N°4 / Letteratura e lavoro in Italia. Analisi e prospettive

Trasparenza, architettura e industria degli anni Cinquanta raccontate da Ottiero Ottieri

Cristina Nesi

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Cristina Nesi

(ADI-SD Toscana)

 

 

Trasparenza, architettura e industria degli anni Cinquanta raccontate da Ottiero Ottieri

 

 

Realizzato all'inizio degli anni Cinquanta, lo stabilimento flegreo dell'Olivetti viene costruito in posizione elevata sulla linea della costa e articolato su uno spazio di 15 ettari lungo la via Domiziana. È un «castello orizzontale di vetro, fluorescente di luci fredde - leggiamo in Donnarumma all'assalto, diario dell'esperienza di Ottieri come selezionatore del personale e che, in una prima stesura manoscritta, contemplava fra i possibili titoli anche Il castello di vetro. - C’è il neon dietro i vetri. Gli abitanti della costa, i pescatori possono vederla così irraggiungibile da ogni punto del golfo».1

Il mito della trasparenza e della smaterializzazione dell’oggetto edilizio, nato in ambito architettonico con l’erezione del Crystal Palace di Londra del 1851 e culminato nella spettacolarizzazione del visibile con la Gläserne Manufaktur Volkswagen di Dresda del 2001, consente di riflettere su un'epoca in cui sono stati rincorsi con pertinacia spazi di reversibilità ottica fra interno ed esterno e nella quale l'aggettivo 'trasparente', irriso da un celebre aforisma di Giuseppe Pontiggia,2 si è affermato sempre di più a cominciare dai muri abbattuti dai mezzi di comunicazione («Il telefono: discorso senza mura. Il grammofono: auditorio senza mura. La fotografia: museo senza mura. La luce elettrica: spazio senza mura. Il cinema, la radio, la TV: aula scolastica senza mura»),3 per finire con gli edifici di cristallo dell'industria high-tech che rifrangono come un prisma le mille contraddizioni de La società della trasparenza, che «non tollera lacune», come ci ricorda Byung-Chul Han, «né nell’informazione, né nella visione».4 Un vero «inferno dell’Uguale».5

Teche commerciali e fabbriche trasparenti, casine di cristallo e città di vetro ricorrono con frequenza sia nel linguaggio architettonico che letterario, così come frequenti sono le indagini nella seconda metà del Novecento sulle due polarità della trasparenza: da un lato il controllo collettivo onnivedente alla Foucault con i suoi oscuri scenari o gli incubi concentrazionari colti icasticamente dalle glass boxes di Francis Bacon, dall'altro il desiderio prammatico di affidare una missione emancipatrice alla visione dall'esterno delle attività interne agli stabilimenti, di «scacciare l'infelicità» e di «accanirsi a creare la felicità»6 come sostiene Luigi Cosenza, progettista della fabbrica di Pozzuoli. La grande luce di Napoli sorregge la sua convinzione che l’enfasi retorica del Mezzogiorno, le sue ataviche arretratezze e un certo modo di essere di chi ci vive potrebbero essere sconfessate dalla razionalizzazione architettonica e urbanistica, posizione che in un primo momento sembra condividere lo stesso Ottieri («Lo stabilimento fa gli uomini uguali, asciuga gli umori, riduce i vizi del carattere», p. 156) ma dalla quale finirà per prendere le distanze nel corso del racconto.

Le affermazioni visionarie di Cosenza e le utopie di Olivetti non appaiono oggi lontane dalle aspirazioni libertarie ed egualitarie di Rodari, che in Giacomo di Cristallo (Favole al telefono, 1962), racconta come i muri trasparenti della cella di Giacomo consentano ai concittadini di leggere i suoi pensieri e di esserne influenzati, a dispetto della realtà tirannide nella quale tutti sono costretti a vivere. Un ottimismo riguardo alla forza della verità, della ragione e della trasparenza, quello di Rodari, di Olivetti, di Cosenza accostabile a quanto Benjamin annotava in Esperienza e povertà: «Il vetro è soprattutto il nemico del segreto» e il «nemico del possesso».7 Due qualità della trasparenza, che l'avrebbero resa, a suo dire, utile a un'umanità più libera.

