Paolo Chirumbolo
(Louisiana State University, Bâton Rouge, USA)
«Morti bianche» od omicidi colposi?
La rappresentazione delle morti sul lavoro nella
narrativa italiana del nuovo millennio
Premessa: raccontare le «morti bianche»
Per comprendere quale rilevanza sociale abbia oggi il tragico e irrisolto problema delle cosiddette «morti bianche», le morti cioè causate da incidenti sul lavoro, basta consultare i vari organi di informazione nazionale o navigare per qualche minuto su internet. Storie di incidenti, tragedie, infortuni e menomazioni varie sono diventate così comuni che oramai sembra che la opinione pubblica non faccia neanche più molta attenzione a quanto succede in questo ambito. Come segnala il settimanale di approfondimento Panorama, solo nel 2016, da gennaio a luglio, si sono verificate 526 morti sul lavoro, per una media di 80 vittime al mese.1 Una delle più cruente tragedie avvenute di recente in Italia è quella della Eureco di Paderno Dugnano dove, il 5 novembre del 2010, si è verificata una esplosione che ha coinvolto ben sette operai. Tra questi, il povero Arun Zeqiri, albanese di 44 anni morto dopo giorni di terribili sofferenze. Giulio Cavalli presenta la notizia in questo modo:
Alla fine due settimane di agonia non sono servite: Arun Zeqiri è morto durante la notte tra venerdì e sabato mentre fuori Milano si beveva il week end. Arun è uno degli operai albanesi rimasti feriti dopo lo scoppio alla Eureco di Paderno Dugnano. Operosa Padania: dove gli stranieri rubano e scippano sempre di più sui comunicati stampa che nelle statistiche, dove i migranti si arrampicano per elemosinare sensibilità istituzionale in mezzo al pantano di una legge indegna e nemmeno funzionale [...] e dove gli albanesi “legali” rimangono legalmente cotti dentro il proprio posto di lavoro.2
Dopo aver polemizzato nei confronti di chi vede negli immigrati solo ed unicamente un problema di ordine pubblico, Cavalli indirizza le proprie critiche verso un intero sistema – politico, mediatico, culturale e sociale – incapace di gestire tragedie di questo genere. Continua Cavalli:
Le misure di sicurezza sul lavoro che funzionano più di tutte in Italia sono i moti di solidarietà post mortem: arrivano pochi secondi dopo il primo lancio dell’Ansa e durano per un paio di giorni. Ad Arun è andata peggio. Morire così tanti giorni dopo ti lascia galleggiare nell’oblio, dove anche i comunicati stampa si sono affaticati. Eppure non è così lontana quella notte tra il 5 e il 6 dicembre in cui sette operai vennero investiti (proprio come a Paderno) da olio bollente. Morirono tutti uno dopo l’altro.3
Non sfugga, in questo sfogo critico, l’ovvio riferimento alla tragedia della ThyssenKrupp di Torino dove nel dicembre del 2007 si è consumato un vero e proprio olocausto. In quel caso, per ragioni ben riassunte da Donata Meneghelli che parla di tragedia «atrocemente simbolica»4, l’eco «inter-mediale»5 è stato talmente forte e potente da generare, all’indomani dell’incendio, una notevole (e meritevole) serie di iniziative culturali finalizzate da un lato alla denuncia dell’accaduto, dall’altro al mantenimento della memoria delle vittime.6 Sfortunatamente la vita quotidiana è piena di anonimi Arun Zeqiri, di cui nulla si sa e nulla si racconta. In questa prospettiva di silenzio e oblìo, in questo spazio dimenticato (questo sì realmente bianco), la parola letteraria ritrova la propria importanza e la propria valenza etica, e il ruolo della letteratura e della narrativa (intesa nel suo senso più ampio e dunque non legata unicamente alla dimensione fittizia e creativa) diventa assolutamente cruciale. Vitale si direbbe.
Alcuni cenni teorici: narrativa e realismo negli anni duemila
Affrontare una lettura critica di alcune delle opere più rappresentative di quella che è oramai una produzione narrativa e saggistica dalle dimensioni rilevanti, senza dare delle coordinate teorico-letterarie che possano aiutare il lettore a meglio contestualizzare i testi che si occupano delle morti sul lavoro appare controproducente. Occorre allora fermarsi un attimo, riflettere, e riprendere un dibattito cominciato nel 2008 sulle pagine di Allegoria 57 in cui Raffaele Donnarumma, Gilda Policastro e Giovanna Taviani si interrogavano su di un possibile «ritorno alla realtà» della narrativa e del cinema italiano contemporanei.7 Sorvolando per il momento sul riferimento alla «fine del postmoderno», argomento questo che andrebbe discusso a parte e in altre sedi, va assolutamente sottolineato il grande merito dei curatori del volume, e cioè l’aver intercettato e problematizzato un innegabile ritorno ad una narrativa realista. A scanso di equivoci si precisa che il termine realismo assume in questa sede una valenza etica più che stilistica e va interpretato, per citare Donnarumma, come «impegno degli intellettuali sui temi della vita civile».8 Se proprio si vuole fare un discorso estetico, bisogna allora mettere in rilievo le peculiarità linguistiche e stilistiche del realismo del ventunesimo secolo che è, necessariamente, distante anni luce dalla tradizionale narrazione di tipo naturalistico-mimetico e assume piuttosto le forme che si vorrebbero definire, riprendendo la suggestiva formula impiegata da Gregorio Magini e Vanni Santoni (debitori, a loro volta, di Zygmunt Bauman e dei suoi studi sulla «modernità liquida»), di una sorta di «realismo liquido» che sappia cioè «adattarsi ai continui mutamenti del reale»9 e che sia capace di mutare continuamente pelle, anche all’interno del medesimo testo. In tal senso non deve sorprendere come alcuni dei testi analizzati in questa sede (penso soprattutto alle opere di Marco Rovelli, di cui più avanti) presentino tutta una serie di diversi approcci narrativi che si intersecano tra di loro, quali la denuncia civile, l’indagine giornalistica, la narrazione di finzione, la testimonianza diretta,10 approcci che rendono le opere dello scrittore di difficile collocazione critica. La questione peraltro riguarda non solo l’ibridazione stilistica ma anche il problema della voce narrante visto che, non di rado, il punto di vista narrativo cambia rapidamente per offrire al lettore prospettive realistiche caleidoscopiche.
