tratto emotivo che scuote, per mezzo della scrittura, la certezza compositiva fissata dalla forma pittorica che l’Aretino realizza pienamente le sue abilità narrative. Lo stesso talento descrittivo si manifesta nell’èkphrasis contenuta in una lettera più tarda (risalente al gennaio del 1548) che l’Aretino indirizza sempre a Tiziano, ove elogia il suo Cristo deriso:
Di spine è la corona che lo trafigge, et è sangue il sangue che le lor punte gli fanno versare; né altrimenti il flagello può enfiare e far livide le carni, che se l’abbia fatte livide et enfiate il pennello vostro divino ne le immortali membra de la divota imagine. Il dolore in cui si ristringe la di Gesú figura, commove a pentirsi qualunche Cristianamente gli mira le braccia recise da la corda che gli lega le mani; impara a essere umile chi contempla l’atto miserrimo da la canna la quale sostiene in la destra; né ardisce di tenere in sé punto di odio e rancore, colui che scorge la pacifica grazia che in la sembianza dimostra. Talché il luogo u’ dormo non par più camera signorile e mondana, ma tempio sacro e di Dio (Aretino, IV, 2000, p. 200-201).
Non si può non notare un artificio meta-letterario, volto a mettere in luce il dolore del Cristo: nel descrivere come le pennellate di Tiziano si siano trasmutate in una sorta di flagello, tant’è realistica l’opera, l’Aretino usa uno stile affilato e realistico, ove la scrittura acuisce, attraverso la vividezza delle espressioni (« è sangue il sangue ») la verosimiglianza della scena dipinta. Se, in una concezione neoplatonica dell’arte, è la potenza visiva delle immagini a spingere gli osservatori alla devozione (Cacciari, 2019, p. 29-31), qui è la sottilità dell’interpretazione letteraria a dare alla scena narrata quella medesima forza icastica. Anche in questo caso, infatti, vi è nel ritratto psicologico della figura l’ambiguità data dall’accumulo di plurimi stati esistenziali e temporali, in cui il Cristo è al tempo stesso morente (la corona lo trafigge), morto (la braccia sono ormai recise) e risorto nella sua sempiterna pacifica grazia. Il potere quasi prodigioso dell’immagine che l’Aretino convoca nella conclusione del testo, secondo cui il dipinto di Tiziano sarebbe in grado di trasformare la stanza in cui si trova nel tempio stesso di Dio, fa sì che il pathos emozionale dell’opera d’arte si allarghi sino a contaminare lo spazio al di là dei limiti della cornice. È forse questa la perfetta illustrazione di come l’èkphrasis dispieghi progressivamente l’invisibilità plurivoca dei sentimenti umani[28] che la pittura può dare solo in un sol tempo.
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[1] Elena Paroli, post-doctorante, Labex Comod - Université de Lyon, E-mail de contact: elena.paroli@ens-lyon.fr
[2] « Voglio che i giovani, quali ora nuovi si danno a dipingere, così facciano quanto veggo di chi si impara a scrivere. Questi in prima separato insegnano tutte le forme delle lettere, […] poi insegnano le sillabe; poi appresso insegnano comporre tutte le dizioni » (Leon Battista Alberti, 2004, p. 262).
[3] Emblematico, a questo proposito, il capovolgimento che si opera nel paragone fra pittura e poesia tra primo e tardo Rinascimento: se negli anni ‘30 del ‘400 Alberti si sforza di rassomigliare la pittura alla scrittura (vedi nota 1), sul finire del Cinquecento, nel Dialogo della retorica di Sperone Speroni, è la formulazione del discorso ad essere comparata alla rappresentazione pittorica: « Diremo adunque che le parole nascono al mondo dalla bocca del volgo, come i colori dall’erbe; ma il grammatico, dell’orator famigliare, quasi fante di dipintore, quelle acconcia e polisce […] » (Speroni Sperone, [1596] in Barocchi,1971, tomo I, p. 261).
[4] La pittura « ti si dimostra in vita quel che in fatto è una sola superfizie »; (Leonardo da Vinci, 2019, p. 63. Corsivi nostri).
