N°4 / Letteratura e lavoro in Italia. Analisi e prospettive

La rappresentazione del manager e della multinazionale nell’opera letteraria di Sebastiano Nata

Alessandro Ceteroni

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Alessandro Ceteroni

(Università di Macerata)

 

La rappresentazione del manager e della multinazionale

nell’opera letteraria di Sebastiano Nata

 

 

1. Il mondo del lavoro al tempo dei manager

Dalla metà degli anni Novanta si avverte in Italia un interesse editoriale crescente per la rappresentazione letteraria del mondo del lavoro. Il consolidamento della letteratura postindustriale, che recuperando l’intuizione del volume curato da Silvia Contarini nel 2010 sarebbe forse più calzante chiamare letteratura aziendale,1 avviene alla metà degli anni Zero.2 Nel decennio successivo, anche a causa della crisi economica e occupazionale che scuote la penisola, l’accoglienza di questi argomenti nel sistema culturale è confermata dall’importanza assunta, all’interno del dibattito nazionale, dal tema del precariato. Volendo dunque scegliere un punto di partenza per una riflessione organica sulle rappresentazioni letterarie del mondo del lavoro, si potrebbe individuarlo in un dato oggettivo: il genere aziendale, come spesso avviene per i processi capaci di rinnovare l’immaginario, ha avuto una fase di sviluppo di discreta durata, che è stata necessaria tanto per approfondire le questioni fondamentali del mondo del lavoro al tempo della globalizzazione, come il ruolo del potere finanziario, quanto per diversificare i procedimenti stilistici, come dimostrano le oscillazioni tra fiction e reportage.

In una prospettiva storico-letteraria, la vitalità di questo indirizzo di ricerca si inserisce nella più ampia cornice dell’ipermodernità,
secondo la definizione di Raffaele Donnarumma.3 Stiamo assistendo, in tal senso, a un mutamento che non coinvolge soltanto la rappresentazione del mondo del lavoro, perno assoluto della relazione tra cittadino e società, ma l’intero campo letterario. A distanza di due decenni dalla fioritura delle prime opere letterarie italiane sulle multinazionali e sul precariato, si può quindi tentare di dare una lettura del fenomeno che, senza mirare a quel grado di sistematicità che soltanto l’adeguata distanza storica consentirebbe, permetta almeno di predisporre un insieme di categorie trasversali agli autori e alle opere.

La scelta di dedicare un contributo alla produzione di un singolo autore, nel mio caso Sebastiano Nata, può sembrare in contraddizione con quanto ho appena affermato. Ma in verità, l’analisi del percorso artistico di Nata è funzionale al progetto. Nata è infatti uno dei pochi autori ad aver scritto con costanza sul tema del lavoro nell’arco di venti anni.4
Nata, pseudomino del dirigente di istituti di credito Gaetano Carboni, esordisce nel 1995 con il romanzo Il dipendente.5 Il protagonista e narratore della storia è Michele Garbo, un giovane manager che, raccontando la propria esperienza nella multinazionale Transpay, offre al pubblico italiano una delle prime rappresentazioni del capitalismo finanziario.6 Segue, nel 1999, La resistenza del nuotatore, che ha per protagonista Matteo Fineschi, il successore di Garbo all’interno di Transpay.7 Nel 2004 Nata pubblica Mentre ero via, un romanzo polifonico che entra nel vivo delle questioni sociali ed economiche poste dalla globalizzazione.8 Nel 2010 vede la luce Il valore dei giorni, che declina l’antico tema del rapporto tra centro (Roma) e provincia (le Marche, nella città di Porto San Giorgio) in una accezione ormai globalizzata. Il contesto italiano non è infatti più capace di accogliere tutte le dinamiche a cui partecipa il manager. Subentra così un terzo polo, Bruxelles, che trasforma l’opposizione tra centro e periferia in una relazione triangolare.9 L’ultimo testo dato alle stampe, nel 2014, è La mutazione.10 Ambientato di notte in un lussuoso albergo di Miami alla vigilia di una convention, ha per protagonista Giovanni Breni, un manager in crisi. Il titolo del romanzo è la spia della trasformazione a cui Giovanni va incontro nel corso di un monologo disperato.

Basterebbe questa panoramica per rendersi conto del fatto che Nata ha legato la propria vicenda editoriale a un tipo letterario preciso: il manager. Questi è il campione di quel nuovo mondo del lavoro, che si è configurato con la rivoluzione tecnologica e informatica del secolo scorso. Per certi versi opposto alla figura del precario, che incarna la marginalizzazione dal mercato del lavoro, il tipo del manager era stato preannunciato da alcuni romanzi del Novecento: penso a personaggi come Terragni ne La grande sera di Giuseppe Pontiggia,11 o Sommersi Cocchi ne Le mosche del capitale di Paolo Volponi.12 Nata è il primo autore della letteratura italiana che, attingendo alla propria esperienza personale, eleva il manager a protagonista della narrazione.

Il nuovo soggetto letterario si inserisce in una mutazione epocale. Dalle potenzialità di un cambiamento avvertito, sullo sfondo del Novecento, come opportunità o minaccia, si è passati alla rappresentazione di un sistema capitalista rinnovato negli schemi culturali – la globalizzazione, che si nutre di delocalizzazioni, prende il posto della civiltà industriale –, economici – la crisi, che colpisce duramente l’Italia, rovescia certe consuetudini acquisite, come l’idea di una corrispondenza tra lavoro e benessere, tra titolo di studio e occupazione, tra contratto e stipendio –, linguistici – dal mito dell’inglese come lingua universale, alla nascita di un codice vero e proprio, l’aziendalese, per la comunicazione professionale –, e sociali – il precariato, che esprime l’incerta condizione esistenziale delle “risorse umane” oggetto di “politiche di flessibilità”, diventa a poco a poco la cifra distintiva di una comunità vasta, eterogenea e debole, che annovera i ragazzi inoccupati, i laureati disoccupati, le giovani madri, gli operai in cassa integrazione, gli industriali falliti e via dicendo.

