N°4 / Letteratura e lavoro in Italia. Analisi e prospettive

La denuncia della Ramondino: le voci dei “Disoccupati Organizzati”

Federica Vincenzi

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Federica Vincenzi

(Università IULM, Milano)

 

 

La denuncia della Ramondino:

le voci dei “Disoccupati Organizzati”

 

 

 

0. Introduzione

Il presente contributo si pone come obiettivo quello di recuperare e rivalutare Napoli: i disoccupati organizzati (1977), prima fatica editoriale della scrittrice Fabrizia Ramondino. Il saggio si articola in quattro parti, nelle prime due sezioni verranno toccati i temi cari alla scrittrice: l’impegno sociale e civile della Ramondino, la rappresentazione della condizione di emarginazione e di estrema povertà del proletariato precario di Napoli degli anni Settanta del secolo scorso, il Movimento dei Disoccupati Organizzati e le difficili condizioni in cui versavano le giovani donne lavoratrici. Nella parte finale della seconda sezione il saggio si propone di illustrare alcuni aspetti relativi alla tipologia testuale scelta dalla curatrice mettendo relazione, attraverso la citazione, le testimonianze dei disoccupati con le battaglie portate avanti dal Movimento dei Disoccupati Organizzati. Inoltre, nella terza sezione, si chiosano le scelte linguistiche adottate dalla Ramondino, ponendo particolare attenzione sulla scelta dell’italianizzazione del dialetto. Il saggio si conclude con una breve riflessione sul valore della riscoperta di un’opera della Ramondino, pressoché dimenticata dalla critica, che si contraddistingue per il suo realismo e la sua forza comunicativa.

 

1. L’impegno civile e sociale della giovane Fabrizia Ramondino

Il marcato impegno civile e sociale di Fabrizia Ramondino ha rappresentato una componente e una tappa fondamentale nella carriera e nella vita dell’autrice. I frutti letterari di queste esperienze sono molteplici, tra i quali sembra doveroso citare i maggiori: Napoli: i disoccupati organizzati,1 L’isola dei bambini2 e Passaggio a Trieste.3 Sebbene il libro-inchiesta Napoli: i disoccupati organizzati (1977) venga solitamente espunto dalla lista bibliografica della Ramondino, perlopiù per la tipologia testuale che incarna, esso rappresenta cronologicamente il primo contributo dell’autrice. La fama di scrittrice colta arrivò, per la Ramondino, solo qualche anno più tardi, nel 1981, ed è tuttora saldamente legata alla pubblicazione di Althénopis,4 un libro incantevole e folgorante.

Il primo periodo della produzione della Ramondino è strettamente legato all’esplorazione e all’analisi sociologica e politica del contesto in cui si trovava a vivere e a interagire. Il quadro sociale nel quale Fabrizia Ramondino operò non fu affatto dei più semplici; difatti, la Napoli degli anni Settanta del secolo scorso ribolliva ancora dei fervori rivoluzionari del 1968. La predisposizione della Ramondino a partecipare ad esperienze collettive, volte alla valorizzazione della solidarietà nel contesto sociale napoletano, emerse nel periodo adolescenziale della vita della scrittrice. Sin da giovanissima la scrittrice entrò in contatto con il gruppo sociale più debole ed emarginato della città: i proletari. Nello specifico l’autrice cercò di aiutare i figli di questi ultimi con autentica passione senza rimanere imbrigliata nella tela della retorica ideologica.5 Il ricordo di quello che lei interpretò come un rito di iniziazione, di passaggio all’età adulta, emerge con chiarezza in alcune sue pagine contenute nel capitolo L’isola dei bambini pubblicato negli ultimi due capitoli di In viaggio.6 In questa occasione la Ramondino rintracciò in un accadimento preciso il momento in cui si originò questa tensione a contribuire personalmente alla realizzazione concreta di una società più solidale e più attenta ai bisogni degli emarginati. L’autrice racconta l’episodio legato a Maria, collaboratrice domestica in casa della madre in attesa del quinto figlio, che, vedendola oziosa e annoiata, le chiese di aiutare i figli maggiori a studiare risvegliandola improvvisamente dal torpore adolescenziale che l’avviluppava:

 

Aveva ventisette anni e portava il quinto figlio – ma diceva di averne avuti sette, perché contava anche gli aborti. Faceva la serva a ore a casa di mia madre, dove avevo trovato riparo da un altro naufragio nel periplo intorno all’inospitale continente degli adulti, e Maria, vedendomi inoperosa – non si rendeva conto della mia depressione – mi chiese se volevo aiutare i suoi bambini più grandi che andavano male a scuola. Scesi così nel suo vicolo e i bambini mi salvarono dal male.7

 

La Ramondino raccontò le condizioni difficili, di estrema povertà in cui versava la famiglia di Maria e, soprattutto, parlando dell’inattività del marito Mario introduce il tema del lavoro e della sua assenza. Nella descrizione dello spoglio mobilio della stanza da lavoro emergono le condizioni di assoluta povertà delle famiglie dei proletari napoletani:

 

La stanza da lavoro di Mario era semivuota, aveva venduto persino le stoffe dei clienti, impegnato la macchina per cucire. Intorno al lungo tavolo, dove una volta tagliava gli abiti, furono portate seggiole impagliate e alcune sedie imbottite, superstiti del mobilio nuziale. La nudità della stanza, il legno grezzo del tavolo, che era servito a varie generazioni, la sua stessa destinazione al lavoro, gli sguardi dei bambini solenni e fidenti, resero i nostri primi incontri più simili per me a una celebrazione che a una lezione. Celebravo, ma non lo sapevo allora, dopo tremendi riti di iniziazione, il mio passaggio all’età adulta, che per una giovane donna una volta significava fare un bambino, per me invece fu saperlo portare in spalla.8

 

