Francesca Favaro
(Università di Padova)
Forme nuove del genere tragico.
Il dramma del lavoro (non solo operaio),
fra narrativa e testimonianza, nel più recente panorama letterario italiano:
la Fabbrica del panico di Stefano Valenti e Amianto di Alberto Prunetti
A Moreno
Come premessa
Ho la fortuna – la somma fortuna – di amare la mia occupazione. Insegno letteratura: ogni giorno, la sento rivivere, grazie al contatto con gli studenti. Non bado molto, confesso, alle sedi che mi vengono assegnate, ai luoghi fisici in cui tengo le mie lezioni: altra, non quella delimitata dal perimetro delle aule, è infatti la dimensione in cui tento di muovermi.
Quest’anno, tuttavia, vi ho fatto caso, poiché quest’anno, per lo svolgimento del laboratorio di analisi del testo poetico, mi sono trovata in un edificio convertito a struttura universitaria solo al termine della sua funzione precedente: quella di fabbrica.
Il mutamento di finalità, ben realizzato, non evita tuttavia che resti traccia – nell’ampiezza dei corridoi, altezza dei soffitti e disposizione complessiva degli spazi – dell’utilizzo originario. Risulta quindi sorprendentemente facile, sostituendo una catena di montaggio o i pianali di un’officina alle file di banchi saldati al suolo, immaginare le “tute blu” intente alle loro mansioni. Pertanto, è proprio adesso, anche grazie a quest’atmosfera, che sento di poter mettere mano alle pagine – lungamente meditate, ma sinora non divenute forma scritta – nelle quali proverò a illustrare le affinità, pur nell’apparente differenza di genere, di due opere, recenti nel panorama letterario italiano, che narrano entrambe una storia di operai: La fabbrica del panico di Stefano Valenti1 e Amianto di Alberto Prunetti.2
Scriverò con pudore: non si tratta mai, nella critica, di mera letteratura, ma sempre di vita; in questo caso, ancor di più.
Scriverò inoltre con intimo rammarico: il rammarico, al quale posso dar voce (non emotiva o banalmente sentimentale) grazie a un’occasione di studio, di chi ormai da tempo sente che ha compreso tardi.
Scriverò, infine, con la coscienza non solo della delicatezza intrinseca dell’argomento (la fatica del lavoro disumanizzante; la morte a causa del lavoro) ma anche della difficoltà implicata, sul piano della riflessione critica, da opere che si presentano come ibridazioni,3 diversamente complesse, fra narrativa, biografia e autobiografia, ricostruzione memoriale, testimonianza, inchiesta. Sembra in effetti che, allo scopo di dare espressione idonea al dramma del lavoro nella società contemporanea, non siano sufficienti i confini di un genere, ma si rendano necessari gli intrecci, le incursioni in ambiti limitrofi o alternativi alla narrativa pura così come alla pura ricerca documentaria: un solo registro, una sola impostazione, non farebbe che accentuare il rischio di una (peraltro fatale) approssimazione.
Sulle strategie d’espressione ‘ibride’ per cui optano Valenti e Prunetti si sofferma Monica Jansen; la studiosa «argues that narratives such as these, which mix testimonial experience with storytelling, challenge the view that contemporary writing is informed solely by a poetics of factual realism. Prunetti and Valenti’s narratives do not merely represent the outside world through objective reports. Through the encounter between imagination and the Real, they also attempt to intervene on reality by turning divisive feelings typically associated with trauma, such
as bereavement and anger, into cohesive sentiments, such as solidarity and sociability, which may foster redemption and change».4
Ed è da questo intreccio, da questa contaminazione, che nasce una rinnovata formulazione del genere tragico.5 Inoltre, lo sfaccettarsi, se non frammentarsi, della linea narrativa deve essere ricondotto al fatto che a scrivere dei padri siano i rappresentanti di quella generazione, costitutivamente precaria, cui è venuta a mancare la (relativa) stabilità sulla quale i genitori in qualche misura contavano: inevitabilmente, questo mutamento – attivo sul piano sociale e psicologico, per non dire antropologico – si riverbera nel narrato che è, anch’esso, tragico.6
1. Due storie; o, invece, una storia: la stessa
La Fabbrica del panico è un libro che ‘simula’ di rientrare nella categoria dei romanzi. Lo richiede l’autore stesso, nelle righe della nota conclusiva, apposta in calce al volume, in cui afferma che quanto narrato, sebbene volto a fatti realmente accaduti e documentati, è frutto d’invenzione.7 In verità, tale dichiarazione (per altro vagamente ossimorica) vela la componente autobiografica presente nell’opera: il padre di Stefano Valenti, infatti, era un operaio, e l’autore conobbe da vicino il mondo di cui scrive. La scelta della trasposizione romanzesca si può forse spiegare in una duplice ottica: la necessità, da parte dello scrittore, di frapporre tra sé e la storia narrata una sorta di filtro e barriera distanziante, e al contempo la volontà di assolutizzare quanto accaduto, nella rinuncia a qualsiasi esplicito riferimento personale. Nel romanzo, infatti, non compaiono mai i nomi del padre né del narratore.
Al contrario, il libro di Prunetti, Amianto, esordisce con la dichiarazione in base alla quale si sarebbe desiderato che ciò che vi è racchiuso fosse una fantasia, e non appartenesse a un’esperienza autenticamente vissuta:
Avrei voluto che questa storia non fosse davvero accaduta. Come si dice? Frutto della fantasia dell’autore. Invece è la realtà che ha bussato alle porte di queste pagine. L’immaginazione ha riempito i buchi come uno stucco di poco pregio e ha ridisegnato certi episodi per meglio riprodurre la vicenda di una vita e di una morte. Di una biografia operaia.8
Le prospettive, a una prima considerazione, potrebbero risultare quindi opposte; a determinarne la differenza è il genere (prevalente, non assoluto) scelto per affrontare il tema; le conclusioni invece, convergono, finiscono per coincidere e identificarsi: la storia è la medesima, ed è sempre vera, nonostante i ‘travestimenti’ possibili.
A confermare questa sottesa identità contribuisce inoltre il reciproco riconoscimento, da parte dei due scrittori, del valore delle rispettive opere, nonché dell’appartenenza a un ‘filone’ comune: Valenti e Prunetti, i cui libri hanno visto la luce quasi in contemporanea, si sono incontrati e hanno apprezzato le pagine l’uno dell’altro.9 Alla stima per Prunetti, Valenti, in un’intervista rilasciata a Ilreportage.eu (23 luglio 2013) unisce quella per Angelo Ferracuti, autore di Il costo della vita e per Cristina Zagaria, autrice di Veleno: tutte queste opere, formalmente differenti, mostrano una nuova sensibilità e attenzione verso il fenomeno delle morti bianche. Irripetibile risulta, per Valenti, la narrativa industriale rappresentata da maestri quali Volponi e Bianciardi, scaturita dal medesimo boom dell’economia di cui ora si descrive l’esaurimento.