Oltre ai riferimenti al dibattito sul ritorno ad una narrativa realista più o meno attenta a tematiche di ordine sociale e civile, le varie opere pubblicate sulle morti bianche vanno inserite in un altro contesto, anch’esso più ampio (e peraltro strettamente collegato al primo), che è quello della nuova narrativa del lavoro, e cioè di quell’enorme corpus letterario che si è andato sviluppando (e che continua a svilupparsi) in Italia a partire dai primi anni del nuovo secolo e che Gianluigi Simonetti definisce, a ragione, «una nuova letteratura “industriale”, realistica e impegnata».11 Questo nuovo filone letterario, che si vorrà definire – con ovvio richiamo agli anni sessanta12 – Letteratura e lavoro, ha oramai acquisito una propria rilevanza sia editoriale che critica, grazie a lavori di eccellente qualità (e tra di loro molto diversi) come, per citare solo alcuni titoli, Pausa caffè di Giorgio Falco, Cordiali saluti di Andrea Bajani, Risorse umane di Angelo Ferracuti, Il sorcio di Andrea Carraro e Nicola Rubino è entrato in fabbrica di Francesco Dezio. I testi di cui ci si vuole occupare nelle prossime pagine (Morti bianche di Samanta Di Persio; Lavorare uccide di Marco Rovelli; La fabbrica del panico di Stefano Valenti; l’antologia Lavoro da morire) rientrano a tutti gli effetti in entrambe le categorie individuate sopra. Sono opere, infatti, che si contraddistinguono per la grande forza civile e la forte tensione realistica che scaturiscono dalla loro lettura, e che si propongono non solo come oggetti narrativi ma anche come istanze etiche.
«Morti bianche» od omicidi colposi? Le opere
Il primo libro che si vuole discutere è Morti bianche di Samanta Di Persio testo che, per come è concepito, privilegia più l’aspetto testimoniale e di denuncia (livello denotativo-referenziale) che quello specificatamente letterario (connotativo-estetico). Emblematico è, in tal senso, il sottotitolo di Morti bianche: il testo, autocoscientemente, si identifica come «diario dal mondo del lavoro» in cui si raccolgono storie di ordinaria disperazione ed il cui principale obiettivo è, per dirla con Di Persio, «sensibilizzare l’opinione pubblica».[13] Basta allora con le bugie e le manipolazioni. Quando si muore sul lavoro non sempre è colpa del destino cinico e baro: a volte, spesso per la verità, ci sono responsabilità chiare e precise che la legge dovrebbe perseguire. Invece le pene, per chi non osserva le regole per la sicurezza, sono, scrive l’autrice, «irrisorie».14 Sostiene Di Persio:
Se qualcuno attentasse alla nostra vita tagliando i freni all’automobile, verrebbe punito. Punito severamente. Si tratterebbe di omicidio con dolo, con intenzione di manomettere un dispositivo di sicurezza. Se un imprenditore per aumentare la produttività, ha tolto i dispositivi di sicurezza ad un macchinario, mettendo a repentaglio la vita di chi vi opera, male che vada è omicidio colposo. Omettere misure di sicurezza volontariamente dovrebbe essere chiamato con il suo nome: omicidio volontario (enfasi mia).15
Bisogna dunque avere il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome, ristabilire un rapporto plausibile tra oggetti, fatti, azioni (i significati) e i modi in cui questa realtà è raccontata (i significanti). L’espressione «morti bianche» usata nel titolo viene dunque subito messa in discussione, ulteriormente contraddetta dai racconti che il lettore si appresta a leggere. Laddove ci sono delle colpe, suggerisce Di Persio, bisogna parlare di omicidio. Di omicidio colposo e volontario16.
