Paolo Steffan
(Dante College, Vittorio Veneto)
Gli scrittori veneti e il lavoro
La “lingua-lavoro” dei poeti nei narratori
degli anni 2010
... nel Nordest malato di ricchezza [...]
è come se fosse stato stipulato un patto faustiano:
soldi, e tanti, in cambio dell’anima...
Andrea Zanzotto1
1. Dalla letteratura degli anni Settanta...
Per molti versi a Nordest, in tema di lavoro da un lato e di scrittura dall’altro, il momento nevralgico è stato negli anni Settanta:
Alle due di un pomeriggio di agosto del 1970 un uomo con un cappotto polveroso e un cappello camminava spingendo una bicicletta su una strada asfaltata in mezzo alla campagna piatta e verde di vigneti.2
Così comincia Lavoro, prosa poetica dei Sillabari di Goffredo Parise, definito a ragione da Nico Naldini colui che «è stato in letteratura quello che furono i maestri veneti in pittura: Bellini, Tiziano, Tintoretto... Come un ritrattista metteva sulla pagina le gioie, gli amori, le inquietudini che vedeva attorno a lui».3 E nel fine sguardo parisiano sul lavoro, si rivedono proprio suggestioni pittoriche, come per un brandello della campagna veneto-friulana dipinta da Zigaina, gremita di uomini e utensili sulle biciclette in opere come Biciclette e falci (1949, 1950), Erba ai conigli (1950), Biciclette e carro (1951), Biciclette e vanghe (1953) o la splendida veduta ritratta in Inverno (1955), dove la campagna gelata sotto un cielo biancastro, è solcata solo da un gruppo di braccianti in bicicletta con le vanghe in spalla.4 Negli anni Settanta quel mondo si vede ancora ‒ è il vecchio uomo con la bicicletta ‒ ma in rarefazione. Nel racconto, il protagonista, mentre trasporta un’angoliera finemente intagliata, viene affiancato da un incuriosito «uomo in automobile», forse uno di quei nuovi padroni cui il vecchio non si è arreso, preferendo alle “comodità” del boom la sua vita “allo sbando”.5 Nel «Sillabario», vi sono due differenti tipi antropologici che si affiancano e sovrappongono per lo spazio di qualche pagina e ‒ nella realtà storica ‒ per lo spazio di qualche anno.
È già nella diversità del mezzo di locomozione tutta la grande distanza, invero epocale, tra il lavoratore antico, artigiano nell’anima e già raro per aspetto e andatura, e il signore in automobile, in cui vediamo i tratti del consumatore dei decenni a venire. Manca d’altronde nel vecchio la mentalità commerciale:
«Quanto costa?» chiese l’automobilista.
Il vecchio (si trattava di un vecchio, ma forse non era così vecchio, tale sembrava per la barba lunga di vari giorni, il cappotto, il cappello e una certa aria vecchia emanata anche dalla angoliera) lo guardò a lungo con occhi neri, forti e aggressivi e solo dopo un po’ rispose:
«Dipende.»
La risposta lasciò interdetto l’automobilista, quegli occhi non erano vecchi e si sentì debole senza sapere in quale senso: forse la strada deserta, le cicale, le urla dei maiali e l’aggressività del vecchio? “Quello avrebbe potuto tirar fuori un coltello” si trovò a pensare l’automobilista con immensa sorpresa. Ma si fece forza e disse: «Dipende da che?».
Il vecchio ebbe un lampo quasi divertito negli occhi aggressivi e rispose:
«Dalla simpatia.»
«E cioè, cosa vuol dire?»
«Può essere cinquecento, mille, duemila. Dipende.»6
Il suo pressapochismo nelle questioni di denaro, quando è invitato dall’automobilista a trattare sul prezzo dell’angoliera intagliata con le proprie mani che sta trasportando sulla bici, cozza con la «cordialità commerciale» dell’acquirente, in un dialogo tra due mondi dislocati sullo stesso spazio-tempo, ma agli antipodi per mentalità. Perché quella cui appartiene il protagonista di Lavoro è una umanità composta di «ex artigiani, “pittori” e decoratori, lavoratori del ferro battuto, artisti del legno», per usare le parole di Stefano Colangelo, destinati in quegli anni a ingrossare le fila di coloro che vivranno sempre più la «perdita dell’identità, perdita della manualità» conseguente all’ingresso in una fabbrica crescentemente meccanizzata, terziarizzata.7 È la fine di una lunga «ritualità» e della «meraviglia» connesse al lavoro.8 A questo cambiamento il vecchio di Parise si è opposto, attraverso il ripristino della sua quotidianità originaria, come dichiara nel passo fondamentale del racconto:
«Ma ha sempre fatto questo lavoro?» [...]
«Ho lavorato in una officina meccanica quando ero più giovane ma quello non era un lavoro, come si dice, un lavoro-lavoro, e c’era anche un padrone. L’ho fatto perché mi ero sposato. Ma poi ho ripreso il mio, di lavoro.»9
La civiltà del “lavoro-lavoro” è anche quella che, nella sua vallata prealpina, negli stessi anni Settanta, cominciava a ospitare dentro la propria ineguagliabile opera in versi Luciano Cecchinel, oggi settantenne: la raccolta d’esordio, Al tràgol jért (1988), libro di poesia e di antropologia, assorbe tutta una ritualità secolare che in quel decennio si sarebbe incrinata e in pochi anni estinta. Tra i “paesaggi della fatica”, si consumano per l’ultima volta quelli che Zanzotto, in un’altra silloge fondamentale, chiamava Mistieròi, i «piccoli poveri mestieri»10 che da secoli si tramandavano. Un mondo lavorativo che si spegne emigra, per sopravvivere, in un “mondo di carta” che deve dotarsi anche del proprio idioma, che nella realtà esterna alla pagina si affievolisce assieme agli utensili dispersi e ormai inutili. Così, chi ha incarnato il “lavoro-lavoro” si trova ora ad appiccare un rogo, in cui vede anche sé ustionarsi irreversibilmente, come nei versi cecchineliani di Crośe crośat: «l’é na risa de ciaro guast / su sto sparpagnamènt de restèi sechi, / de dèrle rote e faldin rudenidi [...]. / Dès che fa ’n stròlego ò fat / de le inpreste soàde / e pò inpreste de le fadighe, / mi carol carolì de canàgola, / fae mamì de mi panevin: / de sudor, de agreme e sangue».11 La civiltà a cui il poeta sta dicendo addio è quanto di più distante vi possa essere dalla “civiltà dei schèi” nata dal «patto faustiano» citato in esergo, e che si trova ritratta nei prosatori dei nostri anni. Nella sua giovinezza, Cecchinel si sentiva calato nel “lavoro-lavoro”, fondato su un credo profondo ‒ religioso ‒ nella fatica, in una dura vita capace però di produrre ancora “meraviglia”: «il nostro credo di strame, legno e pietre», lo chiama in Paron alt de le tère.12 In chiusura di Al tràgol jért, però, lo vediamo appiccare un panevin propiziatorio in cui i «confini tra il sé e l’altro-da-sé sono sfumati», come ricorda Giovanni Turra, a significare dunque che «sul soggetto incombe la medesima condanna alla rovina che incalza il suo mondo»:13 allora questo falò è anche un segno (appunto, crośe crośat) che induce al disvelamento della propria poetica. Nella deflagrazione degli strumenti di lavoro, simboli di un intero modo di lavorare e di una ritualità ad esso intrinseca, vi è infatti la concomitante deflagrazione del codice, elevato a unico possibile strumento linguistico capace di dar parola al suo mondo, ma presto destinato, nell’atto stesso di dirsi, a spegnersi per sempre. A questo si aggiunga una propensione all’atto incendiario tipica dello stesso Cecchinel, che in nota alla sua raccolta Da un tempo di profumi e gelo, pubblicata nel 2016 ma con testi risalenti perlopiù agli anni Ottanta, avverte:
Le molte revisioni cui sottopongo i miei esiti di scrittura, anche per certa carenza di convinzione e relativa insoddisfazione di risultati, mi portano a dei ritocchi progressivi e, anche se sono stato in più occasioni consigliato di conservare le versioni precedenti, dopo aver registrato per dattiloscrittura i nuovi stati di avanzamento, le getto sistematicamente nel fuoco, con un senso di soddisfatta ritualità, ad ogni modo scevra di incrostazioni propiziatorie.14
La vena propiziatoria, se viene in parte da retaggi pagani non estranei alla civiltà della sua Vallata, non può neppure prescindere da simbologie cristiane, peraltro molto forti nel libro uscito lo scorso anno, e già attive in più luoghi di Al tràgol jért, non ultimo il riferimento alla croce. Legando questi segni al simbolo del fuoco e al ruolo “sacerdotale” del poeta, la lettura cristiana si può far forte di un precedente nel primo Novecento, quando l’«incendiario» era Palazzeschi: «Uomini che avete orrore del fuoco, / poveri esseri di paglia! / Inginocchiatevi tutti! / Io sono il sacerdote, / questa gabbia è l’altare, / quell’uomo è il Signore!»; e ancora: «Vorrei scrivere soltanto per bruciare!».15 Il vero incendiario e l’incendiario da poesia, diversamente che in Palazzeschi, per Cecchinel sono la stessa persona, e dunque la lettura dell’autoritratto quale poeta-stròlego come riflessione sul proprio lavoro intellettuale si avvalora: nell’ottica di una riflessione-azione sulla morte di una cultura, che attraverso l’incendio-poesia riprende vita e si eterna in versi. Certo, come accade in rapporto al canto whitmaniano, per Cecchinel non vi può essere un finale esultante e positivo come ne L’incendiario palazzeschiano: «Và, passa fratello, corri, a riscaldare / la gelida carcassa / di questo vecchio mondo!».16 La sofferenza del poeta trevigiano è autentica, e a spargere sale sulle piaghe di una morente civiltà della fatica arriva la miopia del dopo, fatta di un modello di breve durata che ha in poco tempo spazzato via un tessuto umano e un assetto territoriale. Non per questo la scrittura può limitarsi a un’inerme ruolo memoriale: per mezzo della memoria, attiva anzi ‒ rilievo particolarmente vero per il poeta di Revine-Lago ‒ proprio il suo ruolo sacerdotale, di intellettuale che non ha più alibi, pena la destituzione dal proprio statuto letterario: a costo di patirne le ustorie conseguenze, essere figura etica capace di connettere tra loro “chiese” puntiformi, riunite nell’oscura catacomba in cui ancora si riesce ad attizzare il lume della poesia.
Fuori di queste periferie culturali, il poeta è d’altronde percepito quale “voce nel deserto”, esposta ‒ nella sua presunta inutilità ‒ alla derisione del mondo della tecnica, che vede solo arretratezza e vergogna nell’autenticità dei rituali perduti. Così, col venir meno dei mestieri e della struttura sociale secolari delle aree rurali, l’incedere del modello industriale e delle nuove tecnologie, si modificano pesantemente anche i luoghi della condivisione: «Perché verso sera, nei nostri paesi, c’è sempre un po’ di festa»17, affermava a un certo punto un personaggio de Il sogno di una cosa di Pasolini, dopo un’esperienza di emigrazione per sfuggire alla miseria del Nordest: il concetto di “festa” e il suo progressivo spegnersi sono presi in analisi, relativamente ai poeti operai, da Colangelo, ma se ne può registrare un’azione più estesa, che va ad abbracciare tutta la questione del lavoro commisurato alla socialità e al cambiamento del paesaggio. In questo sono rivelatori i versi di un’altra poesia di Cecchinel, da le òlte in cao tant, nella quale si coglie la fine di quella “festa” nel momento in cui la vecchia civiltà, che la sera si raccoglieva in casere e fienili per il filò, è oramai trapassata, e le nuove generazioni vivono nella vuota solitudine delle loro case tutte inferriate: «’n postarse de caśe nove / co le so inferiade e i so ciari stranbi» che «le trèma e le scròca / fa i senć de ’n tenporal».18
Altra faccia, rispetto al mondo di cui Cecchinel registra la morte, è poi quello operaio cantato negli stessi anni Settanta, stavolta in lingua, da Ferruccio Brugnaro, classe 1936. Il modello industriale, quale orizzonte di crescita economica, non porta a riscattare la dignità umana, ma vede il lavoratore sottoposto a un duro processo di “svuotamento”: «dovrò andarmene una notte / o l’altra, all’improvviso, senza nessuno, / senza sapere nulla. Forse / dovrò andarmene col cuore ancora vuoto»,19 o ancora: «Il vuoto vuole dominare / impossessarsi della vita; / l’anima / nell’ingranaggio del nulla / vi chiama a gran voce tutti».20 In poesie di fuoco e pietra, limpide e prosaiche voci prestate ai compagni di fabbrica («cerchiamo, compagni / di raccogliere tutta la forza / che la tristezza ci ha donato»),21 si sente una forza, a volte una solennità, che ricorda la poesia del Primo Levi di Ad ora incerta, specie nei testi concentrazionari («Compagno vuoto che non hai più nome / Uomo deserto che non hai più pianto»).22 Ora, l’orizzonte più simile al Lager pare quello della zona industriale: «I guardiani, lungo i neri recinti / dietro i cancelli irremovibili, / camminano pesanti, infastiditi / della nostra presenza».23 È uno stimolo che dava già un articolo di Zanzotto, per cui «nella poesia di Brugnaro appare una realtà ambientale che ha raccapriccianti affinità con quella della guerra: è la realtà della fabbrica, o almeno di certe fabbriche, oggi»;24 data «per un sovrappiù di banale che la permea, [...] per il suo cogliere la degradazione, peggio che a “pietra”, a materiale plastico-chimico»25, fino a raggiungere lo statuto di «luogo della negazione dell’umano», paragonabile alla trincea del primo Ungaretti.26 Proprio nell’oscurità di questi orizzonti, come nel gesto sacerdotale dell’io cecchineliano, non manca alla poesia di Brugnaro l’occasione di cercare identificazione in Cristo, anche qui dipinto quale incendiario nel suo compito di distruttore del male: «la mia anima è solo una parola / che fa ridere, / i miei giorni non hanno senso / se non per produrre / produrre. / Ma non voglio crederti / alleato dei nazisti / dei massacratori. / Pensaci, pensaci. / Compagno segreto / voglio credere, voglio credere invece / che tu sia / il distruttore meraviglioso / di una realtà / di favole mostruose e di sangue».27 Non è un Cristo ieratico da icona, quello di Brugnaro, è piuttosto il Cristo ritratto in Matteo 21 (vv. 12-13), quello che rovesciando tavoli e sedie scaccia i venditori dal tempio.