 Sin dal 1962, e per altri sei anni, la Ramondino collaborò alla realizzazione di un progetto educativo ambizioso e alternativo, modellato sul Ceis di Rimini9 e sull’esperienza di don Milani, fondando nel centro storico di Napoli, insieme ad altri operatori, l’Associazione Risveglio Napoli.10 L’esperienza educativa, iniziata con i figli di Maria, si allargò ad altri bambini e ragazzi. L’obiettivo principale dell’associazione era quello di insegnare a leggere e a scrivere ai bambini e agli analfabeti dei vicoli e delle zone periferiche di Napoli,11 mentre lo scopo più alto e nobile era quello di frenare e arginare il degrado. La necessità di organizzarsi in un’associazione nacque dallo spirito pratico di Gervasia, un’ostetrica impiegata all’Aied,12 che riuscì a raccogliere numerose donazioni, e a rendere la fondazione dell’Ars possibile.13 In quel preciso momento tra Napoli e la Ramondino si instaurò un legame saldo e intimo.14 La Ramondino si trovò, per la prima volta, a confrontarsi con una realtà più vasta e complessa. Il nome altisonante dell’associazione richiamò le attenzioni esterne e sollevò l’interesse dello Stato, il quale si presentò fisicamente nella persona di Tristano Codignola, allora Ministro della Pubblica Istruzione. La Ramondino insieme agli altri operatori dell’associazione suggerirono al Ministro alcuni provvedimenti concreti per garantire ai bambini un’istruzione; tra questi quello di offrire un sussidio alle famiglie pari al salario del minore lavoratore, al fine di sottrarre i bambini napoletani al lavoro minorile e offrirgli la possibilità di adempiere l’obbligo scolastico.15 Nonostante il Ministro non ebbe nulla da eccepire sulla bontà della proposta, essa non venne inclusa quando la legge istitutiva della scuola media unica venne varata nel 1962.

L’esperienza nell’Arn si concluse nel 1968, negli anni in cui la Ramondino vinse la cattedra di francese e si trasferì a Milano.16 La Ramondino descrisse gli anni nell’associazione avvalendosi di una metafora altamente poetica ed eloquente; quella del viaggio in nave. L’equipaggio di questa piccola e fragile imbarcazione erano i suoi collaboratori e tutti coloro che parteciparono alle attività dell’associazione. Questa metafora ricorda l’ultimo intrepido viaggio compiuto da Ulisse, quello dantesco. La ciurma della Ramondino si prefiggeva, come quella di Ulisse, la conoscenza come mèta astratta e rivendicava l’accesso democratico a questa conoscenza. La destinazione e l’approdo ultimo di questo modesto veliero era la cosiddetta “Isola dei bambini”, un luogo utopico,17 in cui il benessere e l’istruzione dei più piccoli erano tutelati e garantiti. Purtroppo, come insegna la storia, tutte le imprese utopiche si scontrano con la durezza e l’asprezza della realtà per dissolversi in essa. La Ramondino fu costretta a tornare nel continente degli adulti,18 abbandonando a malincuore le velleità utopiche e rivoluzionarie dell’Arn. Questa prima esperienza di collaborazione sociale e collettiva fu fondamentale nella vita dell’autrice; grazie ad essa la Ramondino ebbe l’opportunità di esplorare il terreno, entrando in contatto con la complessità eterogenea della società napoletana. L’interesse umano per le condizioni dei figli dei proletari e dei sottoproletari portò la Ramondino, negli anni Settanta del secolo scorso, ad interessarsi e ad avvicinarsi alla politica e ad alcuni movimenti sociali in fermentazione, nello specifico l’impegno civile e politico della Ramondino la condusse ad interessarsi della lotta del “Movimento dei Disoccupati Organizzati” ponendoli al centro della sulla attenzione.

 

2. Napoli: i “Disoccupati Organizzati”

La Ramondino fu maestra sia di scrittura, sia di impegno, e riuscì in Napoli: il movimento dei disoccupati organizzati a calibrare oculatamente sia la forza comunicativa, sia quella linguistica. La sua lingua letteraria incarna un italiano raffinato e ricercato che, nel caso di questa inchiesta sociologica, venne messo da parte in favore di un dialetto italianizzato, la lingua ufficiale di diversi proletari. Questa determinata operazione linguistica restituisce duttilità e vitalità all’inchiesta e alle storie raccontante in prima persona dai protagonisti della lotta, che riacquistano una dimensione estremamente realistica. Se la lingua letteraria della Ramondino è generalmente colta, densa e sincopata, in questa occasione la Ramondino si spoglia della sua personale lingua letteraria per indossare le vesti di intervistatrice e regista silenziosa. La scrittrice orchestra e armonizza sapientemente le voci dei protagonisti delle sue interviste, inseguendo e cercando di mordere la realtà con una narrazione asciutta, in alcuni casi cruda, dura ed essenziale. Le voci dei protagonisti sono varie e diversi sono i registri linguistici che vengono facetamente riportati dalla Ramondino che, curando quest’opera in maniera oculatamente bilanciata, tentò di dare voce e autorevolezza alle storie delle diverse anime che diedero vita alla lotta per la sopravvivenza di diverse centinaia di famiglie napoletane, cercando, attraverso di esse, di ricostruire la storia sociale e collettiva di questo gruppo.

Nelle primissime righe dell’introduzione la Ramondino definisce con estrema chiarezza l’oggetto del libro-inchiesta: «Questo libro parla non solo del movimento e della lotta dei disoccupati organizzati ma anche delle condizioni di vita generali del proletariato precario napoletano».19 La scrittrice intendeva illustrare ai suoi lettori le battaglie portate avanti dai membri del movimento dei disoccupati organizzati e le condizioni di miseria in cui versava il proletariato precario di Napoli, spiegandone, in una lunga introduzione, il complesso contesto storico e politico. I protagonisti di Napoli: il movimento dei disoccupati organizzati sono i proletari precari, la parte più consistente del proletariato di Napoli. La Ramondino cerca di dare una spiegazione al fenomeno della precarietà lavorativa e della crescente disoccupazione, individuando nel fenomeno capitalistico del decentramento dei siti di produzione sul territorio una delle ragioni scatenanti. Difatti, non appena gli operai iniziarono a maturare una coscienza di classe e ad organizzarsi le fabbriche minacciarono di chiudere. In una storia raccontata da un disoccupato del comitato Materdei l’intervistato spiega con un’espressione dialettale altamente eloquente questo fenomeno: «è la storia delle fabbriche che vanno fuggendo».20 La Ramondino ha intervistato diversi disoccupati del suddetto comitato e dalla risposta alla domanda «come è nata questa nuova lista?» si comprende l’essenza e anche l’origine del movimento dei disoccupati organizzati:

 

È nata da un’esigenza: dall’esigenza del lavoro. Questo comitato è nato perché abbiamo bisogno di lavorare. Tra l’altro pretendiamo che il lavoro è un nostro diritto, è un diritto dei lavoratori e dei cittadini, chiaramente. Come ci siamo organizzati? In modo molto semplice, ci siamo incontrati così per caso, al Collocamento, perché è un luogo di riunione; al collocamento centrale a via Marina, ci siamo incontrati tre o quattro di noi quella mattina, si comincia sempre così, dopo pochi giorni eravamo già ottocento, dopo cinque giorni già ottocento in questa lista. Perché abbiamo visto che soltanto chi si organizzava riusciva ad andare avanti, soltanto chi faceva una lotta; quelle persone cioè che non facevano la lotta, che volevano soltanto attenersi ai discorsi che portava avanti il Collocamento non ottenevano mai niente.21

 

La miseria e la disperazione ha provveduto provvidenzialmente ad unire sotto un’unica bandiera il proletariato precario di Napoli. La Ramondino nell’introduzione evidenzia come gran parte dei disoccupati di Napoli tra gli anni Sessanta e Settanta provenivano dal settore calzaturiero. Difatti, nonostante in questo periodo la produzione e soprattutto l’esportazione di scarpe aumentò notevolmente, da 33 milioni a 172 milioni,22 il numero di disoccupati nel settore calzaturiero crebbe di circa duemila unità. L’aumento della disoccupazione, in questo e in altri settori, fu determinato altresì da una riorganizzazione della produzione e dall’introduzione di nuove macchine; nel caso del suddetto settore comparve per la prima volta il nastro meccanico. Dopo il 1963 si registrarono processi di ristrutturazione in tutti i settori della produzione che comportarono una drastica diminuzione dell’occupazione. Per evidenziare la gravità della situazione lavorativa e occupazionale la Ramondino citò, come fonte autorevole, le relazioni congressuali della CGIL e, in pochi punti, riassume i mutamenti che hanno portato il tasso di disoccupazione a crescere:

 

Questa situazione si riflette nei toni preoccupati delle relazioni congressuali della CGIL, finito l’ottimismo manifestato negli anni Sessanta. Nella relazione congressuale del marzo 1965 ad esempio denunciano:

  1. la crisi definitiva di alcuni settori produttivi; comincia ad esempio a manifestarsi in tutta la sua gravità la crisi delle Manifatture Cotoniere Meridionali, un tempo una delle più grosse fabbriche del Mezzogiorno; i licenziamenti e la riduzione dell’orario raggiungono quei ritmi vertiginosi che porteranno poi alla chiusura della fabbrica di Napoli; uguale sorte avranno i pastifici;
  2. la ristrutturazione nel settore calzaturiero (a cui prima abbiamo accennato);
  3. la crisi del settore ferroviario e delle macchine utensili;
  4. la ristrutturazione e i profondi mutamenti nell’organizzazione del lavoro in una serie di aziende come l’Olivetti, i Cantieri Metallurgici di Napoli e Castellammare, la OCREN, la FIAT;
  5. la ristrutturazione generale delle aziende che porta alla scomparsa di quelle piccole e medie, in particolare nel settore alimentare, con aumento della concentrazione e del decentramento produttivi.23

 

La Ramondino, nella sua corposa introduzione, non mancò mai di inserire dati e statistiche che supportassero le sue argomentazioni. Inoltre, ella presentò i casi più significativi ed emblematici per illustrare gli effetti dei processi capitalistici sui lavoratori precari di Napoli e della relativa zona costiera. Secondo la scrittrice un caso esemplare è rappresentato da Castellammare di Stabia, uno dei centri produttivi più fiorenti negli anni Sessanta, in cui venne messo in atto il cosiddetto “nuovo modello di sviluppo”, le cui drastiche conseguenze per i lavoratori furono tangibili solo un decennio più tardi: si registrò il dimezzamento dell’occupazione. Per queste ragioni, nel novembre del 1972, Castellamare di Stabia fu teatro di lotta di numerosi disoccupati che si rifiutavano di vivere di espedienti e reclamavano il diritto al lavoro stabile. Nell’introduzione la Ramondino cita anche il caso dell’insediamento dell’Alfa Sud a Pomigliano d’Arco, che, con il suo modello di sviluppo industriale per poli, contribuì all’aumento della disoccupazione. Difatti, gli 80.000 posti di lavoro promessi, furono sono un’amara illusione per i contadini e gli operai edili che contribuirono alla realizzazione del cantiere; solo una piccola parte di essi vennero assunti. Un’altra conseguenza che la Ramondino registrò era di carattere sociale, ella individuò, tra le varie conseguenze dell’applicazione del modello capitalista, l’origine del fenomeno della gentrificazione. Gli affitti e i costi della vita nei pressi di questi centri industriali s’innalzarono vertiginosamente costringendo molti lavoratori ad emigrare. La Ramondino spiega con estrema chiarezza anche il ruolo dei mafiosi nell’aumento della precarietà a Pomigliano d’Arco:

 

Gli operai dei cantieri, ingaggiati tramite i capimafia locali, acquistano una loro autonomia politica. Essi sono sottopagati dagli appaltatori mafiosi, hanno talora abbandonato altre attività precarie e quindi non possono tornare indietro, e subiscono ogni sfruttamento perché i capimafia per spingerli ad accettare questa condizione gli hanno fatto balenare la speranza di una assunzione stabile nell’azienda, di cui si rendono garanti. Comincia invece a profilarsi per loro il licenziamento e chiedono precise garanzie per l’assunzione promessagli all’Alfa. Nel ’69 i primi licenziamenti delle imprese appaltatrici provocano la lotta e l’inserimento alla guida di questa lotta di un’organizzazione politica locale, il PCd’I-Lotta di lunga durata, a quell’epoca il gruppo più numeroso a Napoli, che stimola i già alti livelli di combattività operaia e raccoglie l’esigenza di una guida organizzativa che il sindacato si rifiutava di offrire.24