«Una città cubica, limpida come cristallo e piena di luce»8 sogna anche Edoardo Persico ne La città degli uomini d'oggi, uomini associati dal lavoro «e particolarmente, poiché siamo nel secolo ventesimo, dal lavoro industriale»,9 filo che lo accomuna ad Adriano Olivetti, convintosi dopo un viaggio a New York fra grattacieli vitrei e «fabbriche di macchine per scrivere, fabbriche di automobili, fabbriche di macchine utensili, fabbriche di addizionatrici»10 che una moderna architettura industriale, una urbanizzazione degli spazi e numerose innovazioni tecniche potessero trascinare con sé un profondo rivolgimento sociale e politico. Questo «substrato etico»11 e la visione socialista trovano ispirazione come rimarcato da Tafuri e Dal Co in Architettura contemporanea.12 dall'azione critica dello stesso Persico, che aveva sempre invitato a guardare 'oltre' l'architettura. Al sociale, dunque, e alla vita comunitaria. Del resto, anche Scialoja, intravedendo nel 1956 la vita brulicante dai vetri dei grattacieli di New York si auspica che quelle «nude attività umane» e quel «respiro del lavoro collettivo» siano capaci di rendere altrettanto spoglio e nudo «ogni principio di autorità».13

Conta, per Adriano Olivetti, il riscatto estetico della quotidianità e conta in una «visione integrata» che coinvolge tutto, dall'aspetto ambientale agli oggetti di design prodotti dall'azienda: un'utopia dell'unificazione estetica dell'esperienza «come dato costante e imprescindibile della società»,14 finalizzato a ridare «dignità di fini»15 al lavoro dell'operaio taylorizzato, a incentivare la sua esperienza di appartenenza alla comunità e a farlo sentire parte indispensabile in un vasto progetto d'innovazione tecnologica e di rinnovamento sociale. Il fine è l'uomo, che lavorando con le macchine e con le tecnologie avanzate, partecipa «alla vita pulsante della fabbrica» fino ad «amarla», per cui il suo lavoro è «un'immensa forza spirituale».16 Pur non potendo recuperare la coscienza produttiva degli artigiani, è importante valorizzare almeno lo scopo del lavoro operaio e offrire ai lavoratori un senso di avanzamento sociale complessivo, a partire dal fatto di farli vivere in uno spazio architettonico umano e immerso nella natura.

Così, per Pozzuoli Olivetti sogna una fabbrica con grandi «finestre basse e i cortili aperti e gli alberi nel giardino ad escludere definitivamente l’idea di una costrizione e di una chiusura ostile» (p. 104). Lo dirà nel discorso inaugurale, riportato fedelmente da Ottieri nel romanzo: «Abbiamo voluto anche che la natura accompagnasse la vita della fabbrica. La natura correva il pericolo di essere ripudiata da un edificio troppo grande, nel quale le chiuse muraglie, l’aria condizionata, la luce artificiale, avrebbero tentato, direi, di trasformare giorno per giorno l’uomo in un essere diverso da quello che vi era entrato, pur pieno di speranza» (ibidem). Sembra un controcanto alla «cupa cittadella» paleotecnica di Coketown «dove la Natura era come tenuta prigioniera dai mattoni, dall'aria mefitica e dai gas, nel cuore di quel labirinto di corti strette, di strade contigue l'una all'altra».17

Il corpo di fabbrica porticato dell'Olivetti con lunghe asole vetrate lungo la via Domiziana è basso e coperto da una cortina di verde che funge da filtro con la strada e da raccordo visivo fra il complesso e il golfo antistante. Spicca in questo progetto architettonico l'interesse sempre più integrato di Adriano Olivetti per una pianificazione territoriale e insieme urbana, funzionale a nuovi modelli di organizzazione produttiva e sociale, con edifici industriali, uffici, case per dipendenti, mense, biblioteche, asili in un sistema di servizi sociali articolati.