Su queste note, la questione del lavoro come causa di degradazione affiora in molti versi di Brugnaro, cui soggiace sempre però una vena di ribellione «contro lo strapotere despota, fascista di pochi uomini»,28 o quanto meno di riscatto, che può venire da pochi metri quadri di libertà, a contraddire orizzonti saturi di vuoto: «L’ingranaggio, la tramoggia / il rullo / con i suoi tremila giri / vogliono diventare il mio sangue / vogliono / le mie articolazioni / le mie parole. / Le autoclavi sempre in fermento / il rumore che stringe tutto / alla schiena / mi hanno buttato dentro / dubbi tremendi. / [...] Ma io so ugualmente, / so davvero / di un posto / oltre il filo spinato, / d’un appezzamento libero / nascosti per me / in un tempo di fabbriche, di orbite vuote».29 Questi sguardi sono registrati tra anni Sessanta e Settanta, ma ancora oggi per il poeta-operaio a cambiare sono le tecnologie, mentre le istanze connesse alla dignità del lavoratore vanno considerate immutate, restano le medesime oggi come e più di ieri: «La questione del lavoro è tutta sul piatto», mi ha ribadito Brugnaro in un recentissima intervista, perché «senza lavoro marcisce tutto, si ha una deriva autoritaria», mentre l’uomo ha «diritto a essere rispettato in quanto tale».30 In questo senso, anche rileggendo i versi della sua prima raccolta alla luce degli orizzonti digitalizzati del lavoro, «dispositivi di cattura dell’anima» messi al servizio della precarizzazione, risulterà un quadro di stupefacente attualità; il problema ‒ per dirla con Bifo Berardi ‒ dell’«anima messa al lavoro» e di un «lavoro precario cellularizzato» quali forme nuove di «alienazione»,31 condivide versi di denuncia come quelli in cui Brugnaro diceva degli operai: Siamo come carte. L’universalità che tende ad assumere quest’ottica sul lavoro, per come trattata nella poesia operaia, avvalora la tesi che si andrà qui a supportare, circa il debito culturale che la letteratura del lavoro successiva agli anni Duemila ha verso questa dura stagione di cui Vogliono cacciarci sotto è uno dei manifesti.32 «Siamo come carte. / Siamo buoni finché il sangue bolle, / spacca e serve a tutto. / Quando le nostre fibre cominciano / a cedere ci buttano via / come niente. / Ciò che demmo è trascorso».33
2. ... attraverso la “fabrica” di Fabio Franzin...
Tutti questi stimoli hanno avuto una solida conferma nell’opera neodialettale di Fabio Franzin, nato nel 1963, e trovatosi a scrivere nella campagna industrializzata lungo la Postumia, nei ritagli di tempo tra un turno e l’altro in fabbrica. E proprio Fabrica è il titolo di un poemetto che lavora su un’erosa forma strofica, che risente forse del Pasolini civile, con la sensazione infatti di sfogliare una «Charta (sporca)» del sudore e del sangue del poeta-operaio e dei suoi colleghi, tra cassa integrazione e martirio. È in queste pagine che prende vita una rinnovata “lingua-lavoro” che negli anni si manterrà cifra stilistica dei versi franziniani ambientati nei grigi “vuoti” dei capannoni veneti, dove l’urlo non è più quello ribelle di poeti come Brugnaro, ma solo lo strazio degli infortuni sul lavoro, in un silenzio attonito: «Un zhigo. E po’l nostro / ‘córer verso ‘l compagno / che i ‘é za drio portàr via [...]. // E chea macia de sangue / scuro là, tea segadhura, / come un continente nòvo / te ‘na carta gìografica / del lavoro [...] / fra un siénzhio // che pesa».34 È un dolore già denso nell’esergo scelto da Franzin, che riparte da I sommersi e i salvati di Primo Levi: «... o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale». Anche qui, come nel Lager, «i sèsti i ‘é senpre ‘i stessi / òni dì. E sempre pì sguèlti / i deve èsser. ‘E man che / ‘e core, e corendo ‘e porta / via co’ lore anca ‘l zhervèl»,35 e alla sera arrivano «neri pensieri / de èsser sol che numeri».
Vi è poi l’aspetto materiale della “lingua-lavoro”, insito nel divario tra questa lingua locale di pianura esposta alle contaminazioni postmoderne, e il dialetto di alcuni più anziani modelli, magari rurali; così, la lingua d’uso del poeta-operaio si impasta di termini come supermercati, lavatrice, dignità, autostima, «contrati / precari» (con tagliente enjambement), che fanno parte di un paesaggio di edifici e oggetti, o di un mondo concettuale, avulsi dalla tradizione linguistica delle campagne trevigiane preindustriali, fino ai termini tecnici quali reparto, pressa, machine, neon, conpressori, teécomando, ai nuovi materiali come la plastica, che si aggiunge ai tradizionali «’egno, fèro». È, fin dal lessico, una poesia che risale ‒ per citare il titolo di una recente piccola plaquette franziniana ‒ dal «corpo della realtà», per farsi lingua d’uso nel mondo alienante della fabbrica; tutti i pregi dell’eredità di Romano Pascutto sono declinati ai nuovi orizzonti delle “anime al lavoro”: sembra allora che Franzin ‒ così attento anche in Sesti (2015) alle morti sul lavoro ‒ per “impastare” il suo verso “terragno” sia ripartito dal Pascutto di Par la morte de un murador. La sua è una parola poetica che cerca riconoscimento anche nella realtà lavorativa esterna alla fabbrica, se è vero ‒ come scrive Trevisan in Works ‒ che «anche il lavoro d’ufficio conta i suoi morti e i suoi feriti, anche se nessuno ci fa caso».36
Per “lingua-lavoro” intenderemo tutto questo insieme di fattori, che nel poeta mottense si anima quando uno stile, che guarda all’ordine delle strofette ben allineate per dare piena dignità alla pagina e al dettato civile, si unge di un dialetto parlato nella fabrica, misto di arcaismi e dei necessari neologismi, lingua viva di un territorio ibrido e franto, prosaico come certi versi operai, nati «fra un pezzo e l’altro», come in catena di montaggio.37 Importante, per capire poi la prossimità alle esperienze dei narratori, è rilevare che questa consuetudine deve molta parte delle sue qualità a un naturale assorbimento di quanto accaduto in terra veneta negli ultimi decenni, in continuità con una vicenda biografica che, nel caso di Franzin, vede arrivare la scrittura in un periodo in cui si addensano degli orizzonti di “fine del lavoro”, che Zanzotto ritrae memorabilmente in Silenzio dei mercatini - 2, dicendone le modalità tramite gli stessi utensili: «Si sa che ci sono tanti disoccupati / che non hanno alcun lavoro, / e che la miseria del mondo / non poteva non arrivare anche qua. / Non pareva così presto / così a piombo / diretta / a mannaia».38
Franzin è dunque anche poeta della disoccupazione, di cui ha vissuto il dramma, riassunto nelle liriche di Co’e man monche (2011), in cui penetra «el corpo dea crisi», vivendo in modo bruciante il tema della mobilità,39 che interesserà da vicino anche la vicenda di Trevisan, che la narra in due capitoli centrali della sua autobiografia lavorativa (intitolati, appunto, Mobilità e Mobilità 2). Come Brugnaro, però, anche Franzin tra le tante tensioni cerca il suo “appezzamento libero”, in un brandello di campagna incorrotta, in un pioppo, in un’ansa della Livenza alla ricerca di un sacro che riesce a trasmettere anche la sua pianura crocifissa, attraverso presenze arboree od ornitologiche cantate con inusitata grazia nel recente Erba e aria: «Vi scorgo vagando per queste strade-cicatrici / nere nel corpo ferito della campagna, / fra capannoni, cartelli e rotonde. // Voi presenze esili, candide o grigie, / immobili, sulle sponde nude di fossi e canali. [...] // Chi vuole salvare il vostro volo chiaro / riflesso nell’acqua come angelo nel cielo?»;40 oppure in uno sguardo su una bici, come in una pagina di Mus.cio e roe, appartenente a quest’«altra armonica», direbbe Pusterla, del poetare franziniano: «Non ho mai capito / perché te la comperasti / quella bicicletta. Ti vedevo passare / di qua, tenendola per la manopola del manubrio / e, camminando, andare verso il tuo lavoro, / verso il bar. [...] / Tu passavi, ogni tanto, con il tuo baschetto blu / e il tuo silenzio. Così solo dopo un bel pezzo, / un anno, forse, che non ti vedevo più / ho chiesto a mia madre [...] / tue notizie: “Ah, Benito?, è ormai un anno / quasi che è morto”».41 Si propaga così, oltre gli anni Settanta, la fisionomia del protagonista di Lavoro di Parise; ora è una figura antica, il cui lavoro è ormai solo quello di andare all’osteria, senza baldorie, con un silenzio che lentamente, come per i vecchi scodraz, gli “ultimi rimasti” di Cecchinel, porta verso una morte irrituale e definitiva, in cui soccombe l’immaginario fatto proprio in gioventù dal poeta. Che cosa resta allora dell’umanità veneta?