 

Questa prima forma di organizzazione riuscì a costringere il sindacato ad occuparsi dell’assunzione dei lavoratori nei cantieri dell’Alfa, che come sottolinea la Ramondino, in questo caso «otterranno una parziale vittoria». I casi di Castellammare di Stabia e di Pomigliano d’Arco rappresentano le testimonianze più significative delle lotte operarie che caratterizzarono gli anni Sessanta e Settanta nel contesto campano. La Ramondino, inoltre, individua anche nel piano regolatore della città un preciso intento politico volto inevitabilmente ad aumentare la disoccupazione a Napoli. Il suddetto piano regolatore prevedeva: lo smantellamento dei siti industriali sulla costiera napoletana per convertire la zona in area turistico-residenziale e l’espulsione del proletariato dal centro storico di Napoli, che, secondo l’autrice, rappresentava un’autentica minaccia «all’assetto borghese della città».25 Secondo la Ramondino la politica si avvalse in maniera capitalistica delle catastrofi naturali per forzare lo sgombero dei proletari dal centro storico e favorire i processi di gentrificazione. La Ramondino ravvisa anche nell’esplosione del focolaio colerico dell’agosto del 1973 un uso strumentale del colera da parte dell’amministrazione politica, che colse l’occasione per sgomberare, bonificare e ristrutturare il centro storico di Napoli e le zone costiere abitati da proletari. Nella lotta contro il colera la Ramondino individua l’origine embrionale del Movimento dei Disoccupati Organizzati:

 

Ma è dalla lotta contro il colera che nascono decine di comitati di quartiere e gli embrioni del movimento dei disoccupati organizzati. La popolazione infatti chiede la bonifica della città, soprattutto delle fogne. Alla pressione della popolazione e dei disoccupati si risponde con l’istituzione dei cantieri di lavoro per la bonifica delle fogne, e con dei corsi di formazione per lavoratori specializzati.26

 

Nel 1974 in uno di questi comitati, quello di Vico Cinquesanti a San Lorenzo, iniziarono ad incontrarsi i primi disoccupati che, guidati da alcuni militanti del PCd’I-Nuova Unità, diedero origine al Movimento dei Disoccupati Organizzati. Il movimento manifestò tutta sua forza politica nel maggio del 1975, allorché i disoccupati occuparono l’ufficio dell’anagrafe di piazza Dante. Tutti i disoccupati del movimento erano concordi nel rifiuto del lavoro precario, del conseguente sfruttamento che ne derivava, e soprattutto si prefiggevano come punto programmatico il controllo del collocamento. I disoccupati volevano che fosse eliminata la chiamata diretta, molto spesso controllata dalla mafia o dal clientelismo politico, e che tutti i posti di lavoro passassero per il collocamento. Inoltre, i disoccupati volevano che s’interrompesse la pratica della compravendita del posto di lavoro che, come sottolinea la Ramondino: «costava – e costa – dal mezzo milione ai quattro milioni!».27 L’ultimo punto del programma dei disoccupati riguardava la garanzia statale all’assistenza medica dei disoccupati e delle loro famiglie.

  Le manifestazioni di protesta dei disoccupati organizzati furono molteplici: organizzarono cortei che bloccarono simultaneamente per diverse ore il traffico in diversi punti della città, occuparono enti e edifici statali, e, in queste occasioni, ci furono scontri diretti con le forze dell’ordine che provocarono numerosi arresti. Per spiegare il cosiddetto “sciopero al rovescio” i disoccupati addussero come motivazione il fatto che, dal momento che non erano assunti in fabbrica, la strada rappresentava il loro luogo d’impiego e pertanto invece di bloccare la produzione, come avviene in un normale sciopero, loro bloccavano le strade. Ogni comitato del movimento era rappresentato e coordinato da un delegato e da un direttivo cittadino, i quali trattavano in prima persona con la controparte durante le manifestazioni di protesta. Per guadagnare maggiore forza politica i disoccupati organizzati cercarono di costruirsi una rete di alleanze, trovando sostegno principalmente tra gli studenti e gli operai; a questi ultimi veniva richiesto di lottare uniti con i disoccupati e di rifiutarsi di fare gli straordinari, ma, come sottolinea la Ramondino, il loro atteggiamento verso i colleghi occupati era duplice: «a volte si sentono inferiori a loro, a volte si sentono superiori per la loro maggiore capacità di lotta».28 Mentre i rapporti dei disoccupati organizzati con il PCI e con i sindacati sono stati difficili e travagliati. I sindacati lamentavano che questa tipologia di organizzazione delle masse si fosse formato al di fuori della linea delle organizzazioni sindacali e, pertanto, accusarono i disoccupati di voler rafforzare il mercato nero delle braccia. Le accuse che vennero mosse dai sindacati al Movimento rappresentavano i punti di forza contro i quali combattevano i disoccupati. I punti cruciali sui quali i disoccupati discussero, s’interrogarono e si divisero riguardavano le posizioni da assumere nei confronti dei sindacati e della sinistra storica. Durante le loro assise si delinearono due linee di pensiero, come sottolinea la Ramondino, che si originarono dalle seguenti questioni:

 

Ci si può aspettare qualcosa dalle autorità o solo da una dura lotta? Bisogna affidarsi ai sindacati o soprattutto alla propria autonomia? Bisogna cioè contare sugli altri o solo sulle proprie forze? Bisogna delegare molto creando così dei capipopolo o dei burocrati del movimento o delegare e farsi delegare il meno possibile? Bisogna contentarsi di piccole vittorie, a livello quantitativo e qualitativo, o aspirare a grandi vittorie, come l’ottenimento per tutti del posto stabile e sicuro, e non allontanarsi dalla lotta quando si è ottenuto il posto precario in un cantiere di restauro? […] Bisogna allargare il fronte delle alleanze o no?29