Progettata su una pianta a croce ortogonale dall'ingegnere Luigi Cosenza, insieme a Pietro Ciaravolo e Adriano Galli, la fabbrica viene liberata dai vincoli della muratura in mattoni e sposa una predominanza del vuoto rispetto al pieno grazie al calcestruzzo, ai pilastri e alle grandi vetrate, tanto che «Dal primo pianerottolo della scala di ferro, uno può affacciarsi sulla gran valle a croce dell’officina; un ballatoio a metà altezza la percorre» (p. 103).

Da quel ballatoio, che funge da passerella di disimpegno per il passaggio degli operai e degli impiegati, in un solo colpo d'occhio si può vedere l'intera cavità della fabbrica, «dominarla tutta» (ibidem). L’estetica della trasparenza diventa per Olivetti etica di una centralità relazionale degli operai impegnati nelle varie oasi produttive, mentre le grandi vetrate consentono che non ci sia soluzione di continuità con gli spazi esterni, tanto che «l’ex pescatore Palumbo Vincenzo, di Grotte, il cui posto di lavoro è l’ultimo della fila, verso la parete di cristallo, accanto a una porta-finestra aperta sul prato del giardino», se muove anche un solo «passo di fianco» si ritrova subito «sull’erba, sotto il cielo» (ibidem).

L'architettura trasparente nello stabilimento flegreo assume nel rapporto fra forma e uso un aspetto 'funzionale' e un aspetto 'finzionale' nel rapporto fra forma e racconto, dal momento che entra al centro dell'opera letteraria di Ottieri. Al primo aspetto, quello 'funzionale', appartiene l'open space produttivo nel quale si snodano le linee continue dei trasportatori per il montaggio delle calcolatrici Tetractys (1955), macchine scriventi con automatismi che facilitavano le operazioni fino a 12 cifre (13 per i risultati) e che sul mercato non hanno in quegli anni rivali capaci di reggere il confronto, tanto che il prezzo elevato viene giustificato dall'eccellenza qualitativa del prodotto. L’intero ciclo di produzione occupa una sola altezza al livello del terreno e le ampiezze dei padiglioni tolgono all’operaio il senso di oppressione dato tradizionalmente dagli spazi di lavoro angusti e oscuri. Inoltre, ogni posto di lavoro ha un angolo visuale su tutto il montaggio e un angolo di visuale verso lo spazio esterno del giardino. Non a caso, nel giudizio di Argan, la fabbrica di Pozzuoli rimane un «caposaldo e modello insuperato di quello che avrebbe dovuto essere l'industrializzazione del Mezzogiorno» perché Olivetti e Cosenza non pensarono la fabbrica «come una macchina, ma come luogo di abitazione lavorativa».18

Il giardino, insieme al lago, nascono dal disegno di Piero Porcinai, mentre le vivaci tinte pastello degli spazi interni e dei macchinari della fabbrica sono il frutto di un accurato studio cromatico fatto da Marcello Nizzoli,19 lo stesso architetto che firma il disegno delle calcolatrici Tetractys (1955).

Nelo Risi girerà nella fabbrica di Pozzuoli Sud come Nord (1957), documento di cinema d'impresa utilissimo oggi per poter rivedere quello spazio di lavoro in piena attività. Vi si racconta, dopo le immagini iniziali sulla povertà di Pozzuoli e sulle tradizioni storiche, la giornata tipo di un lavoratore: le mansioni, le fasi produttive, la mensa, l'intervallo, la biblioteca, le passeggiate, il pomeriggio lavorativo e la sera con gli intrattenimenti organizzati dal centro sociale aziendale.

Riccardo Musatti, a cui Adriano Olivetti affida fin dal 1949 il coordinamento degli studi di pianificazione regionale, racconta:

 

Su un appezzamento di sette ettari, edifici per una complessiva area coperta di 24.000 mq. accolgono una fabbrica a ciclo integrale per la produzione di macchine da calcolo, i relativi servizi tecnici e amministrativi e una completa attrezzatura sociale. Lungo la statale corre una bassa fascia di padiglioni e di pensiline: vi sono sistemati i due ingressi, carraio e pedonale, le portinerie, una sala di esposizione e i parcheggi.