3. ... ai “lavori” di Francesco Maino e Vitaliano Trevisan
La risposta, in continuità con le esperienze poetiche fin qui presentate, viene dalla sconvolgente opera prima di Francesco Maino (nato a Motta di Livenza nel 1972), il romanzo Cartongesso, uscito per Einaudi nel 2014. Nelle sue pagine, ambientate in una pianura poco distante da quella franziniana, il popolame veneto fatto di buona gente, assume subito tratti peculiari: i volti deformati dal lavoro ne prendono le sembianze (il «bancale chiamato faccia»), il sesso si meccanizza («svitare con la bocca») e così l’uomo non può che trovarsi a respirare «come un trattore umano decespugliatore».42 L’orizzonte concentrazionario già evocato nei poeti ora si svela, non solo dentro i luoghi di lavoro, ma anche nei bar e nelle discoteche in cui campeggia il nuovo “credo” del Nordest, Arbeit macht frei:
il ballo rende liberi, Arbeit macht frei, dice il cartello al bar, chi balla: balla, chi non balla: ordina da bere! Mani alzate e niente scherzi! I barman nazionalsocialisti prendono le ordinazioni, le generalità, tutto un vodka tonic, un martini-cola, requisiscono gli occhiali, le collanine, gli ori, comprese le capsule dentarie, e i documenti. Ricompattare, quindi, formazione femminile, in crocchio, divise identiche, jeans pressurizzati e chiodi sotto i talloni, maglia a V, rimboccata fino al comio, pere a piramide, dire all’unno ipo-proletario di Salò, mi andresti a prendere un gin lemon, ‘more, che mi è venuta un po’ di sete? [...] Bottacin Cristian, con in tasca ottomila e trecento (8300) lire, più o meno come i morti-ammazzati di Srebrenica, un buon artigiano, di fantasie fasciste, figlio di un buon artigiano, di fantasie fasciste, nipote di un buon artigiano, di intatte fantasie fasciste [...].43
Il popolame è vittima e carnefice allo stesso tempo, assorbito nelle logiche del modello nordestino, che si perpetuano oltre ogni crisi nei propri risvolti più maniacali e fascisti. D’altronde, il motto impresso a fuoco sulle cancellate di Auschwitz è lo stesso che anima le «persone premorte» che occupano la vita di Michele Tessari, il protagonista di Cartongesso, in altre parole quello ‒ meglio se tradotto in uno dei tanti dialetti del Nordest ‒ è il motto della “locomotiva d’Italia”. Lo sa bene Vitaliano Trevisan (vicentino, classe 1960), che si avventura in una operazione che forse solo un veneto avrebbe potuto compiere: quasi settecento pagine di autobiografia lavorativa. Questa è la materia, dichiarata già nel titolo, di Works, l’ultimo suo romanzo, o memoir,44 uscito nel 2016 anch’esso per Einaudi. Nella sua prosa, i tecnicismi rinvenuti nella “lingua-lavoro” di Franzin si moltiplicano esponenzialmente, venendo esauriti nel dettaglio ogni volta che l’io di Trevisan cambia professione, da geometra a venditore, da muratore a lattoniere, e così via. Proprio riferendosi a quest’ultima professione, si allinea a Maino e già alla poesia operaia, nell’idea di un corpo che si modella sul lavoro, da cui è deformato:
Aperta parentesi: se mai vi trovate a dare la mano a un lattoniere Be extremely careful, perché, tra tutti i mestieri che conosco, è quello in cui più di ogni altro, col tempo, a forza di tagliare lamiere, le mani diventano tenaglie la cui stretta è spesso sottostimata anche dal legittimo proprietario; chiusa parentesi.45
La logica descritta nella poesia di Brugnaro, in cui ingranaggio, tramoggia e rullo volevano sangue e articolazioni dell’operaio, nelle opere narrative degli anni 2010 è così data per vincente. Ma non riguarda solo l’uomo, perché anche lavoro e paesaggio si compenetrano, e il secondo si distorce sotto il peso delle storture del primo: «Prima c’erano i campi di sterminio, ora c’è lo sterminio dei campi ed è la stessa logica», diceva Zanzotto negli ultimi anni.46 Così, del Nordest resta un profilo dai contorni disumani, la descrizione di una “periferia diffusa” che come una grossa macchina postmoderna ha fagocitato l’essere umano, ed è descritta da Trevisan ‒ con l’aiuto (in corsivo) di Michelstaedter ‒ come qualcosa di onnicomprensivo: «l’idea di una gigantesca macchina che, all’ora stabilita, si mette in moto da sé. [...] Individualità che si scioglie nel flusso, macchina che cigola in ogni commessura, ma non temere, non si sfascia, è questo il modo suo di essere, e non c’è mutamento in questa nebbia».47
Gli stessi orizzonti interessano anche la «salutare esplosione nervosa»48 di Maino, che nelle sue pagine iniziali isola il marchio lessicale che corrisponde all’alienazione ambientale:
una terra, o meglio un territorio, come si usa dire in giro, cioè nei bar e nelle pagine della cronachetta, un territorio dimenticato dalla grazia di dio e dagli uomini intelligenti, o meglio, ricordato solo da uomini confezionati o da spericolati coltivatori di clientele, un territorio che ha voluto fare a meno della grazia di dio. Questa terra ha smesso di mantenersi a mani nude, non è più una terra, e infatti è divenuta un territorio; oggi questa terra asettica è popolata esclusivamente da creature travestite, avvilite, pascolanti, arrendevoli e sfiorite [...].49
«Come si usa dire in giro»: questa spia dell’oralità, che è una delle peculiarità anche della diversissima prosa di Trevisan, rimanda ancora al dominio della poesia. Se sono innegabili e spesso dichiarati i debiti letterari verso la grande narrativa europea, da Gadda a Bernhard, nel caso di Maino si sente, se non uno studio attento della prosodia di Zanzotto, almeno una non celata consuetudine con la pagina del poeta solighese, del quale ritornano anche le tematiche e i paesaggi.