[5] Vedasi, a guisa di esempio, il commento dell’Aretino al San Giovanni Battista di Tiziano: « Del cremisi de la veste, e del cerviero de la fodera, non parlo, perché, al paragone, il vero cremisi, e il vero cerviero, son dipinti, et essi son vivi »; (Aretino, Lettere, I, 1997, p. 82).
[6] Secondo la celebre formula di Simonide di Ceo riportata da Plutarco (De Gloria Athenensium, 3,346f-347a) e ripresa, fra altri, da Leonardo: « E se tu dici che la pittura è una poesia muta per sé, se non v’è chi dica o parli per lei quello che la rappresenta, o non t’avedi tu che ‘l tuo libro si trova in peggiore grado perché, ancora che egli abbia un omo che parli per lui, non si vede niente della cosa di che si parla […] »; (Leonardo da Vinci, 2019, p. 51). Si noti poi come il concetto di “cecità” della poesia abbia assunto un carattere ambiguo sin dall’Antichità; Virgilio, introducendo l’èkphrasis dello scudo di Enea – una descrizione che consta di un centinaio di versi! – definisce l’oggetto in questione come « non enarrabile » (Aen. VIII, 626-731).
[7] Nel De pictura Alberti sottolinea la necessità di una rappresentazione pittorica capace di commuovere lo spettatore; da cui, l’attenzione per la riproduzione dei “moti dell’animo” delle figure dipinte: « Poi moverà l’istoria l’animo quando gli uomini ivi dipinti molto porgeranno suo proprio movimento d’animo » (Libro II, cap. 41). Leonardo riprenderà pienamente tale attenzione empatica, al punto di attribuire alla pittura un valore filosofico anche in virtù della sua capacità a cogliere l’interiorità delle figure, definite come « veramente compassionevoli »; Manoscritto A, f. 5r (secondo la foliazione proposta dal sito e-Leo della Biblioteca Vinciana).
[8] Si noti come questo argomento sia stato usato a sua volta dagli stessi pittori per vincere il paragone con la scultura, rea di trovare nella materia di cui è fatta tutta una serie di “invenzioni” già pronte : « La scoltura con poca fatica mostra quel ch’ell’è; la pittura pare cosa miraculosa a fare parere palpabile le cose impalpabile, rilevate le cose piane, lontane le cose vicine. In effetto la pittura è [o]rnata d’infinite speculazione che la scultura non le adopera »; (Leonardo da Vinci, ibid., f. 104r).
[9] Vedasi le considerazioni dell’Armenini rispetto al concetto di « invenzione » pittorica, concepita come una diligente rielaborazione delle cose attentamente lette nei testi sacri: « […] prima ciascun ben consideri con la mente e con l’animo, udito o letto ch’egli avrà il trattato di quella materia, cioè che cosa sia quella che egli ha in animo di rappresentare a punto, e qual sia l’effetto più vero, più proprio e più atto a esprimere, secondo che n’addita il discorso et il lume della scrittura predetta […] »;(Giovan Battista Armenini, [1586], in Barocchi, 1971, tomo III, p. 2532).
[10] Per riprendere Batkin, il culto dell’individualità fa sì che si debba « rendere l’imitazione inimitabile » (Batkin, 1992, p. 48).
[11] Per uno sguardo più generale sulla descrizione del Laocoonte nel tardo rinascimento rinviamo a Sonia Maffei, La fama di Laocoonte nei testi del Cinquecento, in Laocoonte. Fama e stile, a cura di Salvatore Settis, Donzelli, Roma, 1999, in cui si evocano anche i versi del Morani (p. 138-140).
[12] « Lasciando uscire ho mai dal fianco aperto / Il suon de i lunghi e gravi suoi sospiri » (st. 134, vv. 3-4); (citato da Torre, 2017, p. 445).
[13] Ibid., p. 448.