All'estremità nord occidentale la fascia si salda con una serie di edifici funzionalmente distinti ma costruttivamente legati: l'infermeria, la biblioteca, la mensa luminosa con la grande cucina; lungo di essi un passaggio coperto, dilatato in atri ed in portici, segna il percorso verso le officine. A queste si accede normalmente dall'estremo occidentale del braccio croce. 20

 

Già negli schizzi preparatori di Luigi Cosenza21 lo schema a croce è la chiave del sistema planimetrico dell'intero complesso: all'inizio «rigida e nuda con i bracci perfettamente uguali, poi modificata in pianta e in volume, asimmetrica, protesa a fondersi organicamente con gli altri elementi disposti in sequenza funzionale su un accidentato terreno».22 L'incarico affidato a Cosenza è comunque più ampio rispetto alla richiesta di un progetto di fabbrica: promuovere a Pozzuoli la formazione di una piccola comunità, in cui spazio di lavoro e di vita siano in simbiosi.

Con ogni probabilità proprio il razionalismo dell'ingegnere napoletano, che parte dalle specificità del territorio e dall’architettura popolare del Mezzogiorno e che finirà per rifiutare la forma del falansterio, diventa elemento determinante, come nota anche Argan,23 per l'affidamento dell'incarico da parte del committente. L'impostazione urbanistica del progetto alla fine riuscirà a conciliare un'alta densità residenziale con le varie problematiche di carattere sociale, motivo per cui il registro morfologico dei nuclei di case basse disegnate da Cosenza appare disposto secondo uno schema, che rimanda alla corte campana intesa come centro di vita collettiva. Anche la scelta di spostare il complesso residenziale al quartiere Terracciano, rispetto al progetto iniziale di un'ubicazione al Fusaro, nasce dalla considerazione di «non allontanare gli abitanti dalla loro precedente residenza» per non «rompere l'unità della popolazione».24

L'architettura trasparente dello stabilimento flegreo assume anche, lo abbiamo detto, un aspetto 'finzionale' di rêverie fiabesca, dovuto alle risonanze e alle suggestioni dell'immaginario davanti ad «architetture purovisibiliste» e al loro «regime di fantasticazione»:25 un «castello orizzontale di vetro» (p. 78) verso il quale anche di notte viene spontaneo dirigersi, «come a una attrazione fantastica, a un castello illuminato» (p. 37), perché «l’architetto ha progettato una delle più belle fabbriche d’Europa, colorata, circondata da un giardino; e intorno ad essa l’infermeria, la biblioteca, la mensa. Vi nasce un mondo unitario, caduto dall’alto nelle sue forme, ma per affondare nella terra e nello spirito di questo paese» (p. 7).

Se nella visione di Adriano Olivetti le competenze progettuali, la ricercatezza dei valori estetici nel design (sia dei prodotti che dello stabilimento) e l’efficienza tecnologica vengono finalizzate allo sviluppo economico del territorio, alla crescita professionale dei lavoratori e agli equilibri sociali, non stupisce che in quel castello trasparente i pescatori, i contadini e i disoccupati puteolani vedano una promessa di appagamento ai loro desideri e una possibile soluzione a tutti i quotidiani tormenti. Il diario di Ottieri diventa allora un'ottima specola da cui osservare sia l'iniziale Felicità in vetrina,26 sia lo spazio deformato e disturbante: «Quanto a me, vorrei vivere fino in fondo nelle terre attraverso cui passo quattro volte al giorno. Finisco invece, benché ci abbia la casa, per essere succhiato dalla casa allo stabilimento, e viceversa, come dentro un tunnel trasparente» (p. 38). Il tunnel trasparente finirà per ingabbiarlo e isolarlo, mentre la trasparenza architettonica replicherà sempre più, nel corso del racconto, la sottomissione degli uomini al dominio dell'industria. Lo sospetta anche Ernest Bloch, se nel 1959 (quando Donnarumma all'assalto vede le stampe) mette in guardia contro l'architettura trasparente che «riflette e raddoppia in effetti il mondo freddo come il ghiaccio degli automi della società delle merci, della sua estraniazione, dei suoi uomini vittime della divisione del lavoro, della sua tecnica astratta».27