La storia cui Valenti e Prunetti si dedicano (storia che peraltro, come si è accennato, non è purtroppo solo loro) è in fondo la medesima10 nonostante i loro titoli suggeriscano percezioni differenti, orientandosi l’uno verso l’immaterialità (che però squarcia la psiche) del panico11 scatenato dalla fabbrica, l’altro sulla concretezza della materia – flessibile, resistentissima, praticamente indistruttibile – foriera, per chi ne inali anche solo una fibra, di una morte lontana nel tempo, ma in agguato e quasi certa: l’amianto.
In verità, il panico e l’amianto non sono altro che le due facce, speculari, di un Giano bifronte. Ugualmente e diversamente atroci, nascono forse il primo dal secondo, o, piuttosto, si riflettono l’uno nell’altro, accomunati anche dall’ambiguità con cui si dissimulano: il panico, latente, corrode l’equilibrio interiore prima di esplodere; dell’amianto (il contatto con il quale, come si è detto, troppo tardi mostra i suoi effetti), per lungo tempo non venne resa nota la pericolosità.
Il titolo di Valenti, che attribuisce alla fabbrica la produzione di qualcosa d’impalpabile, sottrae inoltre il panico alla sfera puramente psichica, e lo riveste della stessa concretezza (e potenzialità distruttiva) propria dell’amianto. Così come un’infinitesima particella d’amianto, filtrata nell’organismo, lentamente e progressivamente ne matura la dissoluzione, così il panico s’insinua nella mente a invaderla di buio; poi, non soddisfatto, dilaga anche nel corpo. Comunque – di panico o d’amianto (o di entrambi, fusi insieme) – si muore.
E allora, visto che le storie raccontate – storie di morti per il lavoro – non sono soltanto tragiche nell’accezione vulgata dell’aggettivo ma sono piuttosto, pienamente e letterariamente, tragedie, la mia analisi interpreterà i due testi, in ottica comparatistica, alla luce della loro essenza calata in altra forma: li si leggerà in quanto opere tragiche, da studiare sull’archetipo del tragico, ossia sulla struttura dei drammi antichi.
2. Forme e struttura di un’identica tragedia
2.1 La colpa ancestrale del retaggio
L’ereditarietà della colpa, che implacabile si trasmette lungo le linee dell’albero genealogico, di padre in figlio, è uno dei principi fondamentali della tragedia (dalla grecità12 in poi): le macchie di un tempo lontano, l’errore e l’orrore di azioni compiute da altri, allungano le proprie ombre sui rappresentanti delle giovani generazioni, e nessuna innocenza individuale cancella il vincolo a espiare, elimina l’esigenza di un risarcimento, di un riscatto. Non si è liberi; al contrario, incatenati da un destino scritto secondo un volere non proprio, si combatte e ci si ribella invano contro l’assenza di una scelta.
In entrambi i libri sui quali ci si sta ora soffermando, a esporre la storia di due uomini – due padri, due operai – è la voce di un figlio.
Queste pagine (romanzo o testimonianza autobiografica), dedicate a rappresentare la tragedia esclusivamente umana della fabbrica – uomini sono sia le vittime sia gli artefici di questa tragedia; nessun fato olimpio ne determina lo svolgersi e l’avverarsi – corrispondono pertanto all’archetipo del dramma antico nel rispetto del tabù che vietava di portare in scena il fatto di sangue, e imponeva che lo si riferisse attraverso la parola. Non parlano direttamente i protagonisti del dramma: una sorta di schermo, fatto di parole, ne avvolge e isola il sudore e il sangue.
Inoltre, il fatto che a rivestire il ruolo di narratore per la vita di un operaio stritolato dalla fatica13 sia il figlio, sostituisce alla classica trasmissione di una colpa, lungo il filo delle età, la trasmissione di uno status, sociale e soprattutto psicologico, da cui non ci si emenda. I figli, a differenza dei padri, svolgono un’attività culturale (a riguardo, si riscontra un’ulteriore corrispondenza fra i libri: chi racconta in prima persona svolge la professione di traduttore); tuttavia, l’affinamento sul piano culturale non trova corrispondenza in una condizione complessivamente migliore.14
Nel romanzo di Valenti, il narratore, «in assenza di un impiego, a margine di una condizione di costante mancanza di lavoro, costretto un giorno come telefonista e il giorno successivo come operaio»,15 sceglie la traduzione come l’occupazione – ossia la dimensione in cui realizzare se stesso – da contrapporre agli impieghi saltuari e mal retribuiti grazie ai quali, pur faticosamente, si mantiene:
Ho scelto di tradurre come si sceglie un rompicapo in un annoiato dopopranzo estivo. La mia occupazione è una questione privata. Raccolgo dati, interpretazioni, ricerco soluzioni, decido uno stile, lo adatto. Metto un’attenzione particolare nel tradurre. Rielaboro una stessa frase più e più volte nel tentativo di renderla al meglio. Consiste in questo la mia occupazione, alla quale dedico una premura uguale, maggiore, a quella che metto nel cercarmi un lavoro.16
Diverso il caso di Prunetti voce narrante: le pagine finali di Amianto constatano, in un’amara confessione indirizzata al padre ormai scomparso, la vanità di ogni tentativo di affrancamento e ascesa grazie alla cultura. A Renato, fiero di aver dato al figlio un’istruzione che lo avrebbe tenuto lontano dalla fabbrica e dalla saldatrice, chi scrive consegna la propria esperienza di un’altra forma di asservimento lavorativo, diversamente nocivo, rispetto a quello operaio, per lo spirito e il corpo:
Ho studiato. Poi, dopo una serie di lavoracci, ho iniziato a lavorare nell’editoria. Faccio il redattore esterno e il traduttore. Precariamente. A volte non faccio nulla. Altre volte batto diecimila battute al giorno come minimo. Se i tempi sono stretti, anche di più. […] Roba da impazzire. Meglio il cantiere, mi sono detto. Faccio un lavoro culturale e ho trentanove anni. […] Io, “lavoratore cognitivo precario”, arranco per pagare l’affitto. Altro che flessibilità: a forza di stare seduto a tradurre saggistica dall’inglese e dallo spagnolo per otto-dieci ore in una postura innaturale mi sono ritrovato una protrusione discale con assottigliamento dei dischi vertebrali nella zona lombare. Le ginocchia scricchiolano per la troppa immobilità. E ho una tendinite quasi cronica che dalle mani mi risale fino ai gomiti, facendomi urlare di dolore anche mentre scrivo queste righe.17
La constatazione di quanto sia stato illusorio il credere in un autentico mutamento di condizione non può che corrispondere a una mancata liberazione dalla fabbrica: i figli che scrivono dei padri la sentono, minacciosa, dentro le loro vene, nei loro pensieri. La fatica del lavoro operaio viene espressa, in una seconda generazione, da chi operaio non è; tuttavia, il figlio narratore non può che essere, almeno in parte, doppio del padre cui dà voce: tramite la scrittura, il figlio dissigilla il silenzio paterno, ma ciò equivale a riaprire di continuo la ferita il cui solco già avverte in sé, la ferita che non cicatrizzerà mai, insanabile. Il dramma del padre è il dramma del figlio. È la tragedia dell’ereditarietà, un retaggio, inscalfibile, di cui non si è responsabili. E la sofferenza descritta nel padre dal figlio si può riconoscere nel figlio stesso, che, altrimenti, non potrebbe scrivere ciò che scrive:18
La fabbrica è una condanna senza reato. Esiste un prima e un poi per chi è stato condannato alla fabbrica, un prima della fabbrica e un poi nella fabbrica. E da quel poi, una vita normale diventa invivibile.