L’obiettivo che mi propongo di raggiungere, ripercorrendo la produzione di Nata, è quello di definire i lineamenti generali del tipo letterario del manager. I risultati che mi aspetto di raggiungere sono due. Primo, vorrei elaborare un modello di riferimento per la narrativa “manageriale” secondo lo schema attanziale di Algirdas J. Greimas.13 Da questo modello, incentrato sulla relazione tra il soggetto/manager e l’oggetto/azienda, vorrei ricavare una serie di considerazioni sulla psicologia del personaggio, sulle connotazioni semantiche e sulle strutture narrative. Il secondo risultato è quello di applicare le ipotesi interpretative al testo de Il dipendente, che ho scelto, tra le opere di Nata, perché è il suo romanzo di esordio.

Da una perlustrazione dei tratti caratteriali dei manager di Nata emerge innanzitutto una costante generale che riguarda il rapporto tra lavoro e famiglia. Si tratta di una conflittualità talvolta latente, spesso esibita, che crea un solco tra l’attività professionale e gli affetti del personaggio. Per misurare l’entità del contrasto, conviene risalire alla rappresentazione dell’uno e dell’altro polo.

Le dinamiche lavorative, in verità, sono abbastanza simili da opera ad opera: come caso limite, ricordo che Il dipendente e La resistenza condividono l’ambientazione nello stesso istituto di credito. Tuttavia, alla brusca frenesia di Garbo si oppone l’autocontrollo irreale di Fineschi. Alla differenza dei caratteri corrisponde lo stile opposto della narrazione: un ritmo serrato ne Il dipendente, un racconto più disteso ne La resistenza.

Variazioni simili vengono adottate nei romanzi successivi, che sondano a loro volta il terreno dello scontro tra affetti e lavoro. Il conflitto è l’elemento che si mantiene, mentre in ogni romanzo cambia la rappresentazione delle tensioni. Ne possiamo ricavare uno schema generale dagli esiti mutevoli, che dipendono dallo stato familiare del protagonista. In tal senso, se ne Il dipendente il tema decisivo è la distanza di Garbo dalla figlioletta partita per il Brasile con la madre, La resistenza indaga invece il rapporto di Matteo con il padre. Mentre ero via narra di una famiglia allargata ai figli di precedenti relazioni, con lo spostamento della voce narrante sui vari personaggi. Il valore pone l’attenzione sulla relazione tra fratelli, mentre l’isolamento di Giovanni emerge con chiarezza ne La mutazione.

Se la caratterizzazione del manager procede dunque lungo il doppio binario del lavoro e della famiglia, la struttura del racconto tenta una mediazione tra le sequenze in cui il personaggio è assorbito dagli incarichi aziendali, e le pause dedicate agli affetti. Ma queste ultime sono in genere esigue, brevi, risicate. Non a caso le scene sono per lo più ambientate negli uffici o in locali sostitutivi dell’azienda: il ristorante per un appuntamento di lavoro, ad esempio, o l’hotel che accoglie il meeting. Le relazioni familiari e affettive del manager non andrebbero poi confuse con la sua vita privata. Alcuni luoghi, come la piscina per Fineschi, non hanno infatti un particolare valore affettivo, pur essendo distinte dal lavoro. Conviene perciò descrivere tre ambiti: quello lavorativo in senso stretto, costituito dall’ufficio e dalle sue propaggini; quello domestico, al quale il manager non ha quasi mai il tempo o il modo di dedicarsi; e la vita privata in senso lato, che si oggettiva nella frequentazione dei locali notturni, nella passeggiata per le vie della città, nella sosta in luoghi caratteristici come la spiaggia adriatica in Il valore.

In genere l’autore insiste di più sulle sequenze ambientate in ufficio. Tuttavia può capitare, come nel caso de La resistenza, che venga assegnato maggiore rilievo alla vita privata. Premesso quindi che ogni romanzo andrebbe studiato singolarmente, l’elemento costante è che la relazione tra il manager e l’azienda riesce sempre a imporsi sulla vita privata e familiare del protagonista. Il manager accetta di fare sacrifici e rinunce, nella speranza di garantirsi un miglioramento di carriera o la salvezza del posto di lavoro. Ciò non significa che le vicende familiari non abbiano un peso negli equilibri narrativi. Ma la loro azione sul personaggio è passiva, segreta: esse non si traducono, in altre parole, nelle azioni quotidiane del manager, poiché la sua giornata è del tutto assorbita dal lavoro; esse invece si manifestano attraverso i sensi di colpa e le inquietudini sotterranee che conducono il manager all’esaurimento, alla disperazione, alla crisi. Il centro della macchina narrativa è dunque il rapporto tra il personaggio e l’azienda, che a livello esteriore è espresso dalle comunicazioni con i superiori e i colleghi, mentre nella sfera interiore è incamerato dal manager come una forma di desiderio. Ho illustrato queste dinamiche in Figura 1.