 

Questi sono stati gli argomenti principali che hanno animato la discussione all’interno del Movimento dei Disoccupati Organizzati. La Ramondino, nel suo libro-inchiesta, manifesta l’intenzione di voler preservare gli elementi di forte contraddizione all’interno del Movimento dei Disoccupati Organizzati; mettendo in rilievo, per l'appunto, il rapporto tra i disoccupati e gli operai occupati, tra le diverse linee e idee politiche all’interno del movimento, tra i delegati e chi invece non voleva essere delegato, denunciando tradimenti e la corruzione mafiosa all’interno di alcuni gruppi e soprattutto introducendo la questione di genere, cogliendo le contraddizioni esplicite tra uomini e donne:

 

 Un’altra contraddizione esplicita è quella tra uomini e donne: certo non è bello che dei disoccupati chiamino puttana una donna solo perché va alle riunioni e ai cortei e la invitino per questo solo fatto a convegni amorosi o si rifiutino di farla partecipare alle trattative con le autorità. Queste posizioni vanno abbattute. Ma non con i metodi con cui si trattano i nemici.30

 

Persiste nei disoccupati del movimento l’idea che le donne, in quanto tali, non fossero né predisposte né adatte alla lotta. Questo atteggiamento, perlopiù maschilista e sessista, attinge alle vecchie concezioni che prevedevano che la donna dovesse badare esclusivamente alla prole e alle faccende domestiche. Inoltre, la Ramondino sottolinea come la situazione della donna sia stata strumentalizzata dalla borghesia per dividere e sfruttare meglio il proletariato. Nel racconto dal titolo Il movimento delle disoccupate organizzate emerge la durissima testimonianza di Elvira, una compagna del comitato di Montecalvario, che affronta il discorso delle difficili condizioni di lavoro e lo sfruttamento a cui erano sottoposte le donne:

 

Vedi, io avevo un esaurimento così forte che pesavo trentotto chili; ti basti dire: diciannove anni e trentotto chili. Lavoravo con mio cugino questi maledetti calzoni che vedi, allora avvenne che le ragazze che stavano da lui se ne andarono tutte quante; mo’ giustamente rimase solo lui, allora gli facevamo il lavoro io e una mia cugina. Dieci pantaloni al giorno! Ci metto i passanti, poi ci metto questo dentro, lo rivesto, poi ci metto, vedi, il pezzo qua, lo rivesto, poi ci faccio il buco qua sopra per l’apertura. […] Allora mi fa vicino a me: “Devi fare dieci pantaloni al giorno”, io abitualmente ne faccio cinque, sei. […] Ogni pantalone mille lire. Tutto quel lavoro, e poi fare i servizi a mia madre, mi venne un esaurimento che, ti dico, proprio non ce la facevo più.31

 

Per quanto riguarda la condizione di subalternità della donna nei confronti degli uomini Elvira, dichiarandosi apertamente femminista, ci tenne a precisare che, sebbene il contesto rimanesse prevalentemente ostile alle istanze di cambiamento e di ammodernamento culturale, iniziarono ad emergere sentimenti di riscossa e ribellione e, nelle giovani napoletane come Elvira, si fece strada il desiderio di uguaglianza sociale:

 

Io ritengo che per esempio ti potrei parlare a livello di una femminista. La donna, per esempio, per le persone antiche come sono rimaste qua deve fare la mamma, la figlia, la moglie e basta; politica non ne deve fare, per esempio in mezzo a queste cose non ci deve stare, quell’altro non lo deve fare, insomma a un certo punto io mi dovrei rendere schiava, io questo non lo voglio, non voglio assolutamente essere schiava di una persona, cioè he lui mi deve utilizzare a me come gli pare e piace. No!32

 

Le storie raccontate dai disoccupati organizzati sono prevalentemente storie di sofferenza, di povertà, di condivisione di una sorte comune e soprattutto di lotta. Nelle interviste, soprattutto in quelle singole, emerge quella che la Ramondino definiva la «prepotente soggettività dei disoccupati intervistati».33 Le storie raccontate si concentrano soprattutto sulle dure condizioni di lavoro a cui erano disperatamente sottoposti i disoccupati. In alcune interviste emerge la denuncia, da parte di alcuni membri del movimento, del lavoro in nero e del lavoro minorile nelle fabbriche. Come sottolinea in una testimonianza un disoccupato:

 

Ho faticato venti giorni e il padrone della fabbrica nostra ha chiuso proprio. […] Non paga i contributi e niente a noi ci scaricano, ci mettono in cassa integrazione, chiamiamola cassa integrazione, ottocento lire al giorno, sarebbe cassa integrazione se quelli fossero industriali, ma quelli sono… tengono ottanta operai ma ne dichiarano cinque, […] E là ci sono più bambini che grandi, tutti di età sotto i 14 anni, gente che a scuola non ci va proprio. L’ultima la più piccerella non vi dico, ha otto anni, le danno tremila lire alla settimana.34

 

In altri racconti come quello di Salvatore Simeone, soffiatore di vetro licenziato dopo diciotto anni di lavoro, si percepisce chiaramente che le fabbriche erano luoghi in cui illegalità veniva continuamente e sistematicamente perpetrata a danno della salute e dei diritti dei lavoratori. Come si evince dal testo i lavoratori precari erano costretti ad accettare queste condizioni perché i datori di lavoro erano avvezzi ad usare il lavoro come arma di ricatto. Nella testimonianza di Salvatore emerge tutta la drammaticità di questa condizione e le difficoltà che i lavoratori incontravano:

 