Così, nonostante lo stabilimento sia costruito «sulla misura dell’uomo» (p. 104), l'Olivetti di Pozzuoli porterà con sé la tematica dell’ultima tellus: la fabbrica, pronta ad assumere 40.000 disoccupati, quasi fosse un limen, una membrana porosa destinata ad essere varcata, diviene nel corso della narrazione di Ottieri un limes, una linea di confine, invalicabile per le centinaia di migliaia di esclusi, finché la tensione trasgressiva e non più tenuta sotto controllo dà luogo a un attentato. Verrà arrestato Antonio Donnarumma, l’unico che non intende sottoporsi all’umiliante trafila delle prove psicometriche e delle visite mediche, convinto di avere il sacrosanto diritto di faticare.

Sono proprio le asettiche selezioni, i colloqui, le prove attitudinali a sancire confini netti, a determinare il fallimento dei desiderati processi d'integrazione, a far prendere coscienza del fatto che se «da una parte entra un fiume», quello dei disoccupati che si sottopongono alle prove, «dall'altra esce un rigagnolo» (p. 19). La fabbrica trasparente finisce per marcare lo scarto fra i disoccupati, ossessionati dal desiderio di entrare e che stanno fuori nel mondo arcaico dei pescatori e dei contadini, e gli operai che lavorano dentro l'azienda illuminati dalla luce dei neon, protetti dalle perimetrate vetrate dell'enclave esclusiva, segregati nel loro benessere: «Venivano 'somministrati' stamattina i test nel laboratorio. Da fuori, attraverso i vetri, Donnarumma ci spiava. Se ne è accorta di scatto la signorina S.: dapprima Donnarumma ha sostato sul marciapiede opposto della Statale; poi ha attraversato pian piano la strada per curiosare dietro i vetri» (p. 134).

Proprio l'aula psicotecnica di Pozzuoli ha «due pareti di vetro, d’angolo» (p. 9), come l'edificio Bauhaus, nel quale Gropius per la prima volta aveva applicato l'angolo in vetro perché consentiva la lettura dei piani sospesi e la sovrapposizione visiva in contemporanea dell'interno e dell'esterno. All'Io narrante non resta che constatare come «Al di là dello stabilimento gonfia una vita collettiva, cui la fabbrica non porta che un miraggio di civiltà» (p. 38) e che la costruzione purovisibilista dello «stabilimento lucido, razionale» (p. 29) ha il risvolto inquietate di nascondere al suo interno delle inaspettate «viscere molli e sporche» (ibidem) e ampie cavità dove risuonano sonorità metalliche. Dal ballatoio le orecchie colgono in sottofondo il «fragore impastato dai motori ronzanti e dal taglio degli utensili, dentro un ammasso di stridori, sopra cui batte distinto il tan tan della pressa pesante» (p. 103). Nonostante l'inclinazione in testata delle pareti per disperdere e attenuare i suoni, secondo il disegno di Luigi Cosenza, la sonorità meccanica di fondo pervade comunque l'orecchio e svela come «Anche in questa officina così umana le macchine valgono più degli uomini; gli uomini nascosti dietro le macchine, appiccicati ad esse, bisogna frugare per cercarli. Quando uno gli passa dietro non fanno in tempo a voltarsi. Le macchine coprono le voci, schizzano olio, allontanano» (ibidem).

La disillusione sui valori salvifici dello stabilimento avanza anche fra le righe del capitolo XVIII e procede fino all’epilogo, dove si conferma il fiele della sconfitta, la mancanza di vie d’uscita, l’inadeguatezza delle ideologie, sbaragliate da Antonio Donnarumma e dal suo rifiuto sordo di un ordine razionalizzante. A morire è «il significato politico» della fabbrica «come esperimento di industria moderna del mezzogiorno» (p. 199) e, per quanto qui ancora non si intraveda l’abiura che invece avanza nel finale della Linea gotica, non emergono comunque appigli salvifici, che arginino o leniscano l’impietosa ostinazione di Ottieri a capire: capire il mondo complesso dell’industria e degli operai e, attraverso tutto questo, capire se stesso. Unica certezza è che «l’uomo tiene al suo valore soggettivo e vuol morire con esso. Rifiuta la necessità, la razionalità di un’analisi dei posti, e non crede al nostro tentativo di ordine» (p. 223). Indubbiamente «Selezione scientifica e disoccupazione si negano» (p. 34).