[14] Sullo sviluppo ecfrastico del rapporto fra scultura e pietrificazione dell’osservatore si veda Dal Cengio, 2019. Si noti altresì come l’autore sottolinei il valore ricorrente di tale tema nel Rinascimento: « Si dica intanto che il topos dell’animazione di una scultura, o viceversa della pietrificazione di un vivente […] conobbe un ampio riscontro anche nella tradizione ermetica rinascimentale connessa alla circolazione dell’Asclepius, trattato dedicato alla rianimazione delle statue » (ibid., p. 143).
[15] « La sua [del pittore] cura è rendere al visivo senso il vero », mentre « Il poeta tutte le discipline brama. […]. Per la qual cosa quanto l’animo al corpo è superiore, quanto l’immortalità alla mortalità si deve preponere, tanto la poetica la pittura d’eccellenzia avanza »; Mario Equicola, Discorso della pittura, in Barocchi, 1971, tomo I, p. 260. Ancora più esplicito è il Varchi, nella terza e ultima Lezzione (1547): « […] i poeti imitano il di dentro principalmente, cioè i concetti e le passioni dell’animo […]; et i pittori imitano principalmente il di fuori, cioè i corpi e le fattezze di tutte le cose » (ibid., p. 264).
[16] Una complessità e stratificazione interiori che nemmeno la pittura manierista riuscirà a esprimere visivamente, dovendo affidarsi, come dice Arasse, ad un « degré zéro » della passione: « Le peintre doit renoncer aux "mouvements du corps" - supposés faire voir les "mouvements de l'"âme" - car, en représentant dramatiquement un "mouvement de l'âme", le portraitiste en ferait la dominante tempéramentale de son modèle - ou ne choisirait qu'un moment passager de sa "disposition intérieure", alors que le genre du portrait vise à convoquer la totalité d'une présence dans sa figure. L'expression du portrait doit être […] celle de la Tranquillité, ce "degré zéro" de la passion […], qui les contient toutes virtuellement » (Arasse, Tönnesmann, 1997, p. 459).
[17] Ovvero pitture che si originano dalle loro descrizioni letterarie, come è il caso, nel rinascimento, per la Calunnia di Botticelli, tratta da una descrizione di Luciano e ripresa da Alberti nel De pictura (per la questione vedasi Maffei, 2015, p. 120-133).
[18] « […] l’arte del comporre il poema sarebbe simile a la ragion de l’universo la quale è composta de’contrari, come la ragion musica: perché se ella non fosse molteplice, non sarebbe tutta, né sarebbe ragione, come dice Plotino » (Tasso, 1959, p. 588-589).
[19] Nulla di sorprendente, del resto, se ricordiamo come sia stato proprio il Tasso a rivendicare con forza il carattere narrativo e non digressivo delle ekphráseis nel momento in cui dovette difendere la scelta di inserire ampie descrizioni di immagini all’interno della Liberata (per il tema rimandiamo a Zipoli, 2019, p. 103-122).
[20] «La critica d’arte militante, che si concentra cioè sulle opere degli artisti contemporanei, formulando giudizi di valore che mirano a orientare il gusto dei committenti e del pubblico, trova la sua prima embrionale espressione nei sei libri delle Lettere di Pietro Aretino […] » (Genovese, 2019, p. 211).
[21] All’interno dell’ampia bibliografia dedicata al tema, ci limitiamo a citare l’articolo di Norman E. Land, 1986, ove l’autore sviluppa il rapporto fra « Imitation », « Imaginatione » e « fantasia » negli scritti del Nostro.
[22] In uno studio recente (Stimato, 2009, p. 239-250), sono stati analizzati gli scambi epistolari fra l’Aretino e il Vasari, dimostrando come quest’ultimo abbia ripreso in diverse èkphrasis delle Vite formule stilistiche e immagini dell’Aretino.
[23] L’èkphrasis è tratta dalla lettera che l’Aretino invia il 9 novembre del 1537 a Tiziano, ove descrive l’Annunciazione che il pittore ha inviato a Isabella del Portogallo.