Analizzando le origini e le connotazioni di un eufemismo, «morte bianca», tanto elusivo quanto ipocrita, si nota come l’aggettivo bianco alluda alla scomparsa del corpo e, di conseguenza, alla mancanza di una responsabilità oggettivamente provabile. Il delitto, insomma, è come se non si fosse mai compiuto. La voce «morte bianca» in particolare nasce durante la seconda guerra mondiale per indicare le morti per assideramento nella neve, e solo più tardi (negli anni ottanta) viene impiegata per contraddistinguere le morti sul lavoro. Siamo di fronte ad una versione edulcorata e ripulita della morte in cui viene attestata (e accettata) l’assenza del sangue e del corpo. Ferracuti, scrittore da sempre attento alle dinamiche ideologiche del linguaggio, ha parlato a questo proposito di una lingua (quella della borghesia italiana) che non è mai neutra e innocente ma sempre «intenzionale», il cui obiettivo finale è quello di depotenziare la gravità di certi fatti, come appunto può essere una tragedia avvenuta sul posto di lavoro. Come ha puntualizzato Antonio Pascale, l’Italia è un Paese che non ama affrontare i propri problemi bensì
che ama rimuovere. Ci occupiamo di un tema per vari accidenti quando un giornalista, un giornale o un Tg decidono di porre un problema. Per un po' di tempo non si parla d'altro, tutti i nostri politici dicono parole di cordoglio e fanno promesse. E tutto questo sembra farci bene, perché ci rassicura che la cosa sarà risolta da un momento all'altro e che qualcuno se ne sta occupando per il solo fatto di aver detto delle parole così belle. Poi invece il tema scompare del tutto e solo di tanto in tanto qualcuno ricorda, ma ormai è una voce in affanno, c'è un altro problema più grosso e più emotivo. Siamo un popolo che preferisce il sentimentalismo al sentimento, la dichiarazione morbosa di intenti all'analisi del problema.17
Alla luce di questi commenti e valutazioni, il senso generale della raccolta di Samanta Di Persio appare più chiaro. Il libro è infatti pensato e strutturato in modo da porsi al servizio della comunità, per educarla. Leggere le numerose storie raccolte dall’autrice è un’esperienza straziante che colpisce profondamente il lettore più da un punto di vista emozionale che da quello strettamente poetico. Volendo rifarsi alle teorie linguistiche di Roman Jakobson si può senza dubbio affemare che i racconti di Morti bianche facciano soprattutto ricorso a quella che Jakobson ha definito la «funzione emotiva», quella particolare funzione linguistica per cui chi parla (l’emittente) informa la narrazione del proprio stato d’animo. Nel caso di Morti bianche gli stati d’animo prevalenti sono la rabbia, la frustrazione, il senso di abbandono. Emblematico è il racconto L’operaio non è un coglione in cui la sorella di Anthony Forsythe, apprendista operaio delle Ferrovie dello Stato morto a 26 anni, narra i tragici eventi che hanno portato alla scomparsa dell’operaio. Si legge:
Mi hanno detto che Anthony è morto perché stava attraversando il binario. Certo che doveva attraversare il binario! Non ci sono sottopassaggi. Mi hanno detto che il luogo dove è stato colpito Anthnoy è dietro una curva. Passano pochi secondi da quando il treno può essere avvistato a quando qualcuno può essere colpito. Io andrò a vedere il luogo. Non adesso... Non ho il coraggio... Ma se è vero, come si può dargli del coglione? Del distratto? Dell’incosciente?18
La rabbia di chi si sente abbandonata e tradita traspare nettamente dalle parole appena citate, cosi come dai tanti altri racconti del libro di Di Persio in cui si parla di continui ricatti, di precarietà strutturali, di mancanza di sicurezza19, di inadempienze contrattuali, di mancate condanne, di vere e proprie stragi. Su tutte grava un’unica, angosciante, domanda: «perché può un uomo qualunque partire da casa per andare a lavorare e non farvi ritorno la sera?»20.
Seppur simile a Morti bianche dal punto di vista del contenuto, Lavorare uccide di Marco Rovelli presenta alcune interessanti caratteristiche stilistiche e strutturali che sarà interessante osservare con più attenzione. Come già nel caso della raccolta di Di Persio, anche in Lavorare uccide il lettore si imbarca in un viaggio nell’inferno delle morti sul lavoro e si trova a leggere una serie di storie in cui vengono raccontate le tragedie di persone, lavoratori e operai scomparsi mentre facevano il proprio mestiere. La differenza sta però nel punto di vista, nel soggetto/i narrante/i. Se nella raccolta di Di Persio le storie sono raccontate direttamente dai testimoni e dalle persone coinvolte in prima persona, e perciò si assiste ad una moltiplicazione delle prospettive e dei toni narrativi, in Lavorare uccide, questo viaggio attraverso l’Italia alla «scoperta delle vite nascoste dietro le cosiddette “morti bianche”» (così si legge in copertina), tutto è filtrato attraverso il punto di vista dell’autore che si incarica di trascrivere, montare e organizzare il narrato raccolto durante la ricerca. Di conseguenza il testo di Rovelli è caratterizzato da una maggiore uniformità linguistica e stilistica, e dalla costante ricerca di un proprio registro. Alla forte carica emotiva legata alla scelta dell’argomento trattato, si aggiunge così la sentita passione e partecipazione civile di Rovelli il cui obiettivo non è solo quello di denunciare ma anche quello di suscitare in chi legge un moto di indignazione e non-accettazione. In altri termini, al carattere denotativo e documentario proprio del reportage giornalistico si accompagna uno stile immaginifico ed evocativo che va al di là della semplice referenza. Ciò che Alessandro Bertante e Gianni Vattimo scrivono a proposito di Servi. Il paese sommerso dei clandestini al lavoro (2009), inchiesta in cui Rovelli si occupa dello sfruttamento degli immigrati, può a ben diritto essere usato per descrivere lo stile di Lavorare uccide. Per Bertante il grande merito di Rovelli è quello di «sbattere in faccia» a tutti noi l’Italia dei nostri giorni