Alla fabbrica Ottieri affida una focale preferenziale per osservare i dissidi fra ragione e impotenza, fra ordine logico e mondo dissonante, fra luce e opacità, fra visione eterea e discernimento dei corpi solidi con il senso animale del tatto. Basterebbe a ricordarcelo l'«espertissimo e nasuto Di Meo» che nel reparto del montaggio spiega come per manipolare una calcolatrice «quando è un groviglio complicato da chirurghi» bisogna fare come la balia col bambino sul fasciatoio che lo rivolta elasticamente: «Come un cieco devi lavorare, come un cieco».28

Recuperando brandelli di vita umana dai singoli colloqui con i disoccupati, con gli operai, con gli impiegati, Ottieri orchestra un racconto corale per raccontarci una vita pulsante, che gonfia al di là dello stabilimento ma che riguarda tutti, nessuno escluso: «Gli analfabeti non sanno che la loro umiliazione è anche nostra. Con tutta la nostra scienza e organizzazione aziendale, a loro quando brandiscono il lapis non abbiamo da insegnare o dare nulla. Il privilegio dello stabilimento va a pezzi contro di loro, contro la lontananza dello Stato, di cui siamo correi».29

 

     Bibliografia

 

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1 Ottieri ottiero, Donnarumma all'assalto, Milano, Bompiani, 1959, in Opere scelte, a cura di G. Montesano, M.P. Ottieri, C. Nesi, Milano, Meridiani Mondadori, 2009, p. 78. Da questo momento la citazione delle pagine sarà inserita nel testo.

2 «Trasparente, aggettivo oggi in ascesa, rinvia all’idea che il fondo di noi stessi sia buono e che il fine sia di lasciarlo trasparire: come gli adolescenti che sognano una donna che li capisca, quasi avessero da guadagnarci», G. Pontiggia, Le sabbie immobili, Milano, Mondadori, 2007, p. 71.

3 McLuhan Marshall, Gli strumenti del comunicare. Mass media e società moderna, Milano, Net, 2002, p. 301 [trad. di Understanding Media, 1964].

4 HAN Byung-Chul, La società della trasparenza, Milano, Nottetempo, 2012, p. 15. Vi si legge anche che «Nessun’altra parola d’ordine oggi domina il discorso pubblico quanto il termine 'trasparenza'», p. 9.

5 Ivi, p. 10.

6 CIUCCI Giorgio, Un sognatore razionale, in Luigi Cosenza. Scritti e progetti di architettura, a cura di F.D. Moccia, Napoli, CLEAN, 1994, p. 17.

7 BENJAMIN Walter, Erfahrung und Armut (1933), in Scritti 1932-1933, Torino, Einaudi, 2003, p. 542.

8 Persico Edoardo, La città degli uomini d'oggi, Firenze, Quattrini, 1923, poi in Tutte le opere, a cura di G. Veronese, Milano, Comunità, 1964, v.1, p. 306.

9 Veronesi Giulia, Nota su Persico, in E. Persico, Tutte le opere, cit., v. 1, p. XXII.

10 Lettera di Adriano Olivetti al padre Camillo, riportata in B. Caizzi, Gli Olivetti, Torino, UTET, 1962, p. 153.

11 Cfr. OLIVETTI Adriano, Criterio scientifico e realtà industriale, «Tecnica ed organizzazione», 1, 1937, pp. 11-13.

12 Cfr. TAFURI Manfredo, F. Dal Co, Architettura contemporanea, Milano, Electa, 1988, p. 257.

13 SCIALOJA Toti, Giornale di pittura, Roma, Editori Riuniti, 1991, p. 27.

14 FABBRI Marcello, L'urbanistica per l'unità della cultura. Il problema del Mezzogiorno, in Un'azienda e un'utopia. Adriano Olivetti 1945-1960, a cura di S. Semplici, Bologna, Il Mulino, 2001, p. 139.