 

 

 

 

Al centro dello schema compare l’asse del desiderio, che unisce il soggetto/manager all’oggetto/azienda. È il cuore della dottrina aziendalista, secondo la quale il manager è il campione delle trattative, il soldato eccellente che rinuncia a tutto per il bene dell’azienda. Ora, il manager è pure il destinatario dell’oggetto. Una figura all’interno dell’azienda, di norma il capo, gli assegna un obiettivo, che egli deve completare. Il meccanismo narrativo è dunque chiaro, ma ci si potrebbe chiedere come mai la comunicazione di un obiettivo di lavoro si traduca in un desiderio che plasma l’identità del personaggio.

Il punto è che viene a determinarsi una correlazione tra azione e pensiero, per cui il personaggio mette l’azienda al vertice delle priorità. Egli non recepisce l’incarico come un generico compito da svolgere, ma come l’alterità su cui proiettare se stesso per sentirsi realizzato. Il manager trasforma perciò l’incarico in una verifica del proprio ego, avvalendosi di aiutanti come la segretaria e venendo osteggiato, più spesso, da concorrenti interni ed esterni all’ufficio. Il fallimento dell’obiettivo ha conseguenze distopiche, che non sono limitate a un rimprovero o a una retrocessione. Ad essere messa in gioco è infatti l’identità del personaggio: egli deve dimostrare di essere “qualcuno che conta”, e non un fallito.

Il dato è evidente quando il manager, pur avendo l’occasione di dedicarsi alla famiglia, non sa distogliere la mente dal lavoro. Ne Il valore, per esempio, il protagonista Marco Leoni vive il soggiorno dal fratello Domenico con insofferenza. La sosta marchigiana non riesce a distrarlo dagli incarichi aziendali, né sembra poter modificare il suo sistema di valori. L’imprevista morte di Domenico incrina però certe abitudini, di cui il protagonista registra l’assurdità sul piano linguistico14 e comportamentale.15 Come osserva il narratore, «la vita adesso gli sembrava più vasta, più mobile, e tutto poteva cambiare in un battito di ciglia».16

Il modello attanziale mostra dunque la tendenza del manager a incamerare le dinamiche professionali come una dottrina a cui affidare la realizzazione sociale. Tuttavia, il procedimento finisce per escludere le esperienze e le emozioni che rinviano agli affetti e alla famiglia. Il desiderio per l’oggetto/azienda non esaurisce le proiezioni del personaggio verso l’alterità, perché agisce tutt’al più come un filtro che lascia emergere soltanto la sfera del sé che il manager ha elevato a dottrina di vita. Ecco perché in tutti i romanzi di Nata viene raggiunto o sfiorato un punto di rottura, dopo il quale il personaggio entra in una crisi ingovernabile. Nel prossimo paragrafo proverò ad applicare questa teoria a Il dipendente, per dimostrare che la narrazione propone una costruzione di compromesso, nelle forme e nei contenuti, tra la dottrina aziendalista e il ritorno del represso.

 

2. Michele Garbo, il prototipo del manager alienato

Michele Garbo è il protagonista e narratore in prima persona del romanzo. La tesi che intendo verificare è che il lavoro assuma per Michele un valore simbolico così profondo, da diventare il referente assoluto della dialettica con l’alterità. Questo atteggiamento, denunciato dalle spie di un ritorno del represso disseminate nel romanzo, lo spinge a fare di Transpay il dominio esclusivo delle sue identificazioni. Ma il licenziamento determina il crollo dell’identità del protagonista, che prelude alla tragica conclusione del racconto.

Fin dalle prime righe, Michele appare come un personaggio in crisi. Ha tensioni in ufficio, dorme in albergo dopo aver rotto con la compagna, non vede da mesi la figlia che si è trasferita in Brasile con la prima moglie. Ciò che più stupisce nel suo monologo di presentazione, è la frammentazione sintattica del dettato.17 È un dato molto importante per la caratterizzazione di Michele, perché egli viene incontro al lettore con un vortice incalzante di frasi minime, talvolta ridotte a sintagmi nominali.

Nei casi, assai limitati, di periodi composti da più frasi, Michele predilige la paratassi («Ne ho girati centinaia per il mondo e a Roma non ho dormito in albergo neanche una volta»; «Ho messo l’essenziale nella ventiquattr’ore ed eccomi qui»), oppure ricorre a strategie tipiche del parlato come il “dove” relativo («un posto dove allungare le ossa»), e l’accumulo di “che” («Peccato che io le ho viste. Dovevano essere tanto assatanate che nemmeno si sono accorte che rientravo in casa»). Il flusso linguistico è sorvegliato da un uso fittissimo della punteggiatura, sintomo di una razionalità regolatrice molto accentuata, esasperata.

Questa volontà di controllo domina pure la presenza degli altri personaggi. Per esempio i virgolettati della madre e di Lucia, che Michele inserisce nel monologo, sono trascinati a loro volta nel flusso spezzettato del dettato. Non possiamo quindi affermare con certezza che i virgolettati riproducano fedelmente le parole delle due donne, perché sono già stati rielaborati dal narratore. Si rivela così la tendenza di Michele a sovrapporre la propria voce a quella degli altri personaggi: il lettore non conosce mai le opinioni degli altri, ma la riscrittura delle loro parole nella lingua del protagonista.

Il recupero del parlato affiora pure con altre strategie. Penso all’inserimento di formule interlocutorie, come «voglio dire» o «ciao, dentro un altro», dalle quali si ricava l’impressione che Michele si rivolga al lettore come se colloquiasse, non come se scrivesse. La narrazione è impostata, a livello formale, come la confessione affannosa in cui sentiamo il respiro di Michele, scandito dal ritmo ossessivo delle frasi. A proposito di contaminazioni tra lingua scritta e moduli dell’oralità, segnalo espressioni cristallizzate come «I giochi sono appena iniziati», «Quelli non li fotte nessuno», «Croce sopra», «Ben avrà pane per i suoi denti», «Pesci piccoli e grandi», «Cuccia Ben, cuccia», «Volesse il cielo», «allungare le ossa», «Che hai dentro il cervello?». Segnalo pure l’uso di vezzeggiativi come «ghignetto» e «cagnetto».