E in quello stabilimento c’erano tutti i rischi nocivi alla salute, cioè residui di gas, un forno che produceva trenta quaranta gradi di calore e ti mettono a lavorare a due metri di distanza, specialmente quando è estate, come si fa a sopportare quel calore?, il fisico non ce la può fare. E poi ci accusano di assenteismo, l’assenteismo che viene proprio per forza maggiore perché il fisico nostro può resistere un giorno, due, una settimana, quindici giorni, ma poi viene il momento che non so, ti viene una bronchite, perché mentre stai tutto sudato, per forza maggiore vuoi prendere un po’ d’aria e vieni colpito da raffiche di vento. Questo perché? perché il padrone costruisce lo stabilimento come fa comodo a lui, non come potrebbe far comodo all’operaio che ci deve lavorare dentro e il padrone fa un solo discorso: l’operaio mi deve produrre, poi me ne frego se muore […].35

 

In questo libro-inchiesta, grazie alle testimonianze dirette di alcuni disoccupati, la Ramondino riuscì a dare voce agli emarginati, a ricostruire la storia del singolo all’interno di un movimento le cui lotte portarono a limitati successi nazionali. La Ramondino riuscì, attraverso questo progetto ambizioso, a restituire dignità a storie di intima e profonda sofferenza costruendo appositamente una lingua che potesse essere compresa e condivisa sul territorio nazionale. Le descrizioni delle lotte dei lavoratori precari, e le loro deboli testimonianze, si intrecciano e confluiscono nella macro-storia delle lotte nazionali per il diritto all’occupazione, per il rispetto delle tutele lavorative e per il superamento dell’annosa questione della disuguaglianza di genere che attraversarono l’intero Paese tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.

 

3. La rappresentazione e la questione della lingua

Il libro della Ramondino raccoglie in quindici capitoli altrettante storie. In alcuni casi si tratta di interviste singole, mentre in altri si tratta di interviste aperte a tutti i membri di un comitato specifico o di interventi scritti direttamente da alcuni disoccupati.36 Dalla testimonianza della curatrice di quest’opera, in questo libro-intervista, si registrano due fenomeni linguistici particolarmente frequenti nelle conversazioni registrate e poi trascritte: il code switching, un passaggio non programmato dalla lingua al dialetto o viceversa, e quello del code mixing, in cui, nella conversazione, parole dialettali entrano e si mescolano all’italiano.37 Si ha dunque un’alternanza e una mescolanza vera e propria di codici linguistici, ciò sembrerebbe confermare che l’italiano e il dialetto, nella Napoli del ’77, convivevano in una situazione di complementarità linguistica nelle classi sociali meno abbienti. Il dialetto napoletano viene utilizzato dai disoccupati come uno strumento prezioso per ampliare ed arricchire il quadro delle opportunità espressive e funzionali e ciò che ne deriva è, nella maggior parte dei casi, il fenomeno della convergenza linguistica.

La penna della Ramondino è intervenuta, in alcuni casi, nella “italianizzazione” di alcune interviste; la curatrice sottolinea che il dialetto era la lingua in cui erano state condotte la maggior parte delle interviste registrate col magnetofono. Questo processo linguistico di “italianizzazione”, e, in alcuni casi, di traduzione integrale delle interviste venne accuratamente spiegato in una nota dalla Ramondino:

 

I testi scritti non hanno subito modifiche. I testi “tradotti” quasi integralmente sono quelli di Giuseppe (cap. 3), Elvira (cap. 6), il cap. 11, gran parte del capitolo 14. Più che tradurre abbiamo italianizzato i testi cioè mantenuto in gran parte le struttura sintattica, i modismi, l’uso particolare di vocaboli simili a quelli italiani; abbiamo poi lasciato in dialetto vocaboli di difficilmente traducibili o particolarmente espressivi, auspicando che contribuiscano ad arricchire la nostra koiné (la traduzione è in nota).38

 

La questione linguistica posta dalla Ramondino è di grande rilevanza. Nei confronti degli intervistati e dei lettori la Ramondino si pone in qualità mediatrice linguistica nel traghettare i significati da una sponda all’altra. Italianizzando i testi la Ramondino ha reso accessibile l’esperienza dei disoccupati organizzati ai lettori di tutta la penisola. Un libro di interviste integralmente in dialetto, con ogni probabilità, non avrebbe avuto la medesima risonanza: la limitata accessibilità del testo lo avrebbe relegato e confinato all’esclusiva fruizione regionale. La Ramondino ha conservato “i modismi” traducendoli in italiano, rendendo il testo esperibile in un contesto allargato, nazionale, senza però eliminare la forza comunicativa e le caratterizzazioni linguistiche e sintattiche che ne contraddistinguono la specificità regionale. Vi è in questo libro una vera e propria contaminazione tra italiano e dialetto e, come sottolinea la Ramondino, è la lingua italiana, seppure caratterizzata da errori, a prevalere:

 

Nonostante le molte pagine in dialetto nelle interviste orali, molte locuzioni dialettali e molte contaminazioni tra italiano e dialetto (di cui la più tipica è il ricorrente “Se io vorrei, farei, mentre in dialetto si direbbe “s’i vulesse, facesse”), è la lingua nazionale, pur tra molti “errori”, che domina tanto nei racconti orali che nei tre interventi scritti. […] Verso il dialetto i disoccupati non hanno né vergogna né fierezza e verso la lingua nazionale non hanno né arrivismo né disprezzo.39

 

Il pericolo sventato dalla sapiente abilità della Ramondino era quello di costruire una lingua affettata, totalmente artificiale che provocasse un effetto di straniamento; che creasse un distacco e una distanza incolmabile tra l’opera e la realtà oggettiva dei disoccupati organizzati. Secondo la Ramondino l’italiano e il dialetto, nel contesto napoletano degli anni Settanta, convivevano in una situazione di diglossia; vi era un continuo fluire da una lingua all’altra senza provocare attrito.

Sembra calzante, in questa occasione, la riflessione di Camilleri sul rapporto tra italiano e dialetto, difatti egli, riprendendo il concetto pirandelliano, esplora il rapporto tra sentimento e il concetto: «Il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto».40 Quelle che la Ramondino registra sono confidenze intime, indicibili, in cui il sentimento e il dialetto prevalgono, ma nel momento in cui i disoccupati si riferiscono alla lotta e alla sua importanza nazionale subentra l’italiano, la lingua ufficiale della lotta di tutti i disoccupati.