La convinzione di essere stato messo in disparte, di non essere considerato, di vivere in un angolo buio, rendeva la sua [del padre] vita un perenne esilio. Un esilio volontario […] una sensazione penosa […]. La sensazione di vergogna per essere stato messo da parte, la sensazione di non vivere nel cuore del mondo ma nei suoi calcagni, nel suo fondoschiena.19
Il narratore si mostra ghermito dal medesimo terrore verso la vita provato dal padre: se quest’ultimo lo pativa in una duplice forma – la paura prima, viscerale e incoercibile, di non saper resistere alla fabbrica, all’usura fisica e mentale, agli ordini del caporeparto, e la paura, tutt’altro che secondaria, di trovarsi a causa della fabbrica in uno stato di minorità tale da risultare inadeguato ad ogni altro aspetto dell’esistenza – il figlio eredita il secondo tipo di paura, acuito dalla consapevolezza culturale, dalla percezione dell’ingiustizia: la paura, così, si somatizzata e cronicizza in ansia nevrotica, in male della mente e del corpo.
La similarità tra padre e figlio nella trasmissione di un retaggio (retaggio della cui pena all’inizio non si appare pienamente consci, vista la vivace umanità dell’ambiente familiare in cui si vive) caratterizza anche il libro di Prunetti. Tuttavia, in quella che si dichiara preliminarmente, come accennato, per ciò che è, ossia una testimonianza essenzialmente autobiografica, il senso della tragedia risulta meno oppressivo e cupo, non si palesa da subito, bensì affiora lentamente.
Renato, che non è un operaio generico da catena di montaggio, bensì un saldatore specializzato, un turnista dalle molte trasferte, si dice fiero del suo lavoro; allo stesso modo, anche Alberto ragazzo è orgoglioso della sua origine, che lo privilegia nel paragone con i coetanei borghesi, indeboliti dalle convenienze, cui siede accanto a scuola. Traspare inoltre, dai primi passaggi narrativi, una sorta di piacere per il contatto fisico con la materia, per il lavoro manuale (è la madre a insistere perché Alberto frequenti il liceo, invece dell’istituto professionale20 che il ragazzo avrebbe preferito); la stessa costruzione del racconto, paragonata dall’autore al sapiente incastro di ingranaggi o, meglio, alla saldatura di tubi e componenti da predisporre nel modo idoneo, rivela una sorta di propensione alla manualità trasposta dalla materia al linguaggio.
Nel libro, dal quale emerge un senso di coesione e un senso d’appartenenza di classe non ancora spento (sebbene anch’esso risulti per lo più, ormai, frammentato se non addirittura frantumato), l’abilità manuale e pratica di Renato si metamorfosa e invera, grazie alla scrittura di Alberto, in una sapienza compositiva esercitata dagli anni trascorsi a tradurre e a correggere bozze, nella tenacia con cui si scava fra i documenti, ricomponendoli, dallo stato confuso di materia grezza, secondo una logica indiscutibile, da contrapporre alla documentazione ufficiale. Anche tutto ciò costituisce un retaggio: importante, prezioso, nell’indicare a chi scrive, pur dolorosamente e con il cuore gonfio di pena, chi egli veramente sia.
Se ne avesse avuto consapevolezza, il padre di Alberto avrebbe plausibilmente accettato di scorgere nel figlio tale forma della sua eredità. Invece, del mondo in cui egli si muove – mondo di acciaio e di amianto – il trasfertista Renato ha oscuramente timore per il figlio: non lo vuole, per lui, quantomeno nei suoi aspetti più immediatamente pericolosi (lo esorta, ad esempio, a tenersi lontano dalla saldatrice). Questo timore scaturisce non da una chiara consapevolezza, bensì da una sorta d’istinto di autodifesa, dall’intuizione confusa che in quel mondo si annidi un pericolo che va evitato. Insieme allo schiarirsi dell’intuizione, cresce anche la tragedia incombente: l’illimpidirsi della visione interiore, rivolta a sé e all’ambiente, non rasserena, bensì immalinconisce, e Renato Prunetti, maturo e scaltrito, contempla desolato le ciminiere delle cui dimensioni possenti, anni addietro, si compiaceva:
Lo sguardo di Renato è triste. Non si esalta più per le fabbriche. Proprio fissando il cielo greve sopra Piombino, gli viene in mente che non esiste acciaio senza amianto, anche se questo non te lo racconta nessuno. E adesso non facciamo più la gara, come quando ero piccolo, a chi ha le ciminiere più alte. Ormai sappiamo che i posti in cui siamo cresciuti […] hanno anomali tassi di morbilità per alti livelli di arsenico, piombo, cadmio, mercurio, cromo e per sostanze chimiche come gli idrocarburi policiclici aromatici; sappiamo che chi abita nei pressi della cokeria, dove si liberano polveri sottili, è esposto a un aumento della mortalità per tumore al polmone. Rimaniamo zitti, contemplando gli stabilimenti.21
Il silenzio avvolge il chiarore (ma è un grigio chiarore) della coscienza.
Dal silenzio del padre si passa alle parole e alla narrazione del figlio, che scopre compiutamente chi egli sia. Si svela, dunque, il segreto del destino, tragicamente contraddittorio, precluso a ogni scelta:
Sono venuto al mondo a Piombino, la città industriale del ferro, e sono stato concepito a Casale Monferrato, la capitale del lutto e dell’amianto. Sì, tutto è cominciato lì, una cellula nucleo fecondata, una scaglia d’amianto che nidifica nei polmoni. Vita e morte, impastate in un unico amalgama fibroso. Sono nato sotto il segno dell’amianto, sono venuto alla vita nel luogo in cui si va alla morte […]. Sono acciaio ascendente amianto.22
Non si tratta di una reificazione. Ma di un destino: e il filo delle Parche, temprato in amianto e acciaio, si annoda e si snoda… addolcito (o esacerbato?) dal legame affettivo che unisce i protagonisti, lungo gli anelli della catena, della medesima storia.