Posto che il dettato dà l’idea di un’accalorata confessione, sul piano lessicale registro una serie di tecnicismi di area aziendale. Penso a parole come «top manager», voce inglese che all’epoca non aveva raggiunto il grado di diffusione attuale. A formule come «responsabile dell’Area Affari Commerciali» e «Chief Executive Officer», che il parlante comune non userebbe. Aggiungo le escursioni nel giapponese, distribuite lungo tutto il romanzo.18 Né andrà sottovalutata l’influenza del linguaggio televisivo. L’espressione «La grande rivincita di Michele Garbo», per esempio, ha un sapore cinematografico. Michele descrive invece l’ipotesi del licenziamento del capo, Ben, come la scena divertente di un film, tanto da esclamare: «che spettacolo».19

Quella di Michele è, in definitiva, la lingua del cittadino globale. Una lingua che si nutre di immaginario mediatico e prestiti stranieri. Il tipo letterario del manager è in tal senso un precursore, poiché il fatto di lavorare nella multinazionale gli permette di esplorare le dinamiche culturali e linguistiche della globalizzazione, in anticipo di qualche anno sulle altre fasce sociali.

Ma d’altronde il linguaggio di Michele è orientato verso l’odio e la violenza. Fin dalle prime righe incontro parole come «spezzo», «karatè», «bastardo», «un colpo che lo fa secco», «spaccarglielo in due», «sbatterne via», «schifo», «pazzo», «strazio». Unendo questi elementi, si ha l’impressione di confrontarsi con un personaggio esasperato, che nella concitazione del monologo nasconde la rabbia repressa. Si potrebbe allora supporre che la contrazione sintattica del dettato obbedisca alle leggi di immediatezza, concisione e efficacia del mondo degli affari, e che Michele sia, per certi versi, la vittima di quel sistema di cui si proclama il campione.

Per verificare questa ipotesi, conviene riassumere i temi fondamentali esposti da Michele durante la sua presentazione. Essi sono le tensioni in ufficio con Ben, la preoccupazione per il rimpasto aziendale, la lontananza della figlia Maria, la rottura con la compagna Laura, l’incomunicabilità con la madre, l’assenza di un amico. Ebbene sono tutte dinamiche negative, che tratteggiano il ritratto di un uomo alienato. Il collegamento tra il linguaggio e le abitudini di Michele, tra la forma linguistica e i contenuti della sua confessione, è pertanto plausibile. Ma in che modo si rompe il precario equilibrio mentale del protagonista?

Vorrei esaminare la sua solitudine.20 Il lavoro, nonostante la diffidenza verso i colleghi,21 assorbe tutte le sue energie.22 Ripercorrendo il rapporto di Michele con la figlia, si nota che nella sequenza iniziale egli si ripromette di telefonarle, ma posticipa a causa del lavoro.23 È interessante notare che il pensiero della figlia implica una dilatazione dei tempi del racconto, sia come memoria in direzione del passato («sei mesi che non la vedo»), sia come speranza nella proiezione sul futuro («a fine estate»). Sfortunatamente per Michele si tratta di false aperture che lo assillano con regolarità, come dimostra il fatto che torna a pensare le stesse cose dopo poche pagine.24

Questa ripetitività dei pensieri e delle inquietudini mi sembra interessante. La rappresentazione degli spazi conferma peraltro l’assolutizzazione del lavoro. Alle sedi dell’azienda dislocate in Europa, potremmo aggiungere certi non-luoghi come l’albergo Astra, dove Michele soggiorna dopo la rottura con Laura, o la Grande Place di Bruxelles.25 Quando ripensa all’intimità familiare, Michele riscopre «un’aria tenera» che ha perduto.26 Sono tutti segnali della crisi, sul piano dei contenuti repressi.

Ora, se l’esistenza di Michele si risolve in un ossessivo rapporto di lavoro, illuminato di tanto in tanto da sporadiche quanto inefficaci proiezioni verso un passato sfiorito o un futuro improbabile, bisogna chiedersi fino a quando egli possa reggere il peso dell’alienazione. Il punto di non ritorno è raggiunto quando l’azienda aggredisce le pulsioni profonde del personaggio. Oltrepassata quella soglia, il rapporto di lavoro si trasforma in una relazione identitaria, in virtù della quale Michele finisce per dare significato alle esperienze nella misura in cui gli confermano di essere “il top manager di Transpay”.