Sebbene la realtà linguistica riportata dalla Ramondino sia essenzialmente edulcorata e attentamente manipolata, la fedeltà della curatrice viene riposta nella dura e spoglia trasposizione di storie personali, scevra di un qualsiasi ornamento linguistico che ne abbellisca inutilmente la forma estetica della narrazione. Grazie a questa operazione la Ramondino è riuscita a rimanere fedele, se non alla forma, quantomeno alle storie che ha scelto di riportare.

 

4. Conclusioni

Il problema della disoccupazione a quarant’anni dalla pubblicazione di Napoli: i disoccupati organizzati è un problema particolarmente sentito, soprattutto dai giovani lavoratori italiani. Sebbene le condizioni di lavoro siano inesorabilmente cambiate, a favore dei lavoratori, le forme di sfruttamento sono diventate più subdole e sottili. Non è un caso che, per la sua attualità, l’opera della Ramondino sia stata riedita nel 1998 da Argo in una nuova versione dal titolo Ci dicevano analfabeti il movimento dei disoccupati organizzati.41 Come sottolinea Laura Rorato, in questo nuovo titolo scompare la distanza tra il lettore e le storie dei disoccupati:

 

Scompare il tono neutro e distaccato del titolo originale. Il pronome “ci” in Ci dicevano analfabeti fa sì che la voce dei disoccupati emerga fin dal titolo e che la coralità dell’opera venga maggiormente sottolineata. Serve inoltre a rendere partecipe il lettore e a generare in lui un sentimento di solidarietà.42

 

La Ramondino, modificando il titolo, annulla definitivamente la distanza tra il lettore, la curatrice e i protagonisti delle interviste. Attraverso la Ramondino ci sono pervenute le voci e le testimonianze dei disoccupati, degli emarginati e degli ultimi43. Queste voci raccontano la storia di una classe sociale dimenticata che, nonostante fosse posta ai margini dell’esistenza, ha trovato nei valori della solidarietà e della fratellanza la forza di reagire e di lottare per la rivendicazione dei propri diritti. La modalità dell’intervista e la scelta di italianizzare il testo conferiscono solennità e dignità alle voci di coloro che le confidarono storie di amarezza e afflizione.

Nei suoi libri più impegnati la Ramondino si è sempre esposta, facendosi da tramite, cercando di raccontare ciò che per definizione è indicibile ed è solo esperibile: la sofferenza dei più deboli. Nei suoi tentativi di raccontare il dolore e la sofferenza la Ramondino non si pose mai al centro, bensì di fianco, assumendosi la piena responsabilità delle storie altrui e trasformando la sua penna in un mezzo necessario per diffondere consapevolezza e conoscenza delle lotte intraprese dagli ultimi. La forza comunicativa della Ramondino è inequivocabilmente eloquente, anche perché la scrittrice rimase sempre umilmente conscia nel riconoscere che esiste una distanza incolmabile tra vivere la sofferenza e raccontarla attraverso le parole.

 

 

Bibliografia

 

CAMILLERI Andrea e DE MAURO Tullio, La lingua batte dove il dente vuole, Roma, Editori Laterza, 2014.

DE MAURO Tulio, Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai giorni nostri, Roma, Editori Laterza, 2017.

RAMONDINO Fabrizia, Althénopis, Torino, Einaudi, 1981.

RAMONDINO Fabrizia, In viaggio, Torino, Einaudi, 1995.

RAMONDINO Fabrizia, L'isola dei bambini, Milano, e/o, 1998.

RAMONDINO Fabrizia, Napoli: i disoccupati organizzati. I protagonisti si raccontano, Milano, Feltrinelli, 1977. Nuova edizione: Ci dicevano analfabeti: il movimento dei disoccupati napoletani degli anni '70, Lecce, Argo, 1988.

RAMONDINO Fabrizia, Passaggio a Trieste, Torino, Einaudi, 2000.

RAMONDINO Fabrizia, Questi vetruzzi finiti sulla spiaggia mi sembrano tante vite umane, chissà da dove vengono… Intervista di Franco Sepe a Fabrizia Ramondino, in «Nuovi Argomenti», XLIII/2008, Generi Coloniali, Milano, Mondadori, pp. 34-45.

RORATO Laura, Fabrizia Ramondino, Caravaggio e i quartieri di Napoli: Alla maniera delle Sette opere di Misericordia di Michelangelo da Caravaggio, in «Testi e Studi di Letteratura Italiana», XIII/2013, «Non sto quindi a Napoli sicura di casa» Identità, spazio e testualità in Fabrizia Ramondino, Perugia, Morlacchi Editore U.P., pp. 180-181.

ROSSI-DORIA Marco, “Introduzione”, in L’isola dei bambini, Milano, e/o, 1998, pp. 9-13.

SEPE Franco, Fabrizia Ramondino. Rimemorazione e viaggio, Napoli, Liguori, 2010.

 

1 Fabrizia RAMONDINO, Napoli: i disoccupati organizzati. I protagonisti si raccontano, Milano, Feltrinelli, 1977.

2 Fabrizia RAMONDINO, L’isola dei bambini [1995],Milano, e/o, 1998.

3 Fabrizia RAMONDINO, Passaggio a Trieste, Torino, Einaudi, 2000.

4 Fabrizia RAMONDINO, Althénopis [1981], Torino, Einaudi, 2016.

5 «Come donna, come persona, come napoletana sono stata sempre impegnata nella questione sociale, poco dal punto di vista ideologico molto a livello concreto». Fabrizia RAMONDINO, Questi vetruzzi finiti sulla spiaggia mi sembrano tante vite umane, chissà da dove vengono… Intervista di Franco Sepe a Fabrizia Ramondino, in «Nuovi Argomenti», XLIII/2008, Generi Coloniali, Mondadori, Milano, p. 36.