Se poi, come si diceva, Franzin, nel dar vita alla lingua della fabbrica, fa entrare nell’idioma primigenio numerosi impianti dal mondo extra-dialettale della tecnica, con un incremento di realismo, si ravvisa un lavoro analogo nella scrittura del conterraneo Maino, il cui italiano è di continuo impregnato di forme idiomatiche, che esprimono sonorità e stilemi di un mondo globalizzato ma chiuso in un provincialismo che, secondo Michele Tessari, è corroborato anche da coloro che fanno la scelta di rifiutarlo:
Quelli del liceo son spariti tutti all’estero e non tornano più indietro, bisogna dirlo, è stato facile per loro, far i bagagli, più facile che rimanere qui, dentro questa stalla d’itaglia, è stato facile mollar giù la scialuppa prima che la venezia-giulia affondasse nella melma, andarsene a ciapar schei oltre confine, dove tutto quadra, funziona, difficile star qui a metter in salvo lo spirito, prender ordini da gerarchi delle baracche, ordini da sfrontati, far sempre la parte dell’orso meccanico nei baracconi di paese, preso a piombini sul culo dai testoni che manovrano le carabine ad aria compressa, facile imparare quattro (4) troiate d’inglese, mettersi in fuga prima dei rastrellamenti, più difficile decidere di parlare un buon italiano dove tutti parlano il grezzo, dove se parli l’italiano ti tollerano come minoranza italianista alloglotta, come fossi a Bolzano, ti mandano in mona in un secondo, dove perfino davanti ai siorigiudici si parla grezzo, casaxion invece di cassazione, obliteraxion invece di obliterazione, rateaxion invece di rateazione.50
Su uno sfondo che conferma le attinenze tra le logiche lavorative nordestine e quelle di eredità nazifascista, è tutto un tralignare di forme venetizzate, che non sono né dialetto né “buon italiano”, ma l’esito di una consuetudine linguistica degenerata, divenuta la norma sul lavoro, e la cui tentacolarità contamina non solo i nativi, ma anche chi è immigrato, come in Works:
Parché?, disse, Gavarissito vudo coraggio de lassarme ‘ndare dio ca’!
Difficile rendere il dialetto veneto [...] in lingua scritta; più difficile ancora se, come nel caso di Nino, esso è parlato con un forte, inequivocabile, a volte esilarante, accento siciliano. Del resto il dialetto era la lingua dell’ambiente, almeno vent’anni fa, e bisognava impararla, bestemmie comprese, senza le quali, trattandosi di dialetto veneto, e vicentino in particolare, sarebbe come voler cucinare un pollo al curry senza il curry, e Nino aveva imparato tutto benissimo.51
Tanto Maino che Trevisan, sentono l’esigenza di riportare termini e frasi nei loro dialetti, per dare veridicità al dettato, o per dar saggio del grezzo: «un idioma tecnico para-dialettale di consumo»,52 nuovo orizzonte della “lingua-lavoro” alla cui intraducibilità soggiace una mentalità che già sarebbe impreciso importare dall’oralità nella scrittura. Fermo restando, nel caso del vicentino, quanto dichiara con schiettezza in Tristissimi giardini:
Quel che c’è di scritto non è rilevante: o è troppo basso ‒ vedi il teatro popolare veneto e vicentino dell’Otto/Novecento; o è troppo alto ‒ vedi Zanzotto, Bandini, Cecchinel e seguaci, che l’autore, per quanto faccia, non riesce a leggere, nel senso che rifiuta di decodificare la parola dialettale scritta. È un rifiuto profondo, direi inconscio, se credessi all’inconscio. Comunque, anche qui, molto si lega alla sua, cioè mia, anacronistica coscienza di classe: la lingua di mia madre e di mio padre, dei miei nonni, non ha niente a che fare con la scrittura. [...] Al massimo ci sono appunto le parole, ma non c’è la lingua, cioè non c’è il corpo, e un dialetto solo sulla carta, senza corpo, si spegne.53
Oltre al fattore linguistico, altri sono, nell’esperienza di lettura comparata dei due romanzi considerati, i motivi di integrazione tra l’uno e l’altro. È il caso dell’indugio sul lavoro nero, quale cifra consueta dei rapporti professionali tra lavoratore e padrone, in un clima generalizzato che ammette nei fatti una regressione rispetto alle conquiste rivendicate dalla generazione di Brugnaro. Si comincia dal lavoro intellettuale di Tessari, avvocato che non trova radici etiche al suo operato, dentro un mondo della giustizia fatto di «personale decomposto, mollica spappolata»54, per arrivare al protagonista di Works, che sancisce: «è spesso la disonestà diffusa, specie in ambito pubblico, a generare lavoro».55 Un lavoro che è materia di questa scrittura, che accoglie al proprio interno esperienze di vita vissuta, a lungo contatto col territorio, dove c’è la materia, anche in senso concreto: il cartongesso è uno dei prodotti simbolo dell’industrializzazione e della cementificazione del Veneto. Lo si rinviene più volte confitto nella pagina di Trevisan, quando entra in uffici nei quali si lavora «dall’altro lato di un muro in cartongesso»56 e non poteva che diventare il titolo del romanzo di Maino, che per contro ha un incipit tutto veneto, di quel Veneto raccontato da Works: «Il mio lavoro principale, il mio primo lavoro, quello ufficiale, qui a Insaponata, un lavoro retribuito, quello per il quale mi trovo impiegato ventiquattro (24) ore su ventiquattro (24), ogni giorno [...]». In due righe, le prime due di Cartongesso, il termine lavoro è impiegato ben tre volte; e così, in Works, lavoro e i suoi corradicali superano il migliaio di ricorrenze (quasi una trentina solo nel primo breve capitolo). Il romanzo sul Nordest si configura come un romanzo di lavoro, condizionato in toto dal lavoro, e strumento di lavoro a propria volta, quando mette a nudo ‒ rilievo particolarmente valido per Trevisan ‒ la stessa tecnica della scrittura narrativa, mostrata nel prodursi. Nello specifico, entrambi gli scrittori fanno un significativo uso di note a piè di pagina, più massiccio in Works, dove Trevisan si concede ogni tipo di approfondimento e valutazione, ma anche rimandi al montaggio del romanzo.57 Ulteriore attenzione in questo senso richiamano poi nel vicentino i legami con il suo lavoro sul testo teatrale, di cui improvvisa uno spaccato nel capitolo Il mondo gira:
el boa Tu? (non sapendo se battergli il cinque o prenderlo a pugni)
l’altro Io! (misto di orgoglio e paura, non sapendo cosa aspettarsi)
tutti Tu?!
Segue una pausa. È nelle pause che c’è tutto, basta saper ascoltare. Prima e dopo bisogna scrivere. E dopo la pausa, una risata collettiva e liberatoria.58
E così, nel capitolo successivo, Temporaneamente, sfora di nuovo dalla narrativa nel teatro:
i nostri politici e i nostri amministratori fanno di tutto per ostacolare quel che basterebbe assecondare per mettere Vicenza nelle condizioni di non aver più nulla a invidiare, per qualità, quantità e giro d’affari, ai più grandi e rinomati quartieri-bordello del mondo, e questo signori, è inspiegabile, inspiegabile... si schiarisce la voce ‒ «si schiarisce la voce» è una didascalia ‒ Pausa.