Appare infatti irrinunciabile, nella costituzione di queste nuove forme di tragedia narrativa, la riflessione sulla componente affettiva: basilare nella concezione del lavoro post-fordista, che la fa confluire entro il lavoro stesso, anche la dimensione degli affetti23 non fa che ribadire il dramma, avvolgendone gli interpreti in un velo – infine straziante – di profondissima condivisione e vicinanza emotiva.
2.2 Il sistema – tragico – dei personaggi
In ogni tragedia, al protagonista si oppone un antagonista; qui, a contrastare gli operai interpretati e riportati sulla scena dai figli-autori-attori del dramma, è ovviamente la fabbrica, esternazione e realizzazione di un sistema gerarchico costruito da uomini, in nome del profitto, per prevaricare su altri uomini.
La sproporzione fra gli avversari di questo dramma (collettivo e individuale) risalta da subito, né vale, a bilanciare l’asimmetria, il confronto numerico, dato che il sistema-fabbrica agisce con magistrale efficacia nella parcellizzazione della forza unitaria degli operai in singole (e dunque sostanzialmente inutili) azioni:
Gli operai sono una moltitudine mortificata, umiliata, disprezzata, derisa, guardata dall’alto in basso, detestata e tenuta in nessun conto. Quando sono in catena non hanno nemmeno la possibilità di conoscersi. Non è consentito parlare, rivolgere la parola a un compagno di lavoro, e chi disobbedisce è multato con una trattenuta in busta paga».24
In questa città incapace di riconoscere altro da sé, incapace di accettare figure diverse da quelle dell’industriale e del banchiere, dell’operaio, in questa città in cui la figura dell’intellettuale è uniformata e quella dell’industriale è esaltata, e la figura dell’operaio è mortificata, in questa città, la mia famiglia, e uomini della mia condizione sociale, della mia classe, sono umiliati.25
Allo stesso tempo spaventosamente concreta e astratta, come fosse una sorta di entità, malignamente superiore, che appieno non si comprende, ma di cui si riesce a scorgere solo il minuscolo lembo di cui si è un ingranaggio – necessario e sostituibile alla stregua di tutti gli altri ingranaggi – la fabbrica viene indicata nel romanzo di Valenti alternativamente con le definizioni di “carcere”, “mattatoio”, “guerra”, “inferno”.26 Vissuta da chi dentro le sue mura trascorre ore e ore, viene percepita come una creatura mostruosa dalle viscere incandescenti, che si nutre di coloro che ne alimentano il calore: avida e vorace, la fabbrica sembra più viva degli operai che la popolano.27
Di per sé, la fabbrica sembra immortale. È un’antagonista immortale: infatti, coloro delle cui energie si sostenta, esistono sempre: innumerevoli, intercambiabili, con le loro morti e scomparse, a preservare intatta l’esistenza della fabbrica; chi ha bisogno, c’è sempre, pur nel mutare dei nomi e dei volti.
La fabbrica antagonista dell’operaio pretende inoltre una serie di sacrifici rituali. Non vuole un capro espiatorio, secondo il modello classico, perché – paradosso nel paradosso – in questa tragedia umana non si può scegliere un soggetto unico il quale, espulso dalla comunità venendo gravato dal peso di un’ingiustizia di cui forse neppure è responsabile, tuttavia reintroduca l’ordine nella comunità stessa, per chi resta; piuttosto, fatalmente, l’antagonista determina una serie di autolesionistiche e vane ribellioni:
Ho saputo di operai che per liberarsi della fabbrica si procuravano mutilazioni volontarie. Ritenevano di esercitare il controllo. Una contusione, un’abrasione. Capitava loro di tornare a casa senza un dito, senza una falange.28
La malattia fisica non è, allora, una ferita inferta dalla fabbrica: è la fabbrica, dentro di sé, che non lascia scampo, dalla quale si tenta di fuggire, di avere un attimo di requie, l’illusione di una pausa, in virtù di un sacrificio autoimposto. Le si offre (dono peraltro non gradito) un segmento della propria integrità fisica, in cambio di un giorno di riposo.
Ma la forza della fabbrica, antagonista di ogni volontà, consiste non solo nell’oppressione esercitata sul piano fisico: la fabbrica, infatti, vince lentamente, perché costringe a rinunciare a se stessi, a concentrare ogni tensione nello sforzo di sopravvivere, di ripresentarsi ai cancelli la mattina dopo per garantire ai propri cari un pezzo di pane; da nemico sleale, non accetta un limpido agone, che implicherebbe, come nell’epica antica o, appunto, nella tragedia antica, il riconoscimento della pari dignità dell’avversario, non permette la lotta, bensì la soffoca e reprime. La sua crudeltà d’antagonista si manifesta principalmente in quest’aspetto: nel non concedere a chi soccombe, o a chi tenta di reagire, sebbene tardivamente, l’onore, la dignità della sconfitta.
La contrapposizione antagonistica, in Amianto di Prunetti, assume dapprima tonalità meno fosche. Inizialmente, infatti, Renato apprezza le sue mansioni da tubista e saldatore specializzato, che lo fanno viaggiare per l’Italia. La sagoma del nemico, che la fabbrica concentra e riassume in sé, si sfalda in una successione di luoghi e situazioni differenti; ad accomunarle – e di questo Renato si rende conto gradualmente – è la generale assenza di attenzione per la sicurezza dei lavoratori, per la loro tutela. Dapprima inconsapevole, trascinato anche dal vigore della giovinezza e dall’ottimismo degli anni immediatamente successivi al boom economico, Renato diverrà via via sempre più critico e cosciente della nocività delle sostanze che è abituato a maneggiare. Sebbene diverso dall’operaio non specializzato,
quello che sta otto ore al giorno attaccato alla produzione in linea […] alla fine, passerà la vita lavorando negli stabilimenti e nelle raffinerie di quasi tutta Italia, rimbalzando dal petrolchimico al siderurgico con la qualifica di saldatore-tubista. Farà il giro dello stivale, sfiorerà mille città, senza mai conoscerle. Lui, quelli come lui, si infilano nei treni notturni la domenica notte per arrivare all’alba di lunedì in cantiere, si fermano nelle periferie e dormono negli alberghetti per operai che sorgono appena fuori dai recinti delle fabbriche. A Novara, Torino, Genova, La Spezia, Mestre, Terni, Taranto. Ovunque, sempre in periferia, senza mai vedere le cattedrali e le strade acciottolate dei centri storici. Respirerà benzene, il piombo gli entrerà nelle ossa, il titanio gli intaserà i pori e una fibra d’amianto si infilerà nei suoi polmoni.29
In apparenza più propositivo e deciso di quanto si mostrino gli operai annichiliti dalla catena di montaggio, anche l’operaio specializzato Prunetti finisce sopraffatto dall’enormità dell’avversario, ipocritamente filantropico, falsamente egualitario. La realtà lavorativa in cui si trova lo costringe inoltre – e le righe appena citate lo illustrano con dolorosa asciuttezza – a perdere qualcosa che forse non saprà mai di aver perduto: la storica bellezza del suo paese.