con grande coraggio e franchezza, riportandoci le testimonianze di uomini e donne offesi, vilipesi e dimenticati. E lo fa con il suo stile, a metà strada fra il reportage giornalistico e l’opera di narrativa, alternando dati e drammatici frammenti di realtà a delle considerazioni personali di grande impatto letterario.21
Sulla medesima falsariga Vattimo elogia lo stile «altamente letterario» di Rovelli in grado di mostrare «con straordinaria intesità»22 le orribili realtà che quotidianamente affliggono il bel paese. Autore abituato a rappresentare la realtà con cruda franchezza Rovelli non esita a descrivere ciò che prende forma sotto i suoi occhi: egli non intende nascondere nulla e di certo non risparmia ai propri lettori l’esposizione cruenta del minimo dettaglio, anche quello più raccapricciante. Rovelli vuole dire tutto il dicibile, mostrare tutto il mostrabile. La storia del sudafricano Joubert Thompson, morto in uno dei tanti cantieri navali di Viareggio, è esemplificativa di questa strategia narrativa. Caduto dal ponteggio il povero operaio si ritrova per strada, in fin di vita:
Joubert si scuote, sta per morire ma c’è una vita che si rifiuta alla morte con tutte le sue forze. Daniele e il compagno non riescono a tenerlo, tanta è la scossa della vita che recalcitra all’estremo. Joubert è aperto nel viso, e sputa sangue, e il torace è come scoppiato: ma non si riesce a tenerlo disteso a terra, bisogna legarlo, perché quando sputa i fiotti di sangue vuole rialzarsi, mettersi seduto.23
La storia di Joubert è inoltre significativa per un altro aspetto fondamentale, senza la cui discussione non si riuscirebbe a comprendere il discorso critico portato avanti da Rovelli. A differenza di molti degli scrittori e intellettuali che si sono occupati di morti sul lavoro limitandosi spesso ad una generica condanna, Rovelli si sforza di capire le ragioni strutturali e sociali alla base di tale fenomeno e individua le principali responsabilità nel sistema capitalistico italiano. Secondo l’autore di Lavorare uccide è arrivato il momento di affrontare il cuore della questione, ossia «la frammentazione del processo produttivo, la catena infinita degli appalti, la ricattabilità e la precarietà dei lavoratori, la competizione selvaggia scaricata sul costo del lavoro e sulla sicurezza».24 È qui che si trova la radice del problema, in quel infinito gioco di subappalti che Furio Colombo ha con grande intuizione definito «un cannocchiale rovesciato»:25 alla fine chi paga è sempre l’anello più debole, il lavoratore, meglio se immigrato e (in) nero: altro che «morti bianche»! Il corpo di Joubert, ma si direbbe di tutti i corpi e di tutti gli omicidi di cui parla Rovelli, allora non sono altro che il sintomo di un sistema fondato sulla «frantumazione dell’impresa»26 (le cosiddette microimprese) che viola costantemente i diritti e l’incolumità dei dipendenti che in queste condizioni valgono «meno di un bullone».27 Non è un caso allora che Rovelli preferisca parlare, anche lui, di omicidi piuttosto che di «morti bianche».28 L’immagine usata dall’autore, a conferma del proprio talento narrativo, è folgorante e riassume bene il senso del viaggio compiuto in Lavorare uccide. La locuzione «morti bianche», ragiona Rovelli, è come una specie di palinsesto: basta grattare la superficie, avere voglia di andare fino in fondo e dietro la neutralità di questa espressione comparirà la verità: chiamiamoli, semmai, «omicidi bianchi».29
Tra gli autori che meglio hanno raccontato il tragico destino degli operai della grande fabbrica del ventesimo secolo, trattati come vera e propria «carne da macello»,30 vi è Stefano Valenti che ne La fabbrica del panico, suo romanzo di esordio e vincitore del premio Campiello Opera Prima, ha rappresentato con grande intensità lirica la tragedia degli operai della Breda Fucine di Sesto San Giovanni vittime dell’amianto. Come si legge nel dossier di Michelino e Trollia, la Breda Fucine «come tutte le industrie metalmeccaniche e siderurgiche dove si svolgevano lavorazioni a caldo, utilizzava con grande abbondanza l’amianto, considerato allora il più economico ed il migliore termodispersore al mondo», la cui «pericolosità per la salute dei lavoratori era comunque già conosciuta, da industriali, medici, legislatori, fin dal 1935».31 Il romanzo, nato dalla «necessità di ricostruire la storia della classe operaia, in questi anni negata, censurata»,32 narra della morte del padre dell’autore/narratore e mescola con grande abilità autobiografia, elementi di finzione, verità documentate, ricerche di archivio, introspezioni letterarie. I toni usati da Valenti sono crudi, realisitici, e l’autore non esita a fornire descrizioni dettagliate delle condizioni di salute del padre, cui fanno da contraltare i racconti delle crisi di panico di cui egli stesso è vittima. In entrambi i casi non si riscontra reticenza, ma solo la voglia di mostrare con assoluta fedeltà l’orrore della malattia (fisica e psicologica) e le sue conseguenze sul corpo e sulla mente. Si legga, ad esempio, il racconto dell’ultima notte trascorsa insieme al padre:
[...] mio padre si alza. Insonne, me ne accorgo da un fruscio e da un rumore sordo sullo stipite della porta della camera da letto. [...] Mio padre avanza in mutande e maglietta, il plaid, che non riesce a scaldarlo, sulle spalle. E trema, dal freddo, dalla fatica. Le gambe piegate, la pelle, cascante, che ballonzola sulle ossa non più ricoperte da uno strato di carne e muscoli. [...] Dei settanta e passa chili di mio padre ne sono rimasti una quarantina. [...] È sfibrato. La sua stanchezza è immensa, fuori di misura. Il corpo, troppo piccolo in confronto alla testa, è ormai sul punto di frantumarsi.33
Il testo trasuda dolore, vergogna, rabbia, frustrazione, e la storia del padre del narratore diventa il simbolo di una tragedia collettiva, che non va dimenticata, e che ha coinvolto centinaia di lavoratori vittime del mesotelioma.