Chiedo scusa: ogni tanto la scrittura mi prende la mano, la narrativa mi diventa teatro [...]. Però, forse, mi dico scrivendo, per una volta, la cosa ha un senso, visto che siamo capitati proprio nell’occhio di uno dei peggiori punti di congestione della metropoli, così che anche il flusso di parole si prende nel vortice e finisce per attorcigliarsi su se stesso.59
Gli fanno eco alcune pagine di Cartongesso, dove l’esordiente Maino si concede un lavoro sui tempi di un dialogo, che sforano in una teatralità fatta di pause (e sarebbe interessante indagare anche l’uso dei corsivi in rapporto alla resa orale):
Sì, buongiorno. Avvocato Tessari (PAUSA) senta, signora → non sono una signora, sarei dottoressa! Ah, pardon, (PAUSA) senta dottoressa, una cortesia, dovrei depositare una memoria in scadenza (PAUSA)60
Questa sede non permette un’indagine dettagliata dei fattori stilistici legati alla complessa “lingua-lavoro” armata da Maino, ma un ulteriore legame tra lo stile e il mondo dell’impresa viene dalla scelta di trascrivere tutti i numeri menzionati sia in lettere che in cifra, come in uso nei documenti bancari («ventiquattro (24) ore su ventiquattro (24)»); e come fa a un certo punto Trevisan, per sottolineare l’entità del suo stipendio ridotto a causa della crisi aziendale.61 È la conferma di un’ossessione nordestina per i numeri, specie quando prendono la forma di soldi, di schèi, in una realtà dove il lavoro non è un diritto, fonte di dignità, ma un dovere figlio dell’ossessione per il denaro, cui corrisponde un continuo lamento, negazione nei fatti dell’abusata espressione «Veneto felice»:62
Più aumenta il capitale monetario nella campagna, più aumenta esponenzialmente l’insopportabile piagnisteo giornaliero della campagna, così da far apparire incredibilmente pezzente chi pezzente non è, o almeno non in senso materiale.63
Di fronte al venir meno delle possibilità di “lavoro-lavoro” in virtù di professioni alienanti, disoccupazioni, marginalizzazione, cresce la costante infelicità lavorativa, data in Cartongesso e Works anche dagli altalenanti umori dei protagonisti, che hanno voglia di fare lavori manuali quando ne praticano di intellettuali, e viceversa. «Il mio quinto lavoro, quello più o meno retribuito dal punto di vista monetario, consiste nel fare l’avvocato. Io faccio l’avvocato pur sapendo, come scriveva Luigi Tenco, di non aver trovato ancora il mio posto nel mondo»,[64] afferma Michele Tessari, che arriva anche a dire, molto più avanti, qualcosa di profondamente vero, che riporta a quei “lavori-lavori” duri ma che sanno di umano nelle pagine di Parise, Brugnaro e Cecchinel:
Non vorrei più fare l’avvocato, un lavoro che mi ha selezionato tra tante intelligenze robuste da deportare [...]. Vorrei tornare a fare, viceversa, lavori che quando si fanno si muovono le mani, si condivide il sacrificio con i colleghi, si ha fame alle nove, si magna il panetto alla porchetta, poiché si attacca alle sette, si pranza a pane, mortadella e rabosino, ci si sente sì sfruttati ma non deturpati, si arriva a casa, la sera, dopo il cantiere, sfatti [...]. Ecco, io adesso avrei voglia di fare dei lavori così65
A fronte di tutte queste prospettive, che vorticano in diversi modi a partire dalla presenza costante e totalizzante del lavoro come epicentro del vivere, resta a fuoco un’immagine che ‒ dai Sillabari, passando attraverso la poesia di Franzin ‒ arriva fino a Works: quella della bicicletta. Se nei primi due autori si fa progressivo simbolo di un passato che volge alla fine, in Trevisan è stata il pretesto per cominciare. Come tutto ebbe inizio, recita il titolo del primo capitolo di Works, in cui la vergogna di usare una «bici da bambina» ereditata dalla sorella maggiore, diviene inaspettato pretesto che dà vita a una infinita e travagliata vita lavorativa, nonché all’intera macchina narrativa. Tutto comincia nell’infanzia, una sera a cena:
Basta andare in giro su questa ridicola ed effeminata bici senza palo!; e basta anche con questa frase.
Quella stessa sera, a ora di cena, cioè alle sette, non un minuto più né uno in meno, e guai ad arrivare in ritardo [...]; quella sera, dicevo, proprio approfittando della presenza di mio padre, [...] presi coraggio e mi lanciai in un’accurata esposizione di dette quotidiane umiliazioni [...].
Tornando alla cena, se da mia madre ero pronto a ricevere un ceffone, da mio padre, il massimo che potevo aspettarmi era che nel suo Non ci sono soldi, che era matematica, ci fosse la giusta sfumatura. Eppure, ricordo, quel giorno di tanti anni fa, mio padre ci stupì tutti e disse, Una bicicletta nuova, certo, da uomo. Col palo. E a mia madre: Non può certo continuare ad andare in giro con quel catorcio, giusto Lina? Poi, come se niente fosse, riprese a mangiare.66
Così, il padre promette che, per accontentarlo, lo porterà da un amico, per una volta evitando di citare i soldi; si recano alla fabbrica di costui, che produce gabbie per uccelli. Viene in mente il celebre aforisma kafkiano: «una gabbia andò a cercare un uccello».67 La trappola, per quanto inconscia, è già preannunciata:
Perché era per questo che mio padre mi aveva portato fino a lì, nella fabbrica di gabbie per uccelli del suo amico, per trovarmi un lavoro, e non, come pensavo, per comprarmi una bicicletta, cosa che, come mi spiegò, sulla strada del ritorno, almeno per il momento era da escludere, Perché, disse, non ci sono soldi. Ma lui, mio padre, era d’accordo con me: non potevo continuare ad andare in giro con quella bicicletta da donna, e così si era dato da fare per mettermi nelle condizioni di risolvere il mio problema trovandomi un lavoro, e si era rivolta al suo amico chiedendogli il favore di farmi lavorare, durante le vacanze estive, nella sua fabbrica di gabbie per uccelli.
Del breve incontro con quello che sarebbe diventato il primo dei miei molti datori di lavoro non ricordo quasi nulla, se non che, dopo che mio padre mi ebbe presentato, il tipo mi squadrò e disse qualcosa come: Eccolo qua, quello che vuole la bicicletta. Be’, hai voglia di lavorare? Non posso dire di ricordarlo, ma, messo davanti al fatto compiuto, certamente avrò detto di sì, così come in seguito, al cospetto di quella stupida domanda che tanto spesso sarebbe ricorsa nell’arco della mia prima vita, avrei sempre detto di sì, non perché abbia mai avuto davvero voglia di lavorare, ma semplicemente perché ho sempre avuto necessità di lavorare per nessun’altra ragione che per guadagnarmi da vivere punto.68
Così, sull’emblema della bicicletta, si trasportano alcune delle principali storie lavorative del Nordest, con cui gli scrittori non hanno mai un rapporto pacifico né, tanto meno, pacificato; anzi, la grande questione che si è profilata almeno dagli anni Settanta, è quella che nella prosa di Parise aveva già trovato espressione massima, in una brevità densa, a cavallo tra poesia e prosa, a segnare anche una continua contaminazione tra generi che, nella fattispecie in Veneto, mantiene notevole vitalità.