6 Fabrizia RAMONDINO, In viaggio, Torino, Einaudi, 1995.

7 Ivi, p.135.

8 Ivi, pp. 135-136.

9 «A monte di questa esperienza vi è la formazione intrapresa dalla giovane Fabrizia presso il Ceis di Rimini, l’asilo italo-svizzero fondato da Margherita Zöbeli, i cui metodi pedagogici avanguardistici ella cercherà, nell’Italia cattolica del dopoguerra, insieme ad altri venticinque-trenta operatori, di applicare nel lavoro con i Bambini di Torre a Quarto e della Pigna […]» Franco SEPE, Fabrizia Ramondino rimemorazione e viaggio, Napoli, Liguori, 2010, p. 42.

10 «Con i bambini della Torre a Quarto e della Pigna, Fabrizia ha lavorato ogni giorno dalle nove di mattina alle quattro del pomeriggio, per sei anni, prendendo dalla vita gli argomenti per aprire con i ragazzi le vie del sapere come aveva visto fare al Ceis, andando con loro in giro con emozione, fermandosi poi in una stanza semivuota qualsiasi o nelle sezioni del Partito socialista ad ascoltare, dire, considerare e a dare ordine alle scoperte e ai ritrovamenti». Marco Rossi-Doria, Introduzione, in L’isola dei bambini [1995], Milano, e/o, 1998, p. 7.

11 «Le iniziative dell’Arn prevedevano una scuola d’infanzia a pieno tempo – né “giardino d’infanzia” né “scuola materna” andavano bene, tanto meno “asilo”; la gente del quartiere usò il termine “intrattenimento” –, una scuola serale per lavoratori di preparazione alla licenza media e un’inchiesta nel quartiere – socio-antropo-etnologica». Fabrizia RAMONDINO, In viaggio, cit., p. 145.

12 Associazione italiana per l’educazione demografica.

13 Cfr. Fabrizia RAMONDINO, In viaggio, cit., pp. 137-138.

14 «È questo, per la Ramondino, un momento in cui il legame con la sua città diventa più vincolante, a tratti quasi esclusivo» in Franco SEPE, Fabrizia Ramondino. Rimemorazione e viaggio, Napoli, Liguori, 2010, p. 59.

15 Cfr. Fabrizia RAMONDINO, In viaggio, cit., p. 138.

16 Cfr. Fabrizia RAMONDINO, Questi vetruzzi finiti sulla spiaggia mi sembrano tante vite umane, chissà da dove vengono… Intervista di Franco Sepe a Fabrizia Ramondino, cit., p. 44.

17 «Il disparato equipaggio del nostro veliero […] era assai diverso dalla gente di terra: nel lavoro, ché ogni disaffezione, trascuratezza, errore avrebbe provocato serie avarie o il naufragio; nella personalità stessa dei singoli, ché non si sceglie quella vita se non per un oscuro richiamo – insofferenza per la terraferma, fuga dalle sue ipocrisie, consapevolezza di come gli uomini di terra l’hanno ridotta male, spirito d’avventura, ricerca di forme di vita essenziali, infine nella accusa stessa rivoltaci dai nostri denigratori: “Siete come un guscio di noce nel mare!” – e per mare intendevano il male di Napoli – e nella meta stessa della nostra navigazione, l’isola di Utopia. Vi navigavamo infatti ben consapevoli che la critica maggiore rivolta all’utopia, quella di fondarsi sui presupposti di un’ideologia della povertà, era caduta da sé, anche nel sud, in quegli anni detti del boom economico». Fabrizia RAMONDINO, In viaggio, cit., p. 147.

18 Ivi, p. 167.

19 Fabrizia RAMONDINO, Napoli: i disoccupati organizzati. I protagonisti si raccontano, cit., p. 9.

20 Ivi, p. 10.

21 Ivi, pp. 243-244.

22 Ivi, p. 12.

23 Ivi, pp.13-14.

24 Ivi, pp. 15-16.

25 Ivi, p. 17.

26 Ivi, pp. 17-18.

27 Ivi, p. 20.

28 Ivi, p. 22.

29 Ivi, pp. 27-28.

30 Ivi, p. 29.

31 Ivi, p. 151.

32 Ivi, pp. 152-153.

33 Ivi, p. 31.

34 Ivi. p. 248.

35 Ivi, pp. 85-86.

36 Sono le storie raccontate da Scialone, Elisa e “il letterato” rispettivamente nei capitoli quinto, sesto e tredicesimo.

37 Cfr. Tullio DE MAURO, Storia linguistica dell’Italia repubblicana dal 1946 ai giorni nostri [2014], Roma, Laterza, 2017, p. 119.

38 Fabrizia RAMONDINO, Napoli: i disoccupati organizzati. I protagonisti si raccontano, op. cit., p. 30.

39 Ivi, p. 38.

40 Andrea CAMILLERI e Tullio DE MAURO, La lingua batte dove il dente vuole, Roma, Laterza, 2014, p. 5.

41 Fabrizia RAMONDINO, Ci dicevano analfabeti il movimento dei disoccupati organizzati, [1977], Lecce, Argo, 1998.

42 Laura RORATO, Fabrizia Ramondino, Caravaggio e i quartieri di Napoli: Alla maniera delle Sette opere di Misericordia di Michelangelo da Caravaggio, in «Testi e Studi di Letteratura Italiana», XIII/2013, «Non sto quindi a Napoli sicura di casa» Identità, spazio e testualità in Fabrizia Ramondino, Perugia, Morlacchi Editore U.P., pp. 180-181.

43 Non è un caso che l’esergo del libro del ’77 fosse di Mao Tze Tung «gli ultimi saranno i primi», che, come sottolinea la Ramondino nella nuova introduzione a Ci dicevano analfabeti il movimento dei disoccupati organizzati: «Naturalmente io sapevo che non si trattava di una citazione del Vangelo. E se Mao non lo era, lui che era di tutt’altra cultura, significa non solo che il Vangelo ha un valore universale». Fabrizia RAMONDINO, Ci dicevano analfabeti: il movimento dei disoccupati organizzati, cit., p. 8.

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