Nella scrittura del dramma operaio, non può mancare il coro. Sorta di ‘personaggio-multiplo’ della tragedia antica, nel romanzo di Valenti assume le fisionomie e le voci dei tanti che si recano in tribunale, durante la causa per danni intentata contro la direzione della fabbrica, a testimoniare riguardo alla malattia propria o dei congiunti. Si tratta, anche qui, per lo più di figli, che riportano le storie di padri perduti. Raccontano tutti, con diverse parole, una medesima storia. Cantano il medesimo canto triste.30 I loro nomi sono Renata, Barbara, Lorenzo, Roberto, Guido, Angela, Silvana, Caterina, Adelaide… figli e mogli di vittime, vittime loro stessi. E poi Alfonso, Bruno, Laura, Onofrio, Alina: ancora al lavoro, ancora vivi, non si sa per quanto.31
Attento alla dimensione collettiva (che costituisce un fondamentale elemento identitario), anche Prunetti dà spazio, in Amianto, a una prospettiva corale: nelle sue pagine, il coro si palesa nel racconto delle morti molteplici, rimasto impresso nella memoria di un bambino e già inteso, nell’esempio di un coetaneo, come destino:
Io sono piccolo e credono che non possa capire. Ma li sento parlare. Parlano di quelli che vengono risucchiati dagli ingranaggi e dai rulli di un laminatoio, maciullati dai cilindri che schiacciano i nastri d’acciaio. Di quelli ustionati da una colata incandescente sfuggita ai binari di un impianto fusorio. Di quelli incastrati in un nastro trasportatore con la qualifica di “corpo estraneo”, segnalato da un motore che “forza”. Di quelli con il cranio schiacciato da una pressa o investiti dalle tubature esplose. Di quelli ustionati nella sala pompe di una raffineria mentre collaudano le tubazioni.
Sono racconti che non mi sorprendono. Già in seconda elementare ricordo di aver visto scomparire un mio compagno di classe, Bruno, da un giorno all’altro […]. Bruno non tornò a scuola perché il babbo, operaio alle acciaierie, era rimasto ucciso in fabbrica, assassinato dalla mega macchina che vomitava acciaio fuso. […] Aveva sette anni e per me quel giorno non era morto suo padre. In fabbrica era morto lui.32
2.3 Il tempo
Fra le tre unità aristoteliche – imperative, nella tradizione del teatro italiano, sino a Manzoni – rientra com’è noto l’unità di tempo,33 che prevede lo svolgimento dell’azione nell’arco di ventiquattr’ore: di un solo giorno, dunque.
Nulla potrebbe sembrare più lontano dalla prospettiva cronologica assunta nei libri di Valenti e di Prunetti, dedicati entrambi a ripercorrere un’esistenza intera.
Tuttavia, la dimensione temporale determinata dal lavoro in fabbrica, soprattutto alla catena di montaggio, corrisponde alle ventiquattr’ore definite da Aristotele, poiché è il tempo – circolare, infinito nella sua identità a sé – di un singolo giorno che di continuo ritorna. Le ore trascorse lontano dal piano di lavoro non valgono a esorcizzare le ore della fabbrica e non diventano tempo-vita, ma servono soltanto a ricostituire le energie necessarie all’operaio perché, nell’alba o nel tramonto del giorno successivo, torni puntuale ai cancelli.
Le modalità stilistico-linguistiche adottate da Valenti, che di frequente itera, insieme ai concetti e alle situazioni, le espressioni, è mimetica del succedersi dei turni: implacabile, tale ritmo sancisce, per chi ne sia preso, un’esistenza identificata con un unico giorno di fatica e pena: «La flangia. La pressa. La piegatura. Un’altra flangia. Il rumore. Le mani doloranti. La vita se ne va così. In piedi di giorno. Coricato di notte. E sembra non debba finire mai».34
Questo tempo uguale e ciclico (e si ricordi che circolarità e ciclicità caratterizzano, sia nel mondo classico sia nella sensibilità dell’uomo medievale, l’insensatezza spietata dei supplizi inferi), che si riflette in una gestualità anch’essa ciclica,35 non subisce incrinature significative,36 sino a quando l’antagonista, la fabbrica che fa sopravvivere finché serve, la fabbrica che vince proprio quando la si è lasciata, congeda l’operaio con il pensionamento; allora, al manifestarsi del male non rivelatosi, durante il periodo di attività, il tempo dell’operaio da ciclico diventa rettilineo: diventa una vertigine, un precipizio, una freccia scoccata. Verso il nulla.
In Amianto la percezione temporale è leggermente diversa, diversamente tragica. Infatti, nel libro di Prunetti si sfilaccia e consuma una vita che non pare dannata alla monocorde replica di gesti che attanaglia i turnisti alla catena di montaggio. Il tempo rettilineo, ossia la caduta nella malattia e nella morte, del tubista-saldatore Renato è screziato dalla sua movimentata fisicità, in principio giocosamente energica, dai suoi spostamenti e viaggi, in una molteplicità di luoghi e mansioni che simula, mentre lusinga creatività e fierezza professionale, di voler eludere, differire la tragedia.
Ma la tragedia arriva comunque:
Eccola la fine di un lavoratore, che muore a cinquantanove anni come una macchina inutile mentre la morfina pompa incoscienza in quello che Nada cantava come un cuore stanco. […] Un uomo che ha iniziato a guadagnarsi il pane a quattordici anni, che è entrato in fabbrica senza uscirne mai davvero, perché il cantiere industriale aveva nidificato nelle sue cellule il proprio carico di negatività.37
E la sua storia, una storia operaia, è la storia di tanti.
La peculiarità di questa tragedia è, in effetti, il gran numero dei suoi protagonisti: non un singolo condottiero, un singolo re, un amante appassionato e violento, secondo le regole del genere, bensì, un uomo come tanti, che si guadagna di che vivere con il sudore e con le mani. Un uomo, tanti uomini… un Uomo?