[24] Come sottolinea Gombrich spiegando il passaggio dal simbolismo pittorico medievale al naturalismo rinascimentale: « La resa convincente dello spazio e della luce in innumerevoli evocazioni della Natività, da Beato Angelico a Rembrandt, dimostra che la crescente padronanza dei mezzi per rappresentare la natura non indebolisce necessariamente il senso del mistero e della devozione » (Gombrich,1987, p. 97-98).
[25] Creando uno splendido contraltare ante litteram rispetto allo shakespeariano crine di Macbeth che si rizza all’annuncio dei vaticini delle streghe, vera e propria espressione corporea del terrore e delle ambizioni del personaggio: « If good, why do I yield to that suggestion / Whose horrid image doth unfix my hair / And make my seated heart knock at my ribs / Against the use of nature? […] » (Act. I, 3, vv. 147-150).
[26] Come appare in un’altra Annunciazione (1559-1564) di Tiziano conservata nella Chiesa del San Salvador di Venezia, in cui si osserva nella Vergine, secondo la più tipica iconografia, stupore misto a paura.
[27] Come farà molto più tardi Sciascia commentando la dimensione sacrale e contadina dell’Annunciata di Palermo di Antonello da Messina: « […] si noti la piega della mantellina che scende al centro della fronte: che per il pittore, al momento, avrà avuto un valore soltanto compositivo, ma a noi dice di un capo conservato nella cassapanca tra gli altri del corredo, e tirato fuori nei giorni solenni, nelle feste grandi; e si noti anche l'incongruenza, stupenda, della destra sospesa nel gesto ieratico (mentre è del tutto naturale al soggetto — diciamo alla donna contadina — il gesto della sinistra a chiudere i lembi della mantellina); e l'altra incongruenza di quel libro aperto, sul quale si ha il dubbio che mai gli occhi della giovane donna potrebbero posarsi a cogliere le parole e il senso; e poi il mistero del sorriso e dello sguardo, in cui aleggia carnale consapevolezza e nessun rapimento, nessuno stupore […] » (Sciascia, 1967, p. 5-7).
[28] A rivendicare la forza icastica dei testi dell’Aretino, vi è il celeberrimo passo in cui l’autore descrive la vista sul Canal Grande dalla sua casa veneziana. In questo caso è la letteratura a permettere al paesaggio naturale di trasformarsi in quadro, ove la scrittura si fa visione senza più necessitare il passaggio dalla pittura: « [...] appoggiate le braccia in sul piano de la cornice de la finestra, e sopra lui abbandonato il petto, e quasi il resto di tutta la persona [...] rivolgo gli occhi al cielo, il quale da che Iddio lo creò, non fu mai abbellito da cosí vaga pittura di ombre, e di lumi. Onde l’aria era tale, quale vorrebbono esprimerla coloro che hanno invidia a voi, per non poter esser voi, che vedete, nel raccontarlo io, inprima i casamenti, che benché sien pietre vere, parevano di materia artificiata; e dipoi scorgete l’aria ch’io compresi in alcun luogo pura e viva; in altra parte torbida e smorta. Considerate anco la maraviglia ch’io ebbi de i nuvoli composti d’umidità condensa. I quali in la principal veduta, mezzi si stavano vicini a i tetti de gli edificii, e mezzi ne la penultima. Peroché la diritta era tutta d’uno sfumato pendente in bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano. I piú vicini ardevano con le fiamme del foco solare; e i piú lontani rosseggiavano d’uno ardore di minio non cosí bene acceso. O con che belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là, discostandola da i palazzi con il modo, che la discosta il Vecellio nel far de i paesi. Appariva in certi lati un verde azurro, e in alcuni altri un azurro verde veramente composto da le bizarrie de la natura maestra de i maestri. Ella con i chiari e con gli scuri sfondava e rilevava in maniera ciò che le pareva di rilevare e di sfondare, che io, che so come il vostro pennello è spirito de i suoi spiriti, e tre e quattro volte esclamai: “O Tiziano, dove sete mo’?” »; Pietro Aretino, Lettere, III, a cura di Paolo Procaccioli, Salerno, Roma, 1999, p. 79-80. Su questo brano vedasi il puntuale commento di G. Genovese (Genovese, 2019, p. 221).