In un tale contesto la fabbrica non può che assumere le valenze simboliche della prigione, di una camera della tortura da cui non vi è scampo. «La fabbrica» scrive inequivocabilmente Valenti, «è una condanna senza reato. Esiste un prima e un poi per chi è stato condannato alla fabbrica, un prima della fabbrica e un poi della fabbrica. E da quel poi una vita normale diventa invivibile».34 Neanche la fuga dalla città porta giovamento. Ne La fabbrica del panico la campagna fa sempre da sfondo al dolore e alla alienazione, e «non ha niente di idilliaco».35 L’unica possibilità di salvezza spirituale risiede nella potenza dell’arte, letteraria nel caso del figlio, pittorica nel caso del padre operaio. È solo attraverso il momento catartico della creazione artistica che dolore e morte possono essere davvero dimenticati, sconfitti, almeno per un momento. È solo nella pittura «arrivata in piena maturità» che il padre può finalmente esprimere se stesso, «manifestarsi» realmente al di là della rabbia, e trovare la libertà negata dai vincoli lavorativi:
Ora che è libero di esprimere in modo compiuto il suo valore, che le sue giornate sono affollate da pensiero, forma, sostanza, progetto e desiderio, ora che non deve obbedire a ordini stridenti e gli è consentito trascorrere tempo con se stesso, ora mio padre ha dimenticato il dolore fisico e morale della fabbrica.36
Date tali premesse, non è un caso che il bel romanzo di Valenti si chiuda con l’immagine di un quadro del padre à la Matisse raffigurante una figura femminile sdraiata circondata da «pesci rosso carminio in una brocca e un vaso di fiori rosa da cui fuoriescono arbusti marroni».37 È con questa luminosa immagine che l’autore congeda i propri lettori, lasciando intravedere un barlume di speranza, una luce vivifica in grado, nonostante tutto, di rischiarare il buio della notte.
L’ultimo testo di cui si vuole parlare è la raccolta Lavoro da morire. Pubblicata nel 2009 per i tipi Einaudi l’antologia raccoglie i racconti scritti da undici autori (tra cui Avoledo, Bajani, Murgia, Pascale, Falco) che, prendendo spunto da avvenimenti reali, hanno narrato fatti, personaggi e situazioni legati al mondo del lavoro38 (precariato, mobbing, discriminazione sul posto di lavoro, immigrazione). Il volume nella sua organicità è così presentato da Viviana Rosi:
La non fiction novel, il reportage narrativo – se vogliamo dare una definzione collettiva dei testi antologizzati in questo volume – è l’esito di un lavoro di raccolta di testimonianze, solo in un secondo momento fatte proprie e formalmente rielaborate dagli scrittori coinvolti. [...] [L’antologia] ha innanzitutto accolto storie vere di vita lavorativa in sé certamente uniche ed esemplari, ma soprattutto «utili» a tracciare una mappa del disagio, delle disuguaglianze, delle ingiustizie che connotano parte dell’attuale mondo del lavoro.39
Per ciò che concerne l’argomento di cui si sta trattando, due sono in particolare i racconti che interessano da vicino: Tanto si doveva di Andrea Bajani e Trasformare il trauma in dolore di Antonio Pascale.