2.4 La catarsi
Per una sorta di atroce parodia del suo significato autentico, ossia purificazione – la purificazione che lo spettatore prova, nell’assistere al dramma, riversando in esso la piena della propria emotività e tornando a se stesso e in se stesso, una volta conclusa la rappresentazione, con un cuore più limpido – la parola catarsi risuona, fra le pagine di La fabbrica del panico, sulle labbra di coloro che contribuiscono alla sofferenza degli operai. In un sistema «concentrazionario» che «non tollera l’affermarsi di una volontà diversa nemmeno quando manifesta la propria presenza in forma di depressione»,38 ogni diminuzione di rendimento, ogni calo di produttività, è fonte di punizione; eventuali proteste o espressioni di dissenso costituiscono il peccato capitale, da cui, in una meccanica e perversa liturgia, bisogna emendarsi:
Il cortile della grande fabbrica. Un’adunata. Gli operai in circolo, un caporeparto al centro con il megafono in mano e sul fondo, davanti agli uffici, il direttore e altri dirigenti. L’incontro serve a dimostrare gli errori commessi dagli operai durante il turno, a renderli pubblici, a denunciarli. La presenza dei lavoratori è un obbligo, e un’assenza non giustificata è punita con una multa. Il caporeparto elenca nomi e cognomi di operai convocandoli e indica loro gli errori commessi durante la lavorazione. L’autodenuncia degli operai è considerata dalla dirigenza una forma di ravvedimento. Il rito cerimoniale a cui è costretto l’operaio è una catarsi religiosa. Indica che ha compreso l’errore e che eviterà di ripeterlo.39
Valida per la dirigenza, che accetta nei singoli operai solo «logiche di autostima interne all’organizzazione verticale»40 del sistema-fabbrica, tale presunta catarsi, corrispondente in verità a un’ulteriore mortificazione, non possiede alcuna verità per chi la subisca: in effetti, è anch’essa componente della pena.
Se si vuole tentare di vivere, e forzare il cerchio della mera sopravvivenza, è necessario allora cercare una personale e autentica catarsi: il padre del narratore di La fabbrica del panico la cerca nella pittura, in un mondo di colori, opposti al buio o alle fiamme voraci della fabbrica, nel cui dosaggio e composizione far rifulgere la propria creatività, in cui proclamare che si ha un’identità diversa da quella dei compagni di reparto: unica, insostituibile, umana. Il fatto che la morte precoce, provocata dal lavoro in fabbrica, gli strappi precocemente il sollievo della dedizione piena a ciò che costituiva non un labor, ossia una fatica imposta, bensì un’occupazione – amata, ricercata, perseguita con ogni cura – è l’ennesimo, finale sfregio inflitto dall’antagonista mai stanco.
Anche la catarsi, così come il retaggio, si trasmette di padre in figlio. Così, il libro che viene definito, meta-narrativamente, un libro bianco (bianche sono del resto le morti sul lavoro), nell’ultima parte ritrova il colore. Deciso a spargere le ceneri del padre scomparso nella campagna da cui proveniva e che aveva abbandonato per la città e la fabbrica, il narratore ritrova antichi ricordi, sepolti nelle pieghe di una memoria inconsapevole, profumi di rugiade e sottobosco, riscopre le sfumature di alberi e prati e radure e, alla stregua di Renzo, infradiciato nei Promessi sposi manzoniani, dopo il dilagare della peste, da un acquazzone rigenerante, esce in «una pioggerella redenta»41 e, d’improvviso, scorge un mondo altro.
La natura non consola. La bellezza non consola. In parte, però, riconcilia. Questa, è la catarsi.
In Amianto di Prunetti, tuttavia, non la si trova.
Forse perché sin da subito, a differenza del libro di Valenti, che si propone come un romanzo, Amianto rifugge dalla letterarietà e si concreta intorno ai nudi fatti. Nudi fatti, peraltro, che richiedono grande ‘mestiere’, variegata sapienza, nel labirintico destreggiarsi che impongono, affinché infine emergano, fra documenti svariati, grovigli burocratici, criptici linguaggi settoriali.
E per lo scrittore, che ricompone sul filo della ricostruzione memoriale anche la sua molteplice fatica di interprete della storia paterna, anche nel confronto con l’ufficialità e con le norme, risulta infine catartica la scrittura. La scrittura; nient’altro.42
La penna scivola sulla carta e, senza mai “perdere la tenerezza” verso l’umano, mostra quanto atrocemente gli uomini siano riusciti e riescano a modificare, adattandolo alle tecnologie, un atavico istinto di sopraffazione; mostra però anche come l’appartenenza non equivalga a umiliazione, ma a condivisione, cui ogni pagina come quelle scritte da Prunetti contribuisce… Peggiore dell’ingiustizia, è solo la mancata percezione dell’ingiustizia. La si deve far percepire, anche attraverso l’inchiostro che tanto costa segnare sulla carta; in tal modo, infatti, risorge la pietas, e il labor – dello scrittore, di suo padre, dei suoi padri – diventa occupazione, diventa gratuità, diventa cura.
Bibliografia
Edizioni di riferimento:
Prunetti Alberto, Amianto, Milano, Agenzia X, 2012.
Valenti Stefano, La fabbrica del panico, Milano, Feltrinelli, 2013.
Studi
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Panella Claudio, Seborga / Prunetti: storie operaie a confronto nell’Italia del secondo dopoguerra, in «Incontri», anno 30, 2015, fasc. 2, pp. 118-122.
Pegorari Daniele Maria, Il fazzoletto di Desdemona. La letteratura della recessione da Umberto Eco ai TQ, Bompiani, 2015 (e-book).
Pegorari Daniele Maria, Due racconti sulle morti per amianto: Alberto Prunetti e Stefano Valenti, sito di Incroci on-line, 15 ottobre 2013.
1 L’opera, esordio narrativo di Valenti (1964), traduttore presso la casa editrice Feltrinelli, vinse il Premio Campiello Opera Prima nel 2014. La si citerà dalla seguente edizione: Stefano Valenti, La fabbrica del panico [2013], Feltrinelli, Milano.
2 La prima edizione di Amianto è del 2012, Agenzia X, Milano (da qui si citerà). Il romanzo è poi uscito una seconda volta, con l’aggiunta di un capitolo inedito e di un dialogo fra l’autore, Wu Ming 1 – ossia Roberto Bui, rappresentante del gruppo di scrittori provenienti dalla sezione bolognese del Luther Blissett Project – e Girolamo De Michele, nel 2014, per le Edizione Alegre. Le pagine d’integrazione includono un confronto tra il padre di Alberto, Renato, e il suo eroe cinematografico, Steve Mc Queen, anch’egli ucciso a distanza, dopo i successi hollywoodiani, dalle sostanze nocive inalate durante la giovinezza, quando, per mantenersi, era stato operaio. Il parallelismo, che potrebbe confortare, si spegne tuttavia nella constatazione che nessuna fama modificò mai il destino del tubista saldatore toscano, a differenza di quanto accadde all’attore, nei cui occhi l’azzurro fuoco restò acceso.