Una sequenza che mette bene in evidenza questo meccanismo è quella del night, durante l’esibizione delle spogliarelliste. La vista delle donne, nello stimolare le pulsioni erotiche di Michele, riattiva pure nella sua mente il pensiero di Transpay. Perciò la prima ragazza, che a Michele non piace, gli fa pensare alla pubblicità negativa per la ditta concorrente. La seconda, Cristine, a cui basta lo sguardo per sedurre il pubblico, gli ricorda Gabriel, suo collega e avversario in Transpay. L’ultima, Joel, lo fa riflettere su se stesso, poiché egli dovrà armarsi di ferocia e determinazione come lei per sconfiggere il rivale Gabriel-Cristine.27

Eros e lavoro si compenetrano, senza che Michele possa abbandonarsi al piacere sessuale. Sulla sua mente gravano le ombre di Ben e Gabriel, al punto tale che il night, dove era entrato per un’evasione dal lavoro, diventa lo sfondo della rappresentazione allegorica dei meccanismi da cui vorrebbe fuggire. Egli è convinto di essere un top manager, e cerca in ogni angolo le prove che glielo dimostrino. Pertanto durante l’esibizione di Cristine si convince che la spogliarellista abbia scelto nel pubblico un «babbeo»28 da far salire sul palco, e non lui, perché «mica s’avventurano con i top manager».29

Risalendo così alla prima riga del romanzo, in cui Michele dichiarava di non riuscire più a godersi gli spogliarelli, si capisce che la regressione a una condizione pre-sessuata è stata causa in parte proprio dalle incertezze lavorative, che hanno messo in discussione l’identità del top manager. I lapsus frequenti del protagonista, che scambia la casa per l’ufficio o per la banca, dimostrano l’esasperazione delle sue risorse psichiche.30

Si giunge così alla crisi inarrestabile di Michele. Al crollo psicologico nel bagno dell’azienda31 segue una piccola ripresa, nutrita dai propositi di «stare lontani da Bruxelles»,32 da quella «fabbrica di pazzi».33 Ma è un breve intermezzo, perché presto ribadisce che «m’è rimasta solo Transpay. In ufficio la situazione non è idilliaca ma almeno qua esisto. Devo lottare qui».34 Abbandonato pure dal sorveglio della razionalità, messa a dura prova da alcolici e medicinali, Michele si augura la pacificazione con Ben,35 per poi raggiungere il vertice tragicomico della crisi con la personificazione della macchina aziendale. «Intanto c’è la mia Audi», commenta Michele nel pieno della disperazione, «questa non me la toglie nessuno. Adesso accendo i fari, ingrano la retromarcia e lei mi porta in salvo».36 L’Audi non lo condurrà in salvo, ma alla morte.

 

3. Conclusioni provvisorie

Lo schianto di Michele è l’esito della crisi di un personaggio che dapprima si è intestardito su obiettivi irrealizzabili, e poi ha imboccato un sentiero autodistruttivo. La sua fine rivela i rischi dello stile di vita del manager asservito all’azienda. Se dunque il tema di fondo è il rapporto di lavoro all’interno della multinazionale, la morale che possiamo trarre è che le aziende «quando servi loro ti comprano. Ti fanno le carezze. Poi, appena vedono soluzioni migliori, dove tu non c’entri, o ti sbattono fuori oppure ti mettono nell’angolino zitto e mosca».37

Inaugurando con Il dipendente la linea della letteratura manageriale, che egli stesso avrebbe rielaborato in prima persona nelle opere successive, Nata apre le porte a un rinnovamento della rappresentazione degli uffici e della banca. Tra gli autori impegnati in questo percorso insieme a lui, segnalerei per primo Massimo Lolli.38 Andranno poi ricordati Cordiali saluti di Andrea Bajani,39 Il ritorno a casa di Enrico Metz di Claudio Piersanti,40 La futura classe dirigente di Peppe Fiore.41

Volgendo lo sguardo all’insieme delle rappresentazioni letterarie degli uffici, andranno segnalati anche altri percorsi. Resistono ad esempio figure più tradizionali, come l’impiegato o il funzionario, che non hanno la vivacità, né la spavalderia dei colleghi delle multinazionali. Un autore di riferimento è, in tal senso, Andrea Carraro.42 Altre opere interessanti sono Nessuno è indispensabile dello stesso Fiore,43 e Ci meritiamo tutto di Danilo Masotti.44

Passando invece alla genesi di nuove figure che, al pari del manager, hanno trasformato la concezione degli uffici, bisognerebbe studiare il tema del precariato.45 A partire, naturalmente, dal non-luogo precario per eccellenza: il call center.46 Ma per questa via il perimetro delle rappresentazioni del lavoro si allarga, fino a superare i confini degli uffici. Le politiche di flessibilità hanno infatti toccato pure le fabbriche, con lo spostamento degli investimenti dalla produzione all’assemblaggio dei materiali.47 E non si dovrebbero ignorare neppure la rappresentazione del primario e la rivalutazione degli antichi mestieri.

Questi stimoli mi allontanano però dagli obiettivi dell’articolo. Il risultato atteso era quello di elaborare un modello di riferimento per il soggetto letterario del manager, e di applicarlo nell’analisi di un testo. Spero di averlo raggiunto, senza rinunciare allo sguardo d’insieme sulla cultura nazionale. La proposta di ricondurre il discorso su Nata alla letteratura aziendale e ipermoderna, si nutre infatti del convincimento che le rappresentazioni del lavoro esprimano una tale varietà di situazioni, da offrire il mosaico della nazione.

 

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1 AA.VV., «Narrativa», XXXI-XXXII/2010, Letteratura e azienda. Rappresentazioni letterarie dell’economia e del lavoro nella letteratura italiana degli anni 2000, a cura di Silvia Contarini.

2 In proposito, rinvio a Claudio PANELLA, Raccontare il lavoro. Fiction, reportage, e altre forme ibride a confronto nella letteratura italiana dell’ultimo decennio, in Negli archivi e per le strade. Il ritorno alla realtà nella narrativa di inizio millennio, a cura di Luca Somigli, Roma, Aracne, 2013, pp. 409-433.