Partiamo da Bajani, autore che ha offerto notevoli prove narrative legate al mondo del lavoro (Mi spezzo ma non m’impiego: guida per lavoratori flessibili, 2006; Cordiali saluti, 2008; Se consideri le colpe, 2009). Il breve racconto dello scrittore di origine romane tratta della tragedia di un operaio imbianchino morto fulminato il 6 giugno 2006 mentre tagliava i rami di un albero: «Quindicimila volt di corrente, e sei diventato un caduto del lavoro anche tu».40 Scrittore da sempre metalinguisticamente avvertito e cosciente, Bajani non si propone di ricostruire la successione degli eventi, né di ricercare cause e colpevoli dell’incidente, intende bensì mettere in rilievo il drammatico contrasto che si viene a creare, dal punto linguistico ma anche da quello umano, tra il linguaggio burocratico usato nella perizia medica (attestanti le cause del decesso) e quello della letteratura, impiegato viceversa per cercare di superare la mera referenza e ridare umanità alla realtà. Scrive Bajani:
Io di te non so nulla, ti conosco solo per una foto, qualche ansa battuta di fretta un anno fa, e soprattutto una perizia che parla di te. La tua morte mi arriva così, con l’igiene obitoriale delle notizie d’agenzia, dove tu sei solo un Operaio imbianchino, la tua morte è un Decesso avvenuto per via di una scarica elettrica che ti ha investito. All’inizio si muore così, cristallizzati in referti medici o dispacci d’agenzie, impacchettati in parole che dicono solo come funziona il corpo dell’uomo, e qual è il punto in cui poi non funziona più. Io li ho tutti davanti questi scampoli di vocabolario, queste parole confezionate per non avere emozioni. È con questi pochi pezzi e con queste parole che io scrivo di te.41
La parola letteraria è usata dunque per restituire la vita (la morte) dell’operaio ad una dimensione più solidale, che faccia uscire dall’anonimato la vicenda di chi, una volta terminati i discorsi ufficiali di prammatica, viene dimenticato troppo in fretta. Lo iato che esiste tra il linguaggio burocratico «igienizzato» (e quale espressione è più «igienica» di «morte bianca»?), preciso e freddo del referto e la tragedia di un uomo «morto per sbaglio»42 è incolmabile, almeno nel discorso comune. Ma non per la letteratura. Anzi, questo è precisamente uno dei suoi compiti più alti. Se «le perizie si occupano di come funziona il corpo dell’uomo»,43 di come «funziona l’anima si occupa il prete»,44 dice Bajani; e se ne occupano i poeti, aggiungo io. Per quanto breve, Tanto si doveva funziona come fosse un manifesto sul potere epistemologico della parola poetica. In queste poche pagine prende forma infatti la missione della letteratura: andare oltre i fatti consegnati da documenti e numeri45 ufficiali, raccontare il non-detto, immaginarsi l’inimmaginabile, fare congetture, letteralmente passare dal noto all’ignoto. Al termine del racconto l’io narrante afferma:
E questo è tutto quello che so di te, stando fermo in ascolto nel mio appartamento, da questa parte del muro, cercando di capire che faccia ha chi sta dall’altra parte di questa stanza. Il resto, tutto il resto, sono mie congetture. La perizia consegna i fatti, li fa succedere di nuovo mondati di tutto, impacchettati dentro parole che non hanno emozioni, con igiene da obitorio. Li mette tutti in fila sul tavolo della cucina. Io quei fatti li rivedo succedere confezionati dentro buste di nylon, e così li interpreto come fossi nell’appartamento di fianco, come se quei fatti fossero rumore, gente che parla, litigate.46
Il compito della letteratura non è però solo quello di scardinare il linguaggio asettico della burocrazia e farlo sanguinare, renderlo tangibile, autentico, ma è anche, per seguire i suggerimenti di Antonio Pascale, quello di offrire una narrazione del post-trauma, del dopo, che sappia raccontare (e alleviare) il dolore di chi resta. Se il racconto di Bajani prende spunto da un fatto di cronaca, Trasformare il trauma in dolore di Pascale è invece ispirato dall’intervista allo psicologo (citato solo con il proprio nome di battesimo, Paolo) intervenuto a sostegno degli operai sopravvissuti al rogo della ThyssenKrupp. Con la sua consueta pacatezza e sagacia Pascale comincia le proprie riflessioni con una domanda: come ci si deve comportare, si chiede l’autore casertano citando Susan Sontag,47 davanti al dolore degli altri? Davanti ad una fotografia che ritrae una tragedia? Davanti ai tanti articoli che parlano, ad esempio, della tragedia della ThyssenKrupp?48 Nonostante tutti i limiti e le ambiguità possibili, dice Pascale, bene o male, con più o meno retorica, si è sviluppato «un linguaggio per raccontare a caldo la tragedia, l’infortunio, il danno fisico e questo linguaggio [...] pur con tutto il suo armamentario retorico (il dolore, le frasi fatte, i commenti macabri), rappresenta un modo per avere accesso alla dimensione luttuosa».49 Ma dopo? Cosa succede quando le luci dei riflettori si spengono, i politici hanno esaurito le frasi di circostanza, i media hanno consumato la notizia, e la pubblica opinione è pronta a passare ad altro? Come dice Franca Mulas in Morti bianche dopo «per chi rimane le cose vanno così: silenzio dalla stampa dopo due giorni di attenzione, disinteresse dai sindacati e dalle istituzioni».50 Per fronteggiare tutto questo bisogna, per dirla con Pascale, «trasformare il trauma personale in dolore collettivo», provare a fornire un’assistenza (sociale, politica, culturale, ma anche linguistico-narrativa) che favorisca questo passaggio e che aiuti a metabolizzare la perdita e «fare una rigorosa opera di prevenzione».51 Letteratura e scrittura dunque non solo come strumento di denunzia (come nel caso di Di Persio, Rovelli e Valenti) o come mezzo tramite cui dare un volto umano a un semplice fatto di cronaca (Bajani), ma anche come momento attraverso il quale fermarsi un attimo, riflettere e ricercare un linguaggio che possa servire «a dare voce e forza e speranza a quelle persone che compiono piccoli gesti di prevenzione quotidiana».52 È questo il compito dei poeti.