Amianto costituisce la prima parte di una trilogia in fieri, concernente il lavoro operaio, cui Prunetti si sta dedicando. Dello scrittore, nato nel 1973, si ricordano inoltre i romanzi Potassa (2003) e Il fioraio di Peron (2009); del 2015 è PCSP (piccola controstoria popolare); ricca la sua attività di traduttore e curatore di narrativa, principalmente sudamericana. Su Amianto, si veda il contributo di Claudio Panella, Seborga / Prunetti: storie operaie a confronto nell’Italia del secondo dopoguerra, in «Incontri», anno 30, 2015, fasc. 2, pp. 118-122.
3 Anticipatorio di questa necessità di scrittura, rispetto ai due autori che saranno presi in considerazione, risulta Aldo Nove, che nel suo saggio (ma non solo saggio!) Mi chiamo Roberta, ho 40 anni, guadagno 250 euro al mese, uscito per Einaudi, Torino, nel 2006, raccoglie, rielaborandole, interviste apparse in precedenza fra le pagine dei quotidiani. Singole sfaccettature del vasto mondo del precariato diffusosi in Italia nel XXI secolo, le vicende proposte in forma di intervista sono precedute da una breve introduzione dell’autore. Si rammenta inoltre che il gruppo dei Wu Ming ricorse, per le opere ardue da far rientrare in una categoria univoca, alla definizione «UNO», ossia “oggetti narrativi non identificati”.
4 Loredana Di Martino, Pasquale Verdicchio, Contemporary iterations of realisme: italian perspectives, pp. VII-XXX. Il saggio costituisce l’introduzione del volume Encounters with the Real in Contemporary Italian Literature and Cinema [2017], Cambridge Scholars Publishing, Cambridge. Il contributo di Monica Jansen, The Uses of Affective Realisme in Asbestos Narratives: Prunetti’s Amianto and Valenti’s La fabbrica del panico, si trova alle pp. 3-27. Vede la partecipazione di Monica Jansen anche il volume Narrazioni della crisi. Proposte italiane per il nuovo millennio, a cura di Natalie Dupré, Monica Jansen, Srecko Jurisic, Inge Lanslots [2016], Cesati, Firenze. Il fil rouge che attraversa gli studi più recenti riservati alle problematiche del lavoro nel XXI secolo concerne la difficoltà che si incontra proprio nel rappresentarle: motivo primo, questo, di formulazioni ibride e di linguaggi nuovi.
5 Non si può non ricordare, a tal proposito, che dal 14 al 16 dicembre 2016 si è svolto a Venezia il Convegno della Compalit, dedicato a Maschere del tragico: una delle sessioni parallele, proposta da Carlo Baghetti, riguardava Il lavoro nella letteratura: forme e funzioni di una tragedia contemporanea; tra gli interventi, si indica il contributo di Claudio Panella, La tragedia del lavoro: working class heroes nella letteratura d’inizio millennio.
6 Cfr. Claudia Boscolo, Narrativa del precariato e transmedialità: il caso di Scrittori Precari, in «Bollettino 900», 2013.
7 «Fatti e personaggi citati nel romanzo sono autentici ma trasfigurati dal narratore. Il romanzo non ha dunque valore documentario e deve essere pertanto inteso come opera di fantasia basata su fatti realmente accaduti» (Nota dell’autore, in Stefano Valenti, op. cit., p. 117; segue l’elenco delle fonti cui Valenti ha fatto riferimento).
8 Alberto Prunetti, op. cit., p. 11 (dal capitolo iniziale, Ma che freddo fa).
9 Un breve e denso confronto tra le due opere è proposto nel sito di Incroci on-line in data 15 ottobre 2013, per la firma di Daniele Maria Pegorari: Due racconti sulle morti per amianto: Alberto Prunetti e Stefano Valenti. (Di Pegorari si veda anche l’eBook Il fazzoletto di Desdemona. La letteratura della recessione da Umberto Eco ai TQ, Bompiani, 2015).
10 Allo stesso modo in cui si conferma identica a sé, nella sua sostanza umana, al di fuori della letteratura, tutte le volte in cui si ripropone: non a caso, si ribadisce, il romanzo di Valenti non dà nome ai personaggi, quasi a suggerire l’assolutezza di una condizione.
11 Nel mondo antico, il cosiddetto “timor panico” si scatenava durante le le ore assolate del meriggio, quando si riteneva che si manifestassero le potenze delle natura, le Ninfe e, appunto, il dio boschereccio Pan; allo svelamento del divino si accompagnava inevitabilmente, per l’uomo che ne fosse destinatario, la violenza di un brivido. Non si può non constatare quanto poco (se non nulla) sia rimasto dell’antica, numinosa terribilità racchiusa nella parola panico: a provocarlo non è il contatto con creature superiori, bensì la consuetudine coatta con una realtà d’artificio e d’oppressione.
12 Esemplare, in tal senso, l’unica trilogia superstite della produzione di Eschilo, l’Orestea, culminante con l’uccisione della madre Clitemnestra a opera di Oreste, vendicatore obbligato, su istigazione della sorella Elettra, dell’assassinio a sua volta perpetrato dalla donna: l’uccisione del marito, e padre di Oreste, Agamennone.
13 Sembra opportuno sostituire alla parola “lavoro” il significato del termine latino da cui deriva: labor, ossia fatica (nonché sofferenza).
14 Il fenomeno, negli ultimi decenni, riguarda in genere la classe denominata ceto medio, che ora «sembra infatti essere stato colto di sorpresa dalla scomparsa di ogni sorta di sicurezza occupazionale, non ha più potuto dare per scontato che i propri figli avrebbero automaticamente raggiunto livelli di benessere maggiori, e ha dovuto confrontarsi con una mobilità discendente che, in realtà, appariva in atto da almeno un decennio» (Maurizio Ambrosini, Bianca Beccalli, Introduzione, in Lavoro e nuova cittadinanza. Cittadinanza e nuovi lavori, a cura di Maurizio Ambrosini, Bianca Beccalli, [2000], Franco Angeli, Milano, p. 10.