3 Raffaele DONNARUMMA, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, Mulino, 2014.

4 Paolo Chirumbolo si è occupato di Nata nel saggio e nelle interviste del volume Paolo CHIRUMBOLO, Letteratura e lavoro. Conversazioni critiche, Soveria Mannelli, Rubettino, 2013. Mi sono occupato del romanzo di Nata Il valore dei giorni, in Alessandro CETERONI, Dall’inetto all’inerte. Il personaggio narrativo nella crisi economica, in Narrazioni della crisi. Proposte italiane per il nuovo millennio, Firenze, Franco Cesati, pp. 75-84. Segnalo la conversazione audio di Livio Partiti con Sebastiano Nata, reperibile all’indirizzo web : .

5 Sebastiano NATA, Il dipendente, Roma–Napoli, Theoria, 1995.

6 Nella copertina della prima edizione Marco Lodoli scrive che «Garbo è il dipendente assoluto, l’uomo che ha rinunciato ad ogni libertà interiore per difendere il suo posto in un’azienda internazionale di carte di credito. Lo sovrasta l’ordine crudele che regna nei luoghi dove le bestie si affrontano per sopravvivere: oggi si è predatori, domani prede, prima il salto di una promozione, poi la caduta del licenziamento. E nella paura il pensiero di Garbo s’affanna, diviene più corto, più elementare. Il suo sguardo ironico si spegne. La vita si fa più squallida e animale. Non c’è altro valore che la lotta. Nessuno ancora ci aveva raccontato cosa muore dietro i vetri specchiati dei palazzi dove i soldi comandano; nessuno aveva scoperchiato il cranio di un dipendente per mostrarci che inferno vi arda. Ora sappiamo molto».

7 Sebastiano NATA, La resistenza del nuotatore, Milano, Feltrinelli, 1999.

8 Sebastiano NATA, Mentre ero via, Milano, Feltrinelli, 2004.

9 Sebastiano NATA, Il valore dei giorni, Milano, Feltrinelli, 2010.

10 Sebastiano NATA, La mutazione, Siena, Barney, 2014.

11 Giuseppe PONTIGGIA, La grande sera [1989], in Opere, a cura di Daniela Marcheschi, Milano, Mondadori, 2004.

12 Paolo VOLPONI, Le mosche del capitale, Torino, Einaudi, 1989.

13 Come testi di riferimento segnalo Algirdas Julien GREIMAS, La semantica strutturale: ricerca di metodo [1966], Milano, Rizzoli, 1968; Ugo VOLLI, Manuale di semiotica [2000], Roma-Bari, Laterza, 2003; Andrea BERNARDELLI e Eduardo GRILLO, Semiotica. Storia, contesti e metodi, Roma, Carocci, 2014.

14 È quanto avviene nel dialogo con il parroco di Porto San Giorgio: «Per compiacerlo, per colmare il silenzio che ora lo inquietava, Marco disse: “Secondo me, occuparsi di una parrocchia è davvero un bel lavoro. Si è a contatto con persone di ogni genere, si è in prima linea…”. Queste ultime parole gli parvero immediatamente inadeguate e non poté fare a meno di ricordarsi che in azienda lui e gli altri dirigenti le usavano per galvanizzare la forza vendita. Occorreva rendere quei colleghi orgogliosi di costruire appunto la prima linea, l’anello di collegamento nel rapporto con la clientela» (Sebastiano Nata, Il valore dei giorni, op. cit., p. 218).

15 Rientrato nell’appartamento del fratello deceduto, trovandolo pieno di gente, Marco «per abitudine, aveva acceso il Blackberry e si era messo a scorrere le e-mail che gli erano arrivate. La maggior parte riguardavano questioni di lavoro e a leggerle in quel momento, a casa di Domenico, gli erano parse senza senso» (ivi, p. 223).