15 OLIVETTI Adriano, Appunti per la storia di una fabbrica, in Olivetti 1908-1958, Ivrea, C. Olivetti & C. S.P.A, 1958, pp. 16-17. Con titolo modificato, Prime esperienze in una fabbrica il testo sarà inserito nell'antologia Il mondo che nasce: dieci scritti per la cultura, la politica, la società, a cura di A. Saibene, Roma - Ivrea, Edizioni di Comunità, 2013, pp. 13-30. Riguardo alla «dignità di fini» all'interno della visione socialista, Daniele Goldoni mette in evidenza ne Il mito della trasparenza «le funzioni che la concezione antropologica e strumentale del lavoro e della tecnica e la nozione di 'valore d'uso' svolgono nell'analisi marxiana del capitale. La produzione di merci appare caratterizzata dalla frammentarietà, dalla opacità, dal feticismo e di conseguenza dal prevalere del valore di scambio. Nella produzione sociale invece il rapporto fra bisogni, lavoro e valori d'uso sarebbe totalmente trasparente al soggetto collettivo, permettendogli di determinare il fine della produzione stessa», GOLDONI Daniele, Il mito della trasparenza: saggi su Marx, Milano, Edizioni Unicopli, 1982, p. 8.

16 OLIVETTI Adriano, Ai lavoratori di Pozzuoli, in Città dell'uomo, Milano, Edizioni di Comunità, 1960, n. ed. 2015, pp. 121-130; discorso pronunciato il 23 aprile 1955 e inserito da Ottieri in Donnarumma all'assalto.

17 DICKENS Charles, Tempi difficili, Milano, Rizzoli, 1990, p. 85 [trad. di Hard Times, 1854].

18 ARGAN Giulio Carlo, Un napoletano fra illuminismo e marxismo, in Luigi Cosenza. L'opera completa, a cura di G. Cosenza e F.D. Moccia, Napoli, Electa, 1987, p. 22.

19 «Passo dall’interno, per il montaggio, la scala di ferro, l’officina, poi per il portico e gli atri che legano la mensa, la cucina, la biblioteca, gli spogliatoi. Questa fascia dei servizi sociali, di padiglioni snodati e uniti, di tettini piatti, pareti oblique, gialline, celesti, rosa, unisce il braccio sinistro della croce con la fascia di edifici parallela alla Statale. Si cammina lungo l’erba fragrante e tosata del giardino e la vasca a laghetto», Ottieri Ottiero, Donnarumma all'assalto, cit., p. 101.

20 BELLOTTO Adriano, La memoria del futuro. Film d'arte, film e video industriali Olivetti: 1949-1992, Città di Castello, Fondazione Adriano Olivetti, 1994, p. 202. Cfr. anche MUSATTI Riccardo, Stabilimento Olivetti in Pozzuoli, Ivrea, Ing. C. Olivetti & C. S.p.A, 1957.

21 L'ingresso di Cosenza nella cerchia olivettiana è suggellato dal medaglione, che Labò gli dedica su «Comunità» nell'autunno del 1950: LABÒ Mario, Profilo di Luigi Cosenza, «Comunità», 9, 1950, pp. 54-55.

22 BELLOTTO Adriano, La memoria del futuro, cit., p. 203.

23 ARGAN Giulio Carlo, L’architettura ragionata di Luigi Cosenza, in Luigi Cosenza. Scritti e progetti, cit., pp. 13-14.

24 Moccia Francesco Domenico, Quartiere residenziale Ina-Olivetti, in L. Cosenza, L'opera completa, cit., p. 167.

25 Donati Riccardo, Critica della trasparenza, Torino, Resenberg & Sellier, 2016, p. 14.

26 La felicità in vetrina è un racconto di Alberto Moravia inserito ne L'epidemia: racconti surreali e satirici del 1956, pp. 301-304.

27 Bloch Ernst, Il principio speranza, Milano, Garzanti, 1994, pp. 857-858 [trad. di Das Prinzip Hoffnung, 1959].

28 Ivi, p. 45.

29 Ivi, p. 38.

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