15 Op. cit., p. 19.
16 Ivi, p. 18.
17 Op. cit., p. 137. Sulla nocività anche fisica delle odierne pratiche di lavoro intellettuale, Prunetti si sofferma pure in Classe operaia, anima precaria, conversazione intrattenuta con Wu Ming 1 e con Girolamo De Michele e pubblicata on-line il 3 febbraio 2013: alla stregua del lavoro manuale, il lavoro ‘flessibile’ usura, consuma e sconfigge, portando il corpo a una progressiva «degenerazione scheletrica, psicologica e cellulare». La descrizione dell’usurante fatica ‘da scrivania’ descritta da Prunetti compare con tratti analoghi nella Vita agra di Luciano Bianciardi, allorché ci si sofferma sul lavoro del protagonista, un traduttore remunerato per ogni cartella di dattiloscritto, e afflitto da dolori e stanchezza diffusa già verso la decima cartella ([2011], Bompiani, Milano, p. 104-111).
18 A un amico del padre, il sindacalista Cesare, che gli chiede la ragione per cui vuole narrare del reparto e dei morti d’amianto, l’io narrante del libro di Valenti replica: «credo di essere la persona più adatta a scriverlo, dopo gli operai» (Prologo, in La fabbrica del panico, cit., pp. 13-16, p. 15). La necessità di scrivere è inoltre una reazione al mutismo assoluto in cui il padre, ormai conscio della morte imminente, si era chiuso, poiché il silenzio, «antica strategia dei poveri», appare la veste della dignità con la quale si accettano sia la prigione del dolore sia «la condizione del lavoro salariato, un tempo lavoro servile, un tempo lavoro schiavistico» (ivi, p. 37). La scelta di scrivere è per il figlio non tanto una denuncia, quanto la formulazione in parole di tale grido muto.
19 Stefano Valenti, op. cit., pp. 26-27.
20 «L’Ipsia di Follonica, ovvero l’Istituto professionale per l’industria e l’artigianato, era il mio sogno proibito, il mondo che mi era sfuggito perché mi avevano mandato al liceo. […] Era un gran posto, altro che il liceo […]. Al professionale la rivolta metallica era già in corso […]» (Alberto Prunetti, op. cit., pp. 90-91).
21 Ivi, pp. 91-92. Anche in seguito, peraltro, ormai malato, Renato torna a guardare gli stabilimenti, le cisterne, le gru, i macchinari del porto di Livorno Calambrone, allettato dal canto della fabbrica, «di quelle sirene cancerogene che gli avevano mangiato i polmoni» (ivi, pp. 107-108).
22 Ivi, pp. 115-116.
23 Sul ruolo della dimensione emotiva che, quando intesa come coinvolgimento di ogni aspetto di sé nel lavoro da svolgere, si converte in un ulteriore motivo di dipendenza e di asservimento, si rimanda al saggio di Cristina Morini e di Andrea Fumagalli, La vita messa a lavoro, verso una teoria del valore-vita, in «Sociologia del lavoro», 2009, pp. 94-116. Vi si illustrano le caratteristiche del ‘biocapitalismo’, ossia «la produzione di ricchezza tramite la conoscenza e l’esperienza umana, attraverso l’utilizzo di quelle attività, corporee e intellettuali, che sono implicite nell’esistere. Aggiungiamo poi che ogni processo di produzione riproduce non solo realtà materiali ma anche realtà sociali. I rapporti di produzione dunque, non solo individuano diversi modi di produzione, ma anche forme di società» (p. 99). Particolarmente interessante risulta il paragrafo 3.1, riservato alla Teoria del valore-affetto: si conclude che «va notata la differenza tra il passato – in cui vi era comunque necessità di osservazione, percezione e intuito, ma comunque rimaneva implicito il distacco/distanza (anche fisica) più o meno grande con l’oggetto del proprio lavoro – e il presente che, diversamente, rende performante proprio e soprattutto la partecipazione al lavoro. In particolare, i sentimenti, le fantasie e le immaginazioni non vengono rimossi o superati ma sono completamente sollecitati, invece, dal/nel lavoro di produzione di affetti. Ne costituiscono il fondamento» (ivi, p. 105).
Cfr. inoltre, su queste tematiche, Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione, a cura di Adalgiso Amendola, Laura Bazzicaluppo, Federico Chicchi, Antonio Tucci, [2008], Quodlibet, Macerata; Andrea Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione? [2007], Carocci, Roma; Lavoro e produzione del lavoro nell’economia della conoscenza. Criticità e ambivalenze della network culture, a cura di Federico Chicchi e Gigi Roggero, [2009], Franco Angeli, Milano.
24 Stefano Valenti, op. cit., p. 63.
25 Ivi, p. 66.
26 Alla constatazione, da parte di Cesare, dell’esistenza di una vastissima documentazione scritta volta a illustrare la condizione dell’operaio turnista, fa seguito un’altra constatazione, ossia che «l’inferno comincia ogni volta che la parola vuole restituirla» (ivi, p. 62).
27 «Gli operai del turno di notte, pallidi e impalpabili organismi, periscono nel ciclo della catena alimentare, trasformandosi, come è noto, dice Cesare, in nutrimento per organismi superiori» (ibidem).
28 Ivi, p. 64.
29 Alberto Prunetti, op. cit., p. 21.
30 I confini della fabbrica, del resto, trasudano tristezza e in essa imprigionano. E se il sindacalista Cesare chiede al narratore se «ha mai conosciuto un uomo più triste di un operaio», (Stefano Valenti, op. cit., p. 60), la giovane rumena Alina, quando rientra a casa, immersa in uno stato d’animo che non si può definire se non – semplicemente, assolutamente – “triste”, prega davanti a un piccolo altare la Madonna perché eviti al suo bambino un analogo destino di fatica, tristezza, isolamento (ivi, p. 98).
31 Ivi, capitolo Il processo, pp. 89-108, pp. 89-101.
32 Op. cit., pp. 30-31.
33 Le altre due, l’unità di luogo e l’unità d’azione, vincolano il drammaturgo rispettivamente a una medesima ambientazione e alla coesione tematica.
34 Stefano Valenti, op. cit., p. 53.
35 «Un movimento, un altro movimento, un movimento ulteriore. Movimenti uguali senza sosta» (ivi, p. 61).
36 L’unica variazione (peggiorativa) che l’operaio percepisce nel vorticare di questa circolarità è il ritmo via via più veloce imposto dai cronometristi, intenti a monitorare la maggiore o minore redditività del lavoratore, traducendola in numeri, e determinando così il suo destino di occupato o licenziato (ivi, pp. 49-50). La quantificazione puramente numerica del tempo è una reificazione anche della persona che quel tempo vive.
37 Alberto Prunetti, op. cit., pp. 118-119.
38 Stefano Valenti, op. cit., p. 50.
39 Ivi, pp. 65-66.
40 Ivi, p. 62.
41 Ivi, p. 114.
42 L’autore sostenne infatti, in occasione del dialogo con Wu Ming e Girolamo de Michele, che il libro corrisponde sì a una cicatrice, ma altresì al sollievo da quella cicatrice «rimarginata col filo di sutura della scrittura».