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1 http://www.panorama.it/economia/lavoro/infortuni-sul-lavoro-le-morti-bianche-del-2016/ (consultato il 22 dicembre 2016).
2 Giulio Cavalli, Morti di lavoro, «Il Fatto Quotidiano», 23 novembre 2010, www.ilfattoquotidiano.it/
2010/11/23/morti-di-lavoro/78370 (consultato il 22 dicembre 2016).
3 Giulio Cavalli, op. cit.
4 Donata Meneghelli, Gli operai hanno ancora pochi anni di tempo? Morte e vitalità della fabbrica, «Narrativa» 31/32 (2010), p. 65.
5 Mi rifaccio in questo caso alla discussione di simili tematiche fatta da Monica Jansen che nell’analizzare le rappresentazioni delle morti sul lavoro parla di inter-medialità, ossia della «ripetizione di un evento da ricordare in diversi momenti e in diversi tipi di media, così che la rappresentazione assume una dimensione transmediale», Monica Jansen, Quando l’azienda diventa mortale. Le “morti bianche”: narrazione e mutazione del soggetto precario, «Narrativa» 31/32 (2010), p. 128.
6 Tra le opere più significative su questo evento si devono ricordare: i documentari La fabbrica dei tedeschi di Mimmo Calopresti (2008), ThyssenKrupp Blues di Pietro Balla e Monica Repetto (2008), La classe operaia va all’inferno di Simona Ercolani (2008), le indagini giornalistico-sociologiche di Diego Novelli (ThyssenKrupp. L’inferno della classe operaia, Milano, Sterling & Kupfer, 2008) e Alessandro Portelli (Acciai speciali. Terni, la ThyssenKrupp, la globalizzazione, Roma, Donzelli editore, 2008), il libro di fumetti di Alessandro Di Virgilio e Manuel De Carli ThyssenKrupp. Morti speciali S.p.A., Padova, BeccoGiallo Editore, 2008. Si segnala inoltre una speciale sezione de «la Repubblica» online interamente dedicata alla tragedia di Torino (Thyssen, il dolore di Torino) che si può liberamente consultare al seguente indirizzo: temi.repubblica.it/repubblicatorino-speciale-thyssenkrupp (consultato il 25 dicembre 2016) .
7 Raffaele Donnarumma, Gilda Policastro e Giovanna Taviani, Ritorno alla realtà? Narrativa e cinema alla fine del postmoderno, «Allegoria» 57, gennaio/giugno 2008, pp. 7-93. Il dibattito è stato inoltre al centro di importanti convegni internazionali come quello di Varsavia (Fiction, Faction, Reality: incontri, scambi, intrecci nella letteratura italiana dal 1990 a oggi, 9-10 novembre, 2009) e di Toronto (Negli archivi e per le strade: il ‘ritorno al reale’ nella narrativa italiana di inizio millennio, 6-8 maggio, 2010).
8 Raffaele Donnarumma, Introduzione, «Allegoria» 57, gennaio/giugno 2008, p. 7. Cfr. anche «Tirature ‘10» a cura di Vittorio Spinazzola, che dedica una sezione a ciò che viene chiamato Il New italian Realism.
9 Gregorio Magini e Vanni Santon, «Verso il realismo liquido», www.carmillaonline.com/archives/2008/06/002663.html (consultato il 25 gennaio 2017).
10 Donnarumma parla in questo caso di «attitudine documentaria» della narrativa contemporanea. Raffaele Donnarumma, Introduzione, cit., p. 8.
11 Gianluigi Simonetti, I nuovi assetti della narrativa italiana (1996-2006), «Allegoria» 57, gennaio/giugno 2008, p. 125.
12 Cfr. Silvia Contarini, Raccontare l’azienda, il precariato, l’economia globalizzata. Modi, temi, figure, «Narrativa» 31/32 (2010), pp. 7-8.
13 Samanta Di Persio, Morti bianche, Milano, Casaleggio Associati, 2008, p. 217.
14 Op. cit., p. 19.
15 Ibidem.
16 Si veda, come esempio, il racconto Silos della morte in cui il titolare della Umbra Olii è esplicitamente accusato di «omicidio colposo plurimo aggravato per la violazione di norme sulla sicurezza», op. cit., 115.
17 L’intervista ad Antonio Pascale si può leggere andando a questo indirizzo: www.inail.it/Portale/appmanager/portale/desktop?_nfpb=true&_pageLabel=PAGE_SALASTAMPA&nextPage=Prodotti/News/2009/Cultura/info-1360604200.jsp (consultato il 26 gennaio 2017). Sull’espressione «morte bianca» e sul problema della rimozione si vedano anche le acute riflessioni di Marco Rovelli, Lavorare uccide, Milano, Bur, 2008, pp. 9-15.