A Nordest, dopo la fine del “lavoro-lavoro”, resta aperto in letteratura ‒ tra mobilità e disoccupazione ‒ un discorso sul lavoro come “religione” legata agli schèi, visti come necessità alienante o come testardo accumulo. Si conferma, insomma, un importante ragionamento sull’identità di un territorio tra locale e globale, dove la disgregazione del tessuto sociale non permette più ai poeti-contadini e ai poeti-operai di dire noi, e dove i narratori si appropriano di un io civile, tra denuncia e sperimentazione, destinato a produrre ancora significativi esiti, che mescidino in modo nuovo l’autobiografismo con la potenza dell’arte, l’acume della scrittura saggistica con la densità della tradizione poetica di una “macroregione” fondata sul mito del lavoro.69 Ci si aggrappa alla solida certezza di una ricerca attenta in direzione di una “lingua-lavoro” che cambia di autore in autore, ma conservando sempre un filo rosso di compattezza, che esprime la continuità territoriale di un «progresso scorsoio» a contatto col quale tutti gli autori trattati hanno operato. Non è facile tuttavia capire come andare oltre il ritratto, l’autoritratto e la critica, e quale sia infine l’impatto diretto che questo tipo di scrittura potrà avere sul mondo del lavoro, né se potrà rinvigorire la dignità del proprio, quello intellettuale, inviso ai sostenitori delle “politiche del fare”. Di certo, una qualche influenza nel dibattito sul Nordest, tra crisi d’identità e opposte ma complementari derive identitarie, la letteratura riesce ancora ad averla anche oltre i propri stretti confini se, ad esempio, lo scorso aprile Giovanni Collot sulle pagine di «Limes», la prestigiosa rivista di geopolitica, ha scelto di partire da una citazione letteraria per parlare del fenomeno venetista, tra «religione del lavoro e mito dell’’ognuno padrone a casa propria’», confrontandosi con Parise e, più avanti, con la voce di Andrea Zanzotto;70 o se l’«Internazionale» ha affidato alla penna di Wu Ming 2, orgogliosamente “scrittore”, il compito di fare un Piccolo tour del disastro della pianura padana, vessata dagli stessi problemi di quella veneta, «perché nella macroregione anche l’affetto per il territorio si nutre di veleni»;71 o se, alla ricerca di vie d’uscita dalla crisi in corso, un inedito dialogo tra impresa e università tenta di costruire un ponte tra il mondo del lavoro industriale-finanziario e il linguaggio narrativo, come in un recente progetto coordinato da Ca’ Foscari, che ha dato i primi esiti in cinque racconti editi presso Kellermann nel 2016.72
L’augurio, al di là della vitalità della letteratura nell’insinuarsi nel dibattito sul lavoro, sulla sua crisi e sulle sue conseguenze, è che la funzione fattiva dell’arte come serbatoio di istanze collettive prevalga sul narcisismo dell’io narrante; che le esperienze di Brugnaro e dei poeti in dialetto non costituiscano solo un tempo passato su cui lavorare nell’ordine della ricerca stilistica, ma contribuiscano a segnare la via del ritrovamento di una dimensione sociale del lavoro, lontana dall’alienazione, guardando magari al felice esempio che le parole sempreverdi del poeta-operaio, ostinato a dire noi con caparbietà, ci offre nei versi di Verde e ancora verde: là dove a Nordest questo colore degradato politicamente sia oggetto di riappropriazione da parte di una collettività che ‒ a partire dall’ostinazione di due uomini-pittori e, con loro, del poeta che li canta ‒ torni ad essere simbolo di speranza, di un lavoro che conferisce nuova dignità all’uomo e alla terra che lo ha generato. «C’è una casa a Portomarghera / sotto le ciminiere / che un uomo / e un ragazzo / dipingono e ridipingono / continuamente. / Una volta la fanno verde intenso / una volta verde chiaro / una volta verde / luminoso / che si vede anche / di notte / da molto lontano. [...] / La fanno verde lucida / certe volte / come un sogno / straziante / tra gli sputi neri / delle fabbriche. / L’aprile è scomparso a Portomarghera / la primavera / è morta / c’è solo / questa minuscola casa / che un uomo e un ragazzo / dipingono / e ridipingono / instancabilmente / tra canali di catrame / tralicci / bufere di polveri / micidiali / su ogni / germoglio / su ogni / segno / dolce / di movimento».73*
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1 Andrea ZANZOTTO, In questo progresso scorsoio. Conversazione con Marzio Breda, Milano, Garzanti, 2009, p. 35.
2 Goffredo PARISE, Lavoro, ID., in Sillabari, Milano, Rizzoli, 1997, p. 197.
3 Luigi MASCHERONI, “Da Comisso a Parise: ecco il Veneto felice che ora non c’è più” [intervista a Nico Naldini], in «Il Giornale», 16 febbraio 2017.
4 Cfr. Marco GOLDIN (a cura di), Zigaina. Opere 1942-2009, Tavagnacco (Udine), Linea d’ombra, 2009, pp. 102-105, 111, 124. Queste visioni della campagna e dei suoi abitatori in bicicletta ricordano molto da vicino le pagine del romanzo pasoliniano Il sogno di una cosa, ambientato in Friuli tra 1948 e 1949, negli stessi anni dunque in cui Zigaina cominciava a dipingere i suoi braccianti con le biciclette.
5 Cfr. la locuzione dialettale de bant, che nel dialetto alto-trevigiano usato da Zanzotto si può anche tradurre con “disoccupato”, ma è forte anche la consonanza con l’italiano “allo sbando”.
6 Goffredo PARISE, op. cit., pp. 198-199.
7 Cfr. Stefano COLANGELO, Il lavoro oltre il denaro. Quarant'anni di poesia operaia, in «LETTERARIA», 2009, 2, p. 4.
8 Ibidem.
9 Goffredo PARISE, op. cit., pp. 200-201.
10 Cfr. Andrea ZANZOTTO, Le poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, con due saggi di Stefano Agosti e Fernando Bandini, Milano, Mondadori, 1999, pp. 782-794.
11 Luciano CECCHINEL, Crośe, crośat, in ID., Al tràgol jért. L’erta strada da strascino [1988], postfazione di Andrea Zanzotto, Milano, Scheiwiller, 1999, p. 153: «c’è una scia di luce guasta / su questo sparpagliamento di rastrelli secchi, / di gerle rotte e falci arrugginite [...]. / Adesso che come uno stregone ho fatto / degli attrezzi cornici / e poi attrezzi delle fatiche, / io, tarlo tarlato di collare, / faccio da me stesso di me un grande fuoco: / di sudore, di lacrime e sangue».
12 Ivi, p. 107. Cfr. Paolo STEFFAN, La resistenza di un credo, in ID., Luciano Cecchinel - Poesia. Ecologia. Resistenza, prefazione di Alessandro Scarsella, Osimo (An), Arcipelago itaca, 2016, pp. 50-52.
13 Giovanni TURRA, Senċ che gnesuni pi romai intenž. Poesia e dialetto in Luciano Cecchinel, in «Quaderni Veneti», 33, giugno 2001, p. 145.
14 Luciano CECCHINEL, Da un tempo di profumi e gelo, postfazione di Rolando Damiani, Faloppio (Co), LietoColle, 2016, p. 57.
15 PALAZZESCHI Aldo, L’incendiario. Col rapporto sulla vittoria futurista di Trieste, Milano, Edizioni Futuriste di “Poesia”, 1910, pp. 73, 78.