16 Ivi, p. 243.

17 Per avere un assaggio della scrittura di Nata, considerata oltretutto la non semplice reperibilità del testo, ho trascritto qui un estratto abbastanza lungo a cui il lettore possa fare riferimento, anche per le successive citazioni (Sebastiano NATA, Il dipendente, op. cit., pp. 11-13): «L’ho sempre detto. Per me gli spogliarelli sono come le corride per Hemingway. Solo che dopo quello che m’è capitato sul lavoro e con Laura anche lì non me la godo. Partecipo niente. Mi distraggo. Una catastrofe. Arriveranno tempi migliori però. La grande rivincita di Michele Garbo. I giochi sono appena iniziati. Io mi piego ma non mi spezzo. Filosofia della canna al vento. L’ho imparata col karatè. Se ne accorgerà Ben. Magari potessi incontrarlo in palestra il bastardo. Gli tirerei un colpo che lo fa secco. Di gomito. Un empi tsuki. Giusto al centro del suo grugno fiammingo. A spaccarglielo in due. Cancellargli per sempre il ghignetto. Gran soddisfazione. Ecco, per Ben ci vorrebbe un giapponese. Un capo giapponese voglio dire. Quelli non li fotte nessuno. Lo metterebbero in riga. Al primo sgarro, zac. Assegno di buonuscita e fuori da Transpay. Subito. Che spettacolo. Vederlo attraversare per l’ultima volta il portone di Avenue Louise. A testa bassa. Le guance flosce come non mai. Il ciuffo biondo cenere al vento di Bruxelles. Ben, il più importante dei tre top manager di secondo livello, responsabile dell’Area Affari Commerciali, costretto all’abbandono. Croce sopra. Vicenda conclusa. Normale. A Transpay c’è una tradizione per sbatterne via di continuo. Pesci piccoli e grandi. Tal dei tali non funziona, ciao, dentro un altro. È nell’ordine delle cose. Sono le regole. Del tizio ci si dimentica in un paio di giorni. Dunque anche Ben può ritrovarsi per strada senza uno straccio di lavoro. Specie ora che arriva il nuovo Chief Executive Officer. Tra una settimana. Pare che lui non abbia da invidiare nulla ai musi gialli. Ben avrà pane per i suoi denti. Anzi dovrà ubbidire come un cagnetto che appena preso a calci guaisce e poi si rimette a cuccia. Cuccia Ben, cuccia. Volesse il cielo. Mah. Vediamo che ora s’è fatta pensando agli spogliarelli perduti. Le sette meno cinque. Credevo fosse più tardi. In quest’albergo le ore mica passano. Forse perché non m’è mai capitato di stare in albergo a Roma. Nemmeno per andarci con una donna. Ne ho girati centinaia per il mondo e a Roma non ho dormito in albergo neanche una volta. Bello schifo non avere un posto dove allungare le ossa nella propria città. Del resto, mica c’erano alternative. Io non me la sentivo di restarci a casa mia. E allora, tornavo da mamma? Mia madre m’avrebbe preso per pazzo. Messo alla porta. Con gentilezza, però irremovibile. Mi pare di sentirlo il suo strazio di voce: «Sei cambiato Michele. Che ti accade, eh Michele? Conosci una brasiliana. La porti in Italia. La sposi. Avete una bambina. Dopo tre anni ci litighi. La lasci tornare in Brasile con Maria. Maria che è pure figlia tua, Michele. Sangue nostro. E Maria non la vediamo più. Solo d’estate. Poi risparisce in un Paese straniero. Quella bimbetta che ha il tuo stesso viso le tue mani i tuoi piedi. D’accordo, sono cose che succedono. Tristi ma succedono. Qualche tempo, e ti fidanzi con Laura. Una brava ragazza. Ti risistemi. E io sono più tranquilla. Michele ha messo la testa a posto, penso. E adesso? Adesso te ne sei scappato. Hai rotto anche con Laura. Ma che vai cercando figlio mio? Che hai dentro il cervello? Corritene da Laura. Dammi retta. Provate a fare la pace. Io non voglio sapere cosa è andato storto. Ma sono sicura che con un po’ di buona volontà tutto si risistema. Dammi retta Michele, dammi retta». Figurati. Vorrei proprio vederla la faccia di mia madre se le raccontassi di Laura. Sai mamma adesso a Laura piace Ester. Ci dànno dentro un sacco. Se la spassano nude sul mio letto. Povera vecchia. Non ci crederebbe. Peccato che io le ho viste. Dovevano essere tanto assatanate che nemmeno si sono accorte che rientravo in casa. Ce le ho davanti come fosse ora quelle quattro tette incollate. E il grido di Ester: «Nooo». Laura invece calma. «Scusaci Michele, esci un attimo. Poi parliamo. Riguarda me e te. Non voglio che Ester sia coinvolta». Io l’ho presa in parola. Sono uscito davvero. Mica dalla stanza. Da casa. Pochi minuti dopo sono tornato. Non ho aperto bocca. Ho messo l’essenziale nella ventiquattr’ore ed eccomi qui. Da tredici giorni. Sarebbe una storia degna d’un racconto dettagliato a un amico. Ad avercelo. Perché dopo i trent’anni gli amici non esistono più. Esistono solo gli ex amici. E i conoscenti».

18 Nel romanzo compaiono espressioni come «Hon ken. Ri ken. Tetsui ken» (ivi, p. 34), «tobi geri» (ivi, p. 58), «jigoku ken» (ivi, p. 84), «shuto […] mae geri» (ivi, p. 122), «empi tsuki» (ivi, p. 132).

19 A proposito di riferimenti ai media, segnalo questo collegamento interessante tra televisione e finanza: «Com’è che dice la CNN quando pubblicizza i suoi servizi d’informazione finanziaria? Niente è più importante del tuo denaro. Lo dice e lo ripete. Di continuo» (ivi, p. 145).

20 In proposito, è emblematica la confidenza concessa da Michele al portiere dell’albergo Alberto Rutilio: «Gli ho dato troppa confidenza. Non dovevo raccontare che lavoro nei fine settimana. Mai sbottonarsi sugli affari propri. Specie nelle mie condizioni. Ma di sera capita che mi sento solo e chiacchiero con lui. Ogni tanto avere uno col quale mettere due parole in fila aiuta. Soprattutto se è un estraneo. Gli racconti quello che vuoi e chiuso il discorso. Con chi ti conosce no. È diverso. Chi ti conosce domanda, esprime pareri, compatisce. E gode delle tue disgrazie» (ivi, p. 32).

21 Nella parte finale del romanzo, quando fa salire in auto la prostituta transgender di nome Renata, Michele si lascia sfuggire un giudizio sferzante: «Di questa posso fidarmi. Mica lavora a Transpay» (ivi, p. 112).

22 Michele traduce queste sensazioni nella metafora del tuffo. Entrando nell’open space della sede di Bruxelles, egli annota che «al solito qui è tutto veloce. Pare di venire giù da una cascata. Un tuffo di chilometri. E appena arrivi, subito un altro tuffo» (ivi, p. 103). Lavorare nella multinazionale significa quindi essere risucchiati da una corrente che circonda il personaggio da ogni parte, incessantemente, tuffo dopo tuffo.

23 Ivi, pp. 14-15: «E se prima telefonassi a mia figlia in Brasile? Meglio evitare. Con questi chiari luna Maria non la chiamo. Ho pure paura che non mi parli. Alla madre dice che si vergogna. E balbetta perché l’italiano non se lo ricorda più bene. A fine estate sì. Ma adesso siamo già a febbraio. Sei mesi che non la vedo. Che non bacio i suoi occhi all’insù. Un secolo. Magari chiamo domani. O lunedì, da Transpay, così risparmio».