18 Samanta Di Persio, Morti bianche, cit., p. 45.
19 Si veda in tal senso la testimonianza di Valter Albani, Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza delle Fonderie Officine Pietro Pilenga di Comun nuovo in cui nel giugno del 2006 si è verificato un incidente mortale, quello di Laye Dieng. Sostiene Albani: «[...] lavoriamo male, i datori non hanno la cultura della sicurezza, si bada solo al potere d’acquisto, viene meno la dimensione umana. Si ricorre ai ripari solo quando ci sono controlli. Purtroppo troppo spesso per paura e ignoranza gli stessi lavoratori preferiscono non mettersi contro il padrone e lavorare in condizioni pericolose. Oggi, la maggior parte dei macchinari sono costruiti a norma, però vengono manipolati per velocizzare la produzione»; op. cit., 106. Insomma, il profitto prima di tutto.
20 Op. cit., p. 58.
21 Alessandro Bertante, Servi, www.carmillaonline.com/archives/2009/10/003218.html (consultato il 26 gennaio 2017).
22 Gianni Vattimo, Servi, www.marcorovelli.it/marco_rovelli_testi_dett.asp?ID=392 (consultato il 26 gennaio 2017).
23 Marco Rovelli, Lavorare uccide, cit., p. 57.
24 Op. cit., p. 8.
25 Furio Colombo, La paga. Il destino del lavoro e altri destini, Milano, Il Saggiatore, 2009, p. 84.
26 Marco Rovelli, Lavorare uccide, cit., p. 59.
27 Op. cit., p. 82.
28 Se proprio si vuole usare questo aggettivo, sembra suggerire causticamente Rovelli, allora chiamiamole «bianchissime, perché morti di lavoratori senza diritti e senza volti», op. cit., p. 12.
29 Op. cit., p. 108.
30 Il riferimento in questo caso è al dossier di Michele Michelino e Daniela Trollia reperibile in rete dal titolo Operai, carne da macello. La lotta contro l’amianto a Sesto S. Giovanni (http://www.resistenze.org/sito/ma/di/sc/mdsc5f29/mdsc5f29.htm; consultato il 30 gennaio 2017).
31 Ibidem.
32 Silvana Farina, «La fabbrica del panico di Stefano Valenti»; https://www.comitatodifesasalutessg.com/2015/03/11/intervista/ (consultato il 26 gennaio 2017).
33 Stefano Valenti, La fabbrica del panico, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 38.
34 Op. cit., p. 26; cfr. anche p. 37 e p. 42.
35 Op. cit., p. 28.
36 Op. cit., p. 25.
37 Op. cit., 115.
38 La pubblicazione dell’antologia rappresenta, per la cronaca, uno dei risultati del progetto della INAIL chiamato «Diritti senza rovesci» finalizzato alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica e della politica nei confronti delle problematiche lavorative. Per ulteriori informazioni si consulti il sito: www.inail.it/Portale/appmanager/portale/desktop?_nfpb=true&_pageLabel=PAGE_SALASTAMPA&nextPage=Prodotti/News/2009/Cultura/info62847681.jsp (consultato il 26 gennaio 2017).
39 Viviana Rosi, Postfazione, in AA. VV. Lavoro da morire, Torino, Einaudi, 2009, p. 119.
40 Andrea Bajani, Tanto si doveva, in AA. VV. Lavoro da morire, Torino, Einaudi, 2009, p. 19.
41 Op. cit., p. 20.
42 Ibidem.
43 Op. cit., p. 24.
44 Ibidem.
45 In questo senso molto significativo è il testo Il lavoro rende liberi di Daniele Biacchessi, tratto dalla sua omonima opera teatrale. Il tentativo di conferire vita, volti e corpi a dei semplici numeri (le statistiche su infortuni e morti sul lavoro) è al centro della narrazione di Biacchessi, che scrive: «I calcoli matematici sono freddi, generalmente non hanno un’anima. Statistiche, proiezioni, raffronti, percentuali. Sono operazioni svolte da uomini, ma distanti dalla vita delle persone. Sono numeri sommati, moltiplicati, sottratti, poi divisi, ancora sommati, divisi, risommati, sottratti di nuovo, e ancora moltiplicati, divisi che alla fine compiono un totale. [...] Solo quando vengono associati a un soggetto, quei numeri fanno capire molto di più di qualsiasi analisi, rapporto, editoriale di un quotidiano, rilievo di un ricercatore. I numeri associati a un soggetto raccontano una storia e ne descrivono il senso compiuto»; Daniele Biacchessi, Il lavoro rende liberi, in AA. VV. Maledetta fabbrica, Viterbo, Stampa alternativa/Nuovi equilibri, 2010, pp. 71-72.
46 Andrea Bajani, Tanto si doveva, cit. pp. 24-25.
47 Il riferimento è al libro di Susan Sontag, Regarding the Pain of Others, New York: Picador/Farrar, Straus and Giroux, 2003.
48 «Alla fine delle svariate letture» sostiene Pascale, «pur trovandomi commosso, riecco fare capolino quella sensazione: non capivo se erano le espressioni come “torce umane” o alcune descrizioni morbose ad eccitare la mia commozione oppure il triste episodio mi aveva davvero sensibilizzato»; Antonio Pascale, Trasformare il trauma in dolore, in AA. VV. Lavoro da morire, Torino, Einaudi, 2009, p. 98.
49 Op. cit., pp. 103-104.
50 Samanta Di Persio, Morti bianche, cit., p. 90. Si veda anche p. 95.
51 Antonio Pascale, Trasformare il trauma in dolore, cit., p. 105.
52 Ibidem.