16 Ivi, p. 80.
17 Pier Paolo PASOLINI, Il sogno di una cosa [1962], presentazione di Edoardo Albinati, Milano, Garzanti, 2000, p. 86.
18 Luciano CECCHINEL, Sanjut de stran, prefazione di Cesare Segre, Venezia, Marsilio, 2011, pp. 83-86: «un appostarsi di case nuove / con le loro inferriate e le loro luci strane» che «tremano e crocchiano / come i segni di un temporale».
19 Ferruccio BRUGNARO, Vogliono cacciarci sotto. Un operaio e la sua poesia, con una nota di Andrea Zanzotto, Verona, Bertani, 1975, p. 30.
20 Ivi, p. 95.
21 Ivi, p. 28.
22 Primo LEVI, Buna, in ID., Ad ora incerta [1984], Milano, Garzanti, 2004, p. 13.
23 Ferruccio BRUGNARO, op. cit., p. 52.
24 Andrea ZANZOTTO, [nota], in Ivi, p. 113.
25 Ivi, p. 114.
26 Ibidem.
27 F. BRUGNARO, Dicono spesso, in ID., Un pugno di sole / Eine Faust voll Sonne, introduzione di Francesco Moisio, Frankfurt, Zambon, 2011, p. 122.
28 F. BRUGNARO, Nota introduttiva, in ID., Vogliono cacciarci sotto, cit., p. 14.
29 Ivi, p. 84.
30 Cfr. Paolo STEFFAN, «Niente mi ha fiaccato» - Conversazione con Ferruccio Brugnaro, in lucianocecchinel.wordpress.com, 28 febbraio 2017.
31 Cfr. Franco BIFO BERARDI, L’anima al lavoro. Alienazione, estraneità, autonomia, Roma, DeriveApprodi, 2016, pp. 285.
32 Spiace, a questo proposito, che nella ricchissima antologia curata da Bigatti e Lupo per Laterza (2013), Fabbrica di carta, Brugnaro sia il grande assente.
33 Ivi, p. 57.
34 Fabio FRANZIN, Fabrica, Borgomanero (No), Atelier, 2010, pp. 20-21: «Un urlo. E poi il nostro / accorrere verso il collega / che già stanno portando via [...]. // E quella chiazza di sangue / scura, lì, sulla segatura, / come un continente nuovo / nella carta geografica / del lavoro [...] // fra un silenzio // che pesa».
35 Ivi, p. 14-15: «i gesti sono sempre gli stessi / ogni giorno. E sempre più ossessivi / devono essere. Le mani che / corrono, e correndo trasportano / con loro anche la mente».
36 Vitaliano TREVISAN, Works, Torino, Einaudi, 2016, p. 275.
37 Questa lingua operaia può dirsi la faccia proletaria di quello che ha preso nome ironicamente, ma non a sproposito, di “venet-english”, koinè imprenditoriale mista di dialetto veneto e inglese, usata dai padroni delle stesse fabbriche, per comunicare il proprio mestiere nel mondo dell’economia globale.
38 Andrea ZANZOTTO, Conglomerati, Milano, Mondadori, 2009, p. 27. Traduzione zanzottiana dall’originale in dialetto solighese.
39 Cfr. Fabio FRANZIN, Co’e man monche / Con le mani mozzate, prefazione di Manuel Cohen, Sasso Marconi (Bo), Le Voci della Luna, 2011.
40 Fabio FRANZIN, Erba e aria, introduzione di Fabio Pusterla, Montecassino (Mc), Vydia, 2017, pp. 88-89. Traduzione di Franzin dall’originale in dialetto.
41 Fabio FRANZIN, ‘A bici, in ID., Mus.cio e roe - Muschio e spine, Sasso Marconi (Bo), Le Voci della Luna, 2006, pp. 98-100. Traduzione di Franzin dall’originale in dialetto.
42 È un’ottica riassunta in un enunciato da Trevisan (op. cit., p. 407): «il lavoro fa l’uomo, e la donna, anche fisicamente, molto più di quanto comunemente si pensi, o si sia disposti ad ammettere».
43 Francesco MAINO, Cartongesso, Torino, Einaudi, 2014, p. 21. Comio = gomito.
44 Cfr. Vitaliano TREVISAN, op. cit., p. 422, nota 33.
45 Ivi, p. 390.
46 Andrea ZANZOTTO, I miei 85 anni, in «l’immaginazione», n. 230, maggio 2007, p. 1.
47 Vitaliano TREVISAN, op. cit., p. 602.
48 Mauro PORTELLO, La realtà disturbata da Cartongesso, in www.doppiozero.com, 13 gennaio 2015.
49 Francesco MAINO, op. cit., p. 4.
50 Ivi, p. 82.
51 Vitaliano TREVISAN, op. cit., p. 417. L’aspetto blasfemo è subito confermato in Maino (op. cit., p. 7): «Guai a chi non bestemmia iddio al lavoro».
52 Francesco MAINO, op. cit., p. 14.
53 Vitaliano TREVISAN, Tristissimi giardini, Bari, Laterza, 2010, p. 115.
54 Francesco MAINO, op. cit., p. 169.
55 Vitaliano TREVISAN, Works, cit., p. 585.
56 Ivi, p. 243.
57 In questo vi è una analogia con certe modalità della poesia di Andrea Zanzotto, e sull’uso che fa delle note, per cui cfr. Paolo STEFFAN, Un «detrito-enigma»: la nota a capo pagina, in ID., Un «giardino di crode disperse». Uno studio di Addio a Ligonàs di Andrea Zanzotto, prefazione di Ricciarda Ricorda, Roma, Aracne, 2012, pp. 84-86.
58 Vitaliano TREVISAN, Works, cit., pp. 554-555.
59 Ivi, p. 568.
60 Francesco MAINO, op. cit., 207.
61 Cfr. Vitaliano TREVISAN, Works, cit., p. 337.
62 Cfr. le parole di Nico Naldini, in Luigi MASCHERONI, op. cit.: «Il Veneto felice è un percorso della felicità, le cui tappe sono gli scritti che Comisso dedicò alla sua terra, [...]. Solo riappropriandosi delle proprie radici si può sperare nella felicità. E il Veneto felice è quella civiltà. Che non c'è più».
63 Francesco MAINO, op. cit., p. 5.
64 Ivi, p. 99.
65 Ivi, p. 203.
66 Vitaliano TREVISAN, Works, cit., pp. 6-7, 11.
67 Franz KAFKA, Aforismi di Zürau, a cura di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 2004.
68 Vitaliano TREVISAN, Works, cit., pp. 14-15.
69 Cfr. Ivi, p. 14.
70 Giovanni COLLOT, Benvenuti nel Veneto, Texas d’Italia, in «Limes. Rivista italiana di geopolitica»: A chi serve l’Italia?, 4/2017, pp. 49, 57.
71 WU MING 2, Piccolo tour del disastro nella pianura padana, in internazionale.it, 15 maggio 2017.
72 Cfr. Alessandro CINQUEGRANI (a cura di), Con le vostre chiavi. Storie di imprese significanti, Vittorio Veneto, Kellermann, 2016.
73 Ferruccio BRUGNARO, Un pugno di sole, cit., pp. 52-54.
*Ringrazio di cuore Ferruccio Brugnaro per il nostro dialogo e la sua generosità; e Maria Pia Arpioni, senza il cui sostegno iniziale questo articolo non sarebbe stato scritto.