24 Ivi, p. 44: «Comunque alla fine del lavoro mi concedo un premio. Promesso. Una telefonata con mia figlia di almeno un’ora. Se lei si vergogna e in italiano balbetta ci penso io. Parlo io brasiliano».

25 Nella piazza notturna ci sono soltanto gli stranieri, che la trasformano nel teatro di appuntamenti di lavoro: «Mica dico che non sia bella la Grande Place. Figuriamoci. È bella. Colori e luccichii. Sembra un vestito da cerimonia della regina Elisabetta. Però non tiene compagnia. Qui ci siamo solo io e quattro giapponesi […] Entrano altri quattro. Parlano a voce alta. Americani dall’accento. Si avvicinano ai giapponesi. Sarà un dopocena di lavoro. Si scambiano i biglietti da visita. Non si conoscono. Fanno conoscenza a quest’ora, a mezzanotte» (ivi, p. 81).

26 Ivi, p. 84: «Vedevo invece la fiamma della candela che luccicava piano tra i capelli rossi di mia moglie e Maria. Pareva un tramonto. E io mi sentivo sicuro. C’era un’aria tenera. Queste cose non posso averle più. Non qui a Bruxelles. Non all’Astra. E nemmeno a casa mia. Meglio che pago il porto e filo in albergo. Altrimenti scoppio a piangere».

27 Le sovrapposizioni tra sesso e lavoro si ripetono in seguito, quando Michele si masturba nel letto dell’albergo sognando le spogliarelliste. Le immagina «tutte intorno a me. Ai miei comandi. Alle mia dipendenze. Quando mi gira me le lavoro come si deve una appresso all’altra. E quando mi voglio riposare mi riposo. Giusto dal lato economico sarebbe un impegno. Capirai, sei donne. Però un top manager i suoi bei soldoni li guadagna. Specie se centra gli obiettivi. Il problema semmai è quello. Gli obiettivi. Cinque milioni di carte Transpay entro fine anno. Ho esagerato. Ben ha ragione a dubitare. In ogni caso non è il momento di ripensarci. Pure adesso vengono a rompermi le balle con gli obiettivi. Avevo l’asta dritta come un traliccio e mi s’è afflosciata» (ivi, p. 34).

28 Ivi, p. 29.

29 Ibidem.

30 Ivi, pp. 16-17: «Se io ogni tanto utilizzo la parola casa al posto della parola ufficio, che problema c’è? Capita. Lo trovo normale. Succede mentre parlo con Laura, con mia madre, con i clienti. Magari dico a uno di una banca passi pure domani a casa che se anche ho una riunione la mia segretaria m’avverte e sono subito da lei. Quando m’accorgo che sbaglio mi correggo. Oppure non ci bado. Chi m’ascolta non ci bada. Mira al sodo delle questioni. Solo Laura si fissa sui lapsus».

31 Ivi, p. 105: «Questa pressione qua io non la reggo. Mi schianta. Mi fa sentire ancora più solo di quanto non sia».

32 Ivi, p. 108.

33 Ivi, p. 109.

34 Ivi, p. 117.

35 Ivi, p. 122: «Con Ben io sarei felice d’andarci d’amore e d’accordo. È lui che non ricambia».

36 Ivi, p. 130.

37 Ivi, p. 125.

38 Il riferimento è a Massimo LOLLI, Il lunedì arriva sempre di domenica pomeriggio, Milano, Mondadori, 2009; Massimo LOLLI, Io sono tua, Milano, Piemme, 2003; Massimo LOLLI, Volevo solo dormirle addosso, Arezzo, Limina, 1998.

39 Andrea BAJANI, Cordiali saluti, Torino, Einaudi, 2005.

40 Claudio PIERSANTI, Il ritorno a casa di Enrico Metz, Milano, Feltrinelli, 2006.

41 Peppe FIORE, La futura classe dirigente, Roma, Minimum fax, 2009.

42 Penso soprattutto ad Andrea CARRARO, Il sorcio, Roma, Gaffi, 2007, e ad Andrea CARRARO, Non c’è più tempo, Milano, Rizzoli, 2002.

43 Peppe FIORE, Nessuno è indispensabile, Torino, Einaudi, 2012.

44 Danilo Masotti, Ci meritiamo tutto®. Nessuno pensava che sarebbe finita così…, Bologna, Pendragon, 2012.

45 Per quanto sia difficile stabilire una cronologia certa, il primo romanzo italiano sul precariato è con ogni probabilità Giuseppe CULICCHIA, Tutti giù per terra, Milano, Garzanti, 1994.

46 Mi limito a ricordare i classici dell’argomento, come Michela MURGIA, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, Milano, Isbn, 2006, o Ascanio CELESTINI, Lotta di classe, Torino, Einaudi, 2009.

47 Ricordo anche qui i capisaldi come Paolo NELLI, La fabbrica di paraurti. Romanzo a due voci, Roma, DeriveApprodi, 1999; Ermanno REA, La dismissione, Milano, Rizzoli, 2002; Edoardo NESI, L’età dell’oro, Milano, Bompiani 2004; Giulia FAZZI, Ferita di guerra, Roma, Gaffi, 2005; Saverio FATTORI, 12:47 Strage in fabbrica, Roma, Gaffi, 2012.

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Paradigmi omologhi: Franco Fortini e l’antropologia della forza lavoro di un cinquantennio

Sergio Ferrarese

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