N°4 / Letteratura e lavoro in Italia. Analisi e prospettive

Indagine sul «mondo imposseduto»: letteratura e industria nel «menabò» di Vittorini e Calvino

Silvia Cavalli

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Silvia Cavalli

(Università Cattolica di Milano)

 

Indagine sul «mondo imposseduto»:

letteratura e industria nel «menabò»

di Vittorini e Calvino

 

 

1. Provocare il romanzo di fabbrica

Industria e letteratura, pubblicato nel 1961 sul «menabò 4», è forse il più noto degli scritti di Elio Vittorini apparsi sulla rivista da lui diretta insieme a Italo Calvino tra il 1959 e il 1967. Le ragioni sono facilmente intuibili: provocatorio e non disposto a concedere mediazioni, propugna un’idea di letteratura strettamente personale, sulla cui base vengono valutati i romanzi contemporanei che dialogano con il mondo delle fabbriche. Sostituendosi all’editoriale, il saggio segna inoltre la cifra interpretativa non solo del fascicolo, ma – se letto nella corretta prospettiva critica – dell’intera rivista.1

Le premesse del discorso risalgono alla stagione dei “Gettoni” (1951-1958), la collana einaudiana rispetto alla quale «il menabò» si pone come una sorta di prosecuzione e ampliamento, soprattutto per quanto concerne lo spazio dedicato al dibattito critico. Proprio all’interno della collezione, nel 1957, vengono pubblicati Tempi stretti di Ottiero Ottieri e Gymkhana-Cross di Luigi Davì, due libri che anticipano la svolta del decennio successivo e sono complementari rispetto alla linea testimoniale rappresentata nella serie da altri volumi quali Sagapò di Renzo Biasion oppure Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern (entrambi del 1953).2 Queste considerazioni inducono a ipotizzare che, nel passaggio tra i Cinquanta e i Sessanta, Vittorini concentri la propria attenzione, in maniera graduale ma decisa, verso testi che documentano i cambiamenti della società nelle loro ripercussioni morali, affettive e psicologiche sugli individui.

La scelta di accogliere Il calzolaio di Vigevano di Lucio Mastronardi nel «menabò 1» (1959), così come quella di includere La ragazza Carla di Elio Pagliarani nel secondo numero della rivista (1960), risponde alla medesima esigenza di rinnovamento dei contenuti letterari, perseguita da Vittorini tanto in sede critica quanto sul versante creativo, attraverso la riscrittura di un’opera come Le donne di Messina (la seconda edizione esce infatti da Bompiani nel 1964, a quindici anni di distanza dalla princeps).3 Alla radice vi è un’istanza di carattere formale: la richiesta di adeguare l’espressione dei contenuti alla rappresentazione del mutato contesto socio-culturale. Nel caso del poemetto di Pagliarani, per esempio, il segretario di redazione Raffaele Crovi (in un appunto autografo conservato tra i materiali dell’Archivio Einaudi) parla sì della «poesia di una ragazza povera, che studia da dattilografa per migliorare la propria vita» sullo sfondo di «una Milano, non soltanto di periferia, abitata da personaggi popolari», ma lo spettro degli interessi risulta notevolmente dilatato rispetto alla sola descrizione d’ambiente: «Il pericolo di un tono crepuscolare (che pure è avvertibile) Pagliarani lo combatte sul piano del linguaggio: addirittura del “montaggio” del racconto poetico».4 È solo all’interno della Notizia sull’autore pubblicata nel «menabò 2» che si manifesta uno scarto dal piano formale a quello contenutistico e la novità della Ragazza Carla viene identificata nel «lavoro forzato (da “minatori”)» al quale anche l’impiegato è costretto5 o, per dirla con un sintagma vittoriniano, nella «catena di effetti che il mondo delle fabbriche mette in moto», sconvolgendo il lavoro e la vita in una grande città industriale.6

Con la presentazione di Pagliarani si sceglie quindi di giocare d’anticipo non tanto sull’apertura alle contaminazioni stilistiche che saranno tipiche della neoavanguardia (rappresentate dall’andamento prosastico dei versi di Pagliarani), bensì su alcuni dei temi salienti del «menabò 4», a cominciare dal concetto di ‘alienazione’, non ancora nominato nel secondo fascicolo, ma al centro di una delle poesie pubblicate da Giovanni Giudici nel numero del 19617 e in seguito oggetto di una discussione protrattasi sulle pagine della rivista fino al 1963 (grazie a un intervento di Umberto Eco).8 Nella Ragazza Carla l’alienazione si combina con un effetto straniante come si ritroverà, qualche anno dopo, solo nella Vita agra di Luciano Bianciardi (uscita da Rizzoli nel 1962). A differenza degli altri autori inclusi nel «menabò 2» (Camillo Pennati e gli ex collaboratori di «Officina» Roberto Roversi, Paolo Volponi e Francesco Leonetti, ancora lontani da qualsiasi implicazione industriale),9 Pagliarani dimostra di avere accettato il confronto con il tempo presente e, insieme a Mastronardi, contribuisce a porre le basi per la riflessione sul rapporto tra letteratura e realtà che diventerà la chiave di lettura predominante nel «menabò».

Nel dibattito che Vittorini porta avanti su più fronti, Il calzolaio di Vigevano gioca un ruolo decisivo. Al culmine della discussione sull’uso dei dialetti in letteratura, avviata nel «menabò 1» e proseguita nei due fascicoli successivi, il direttore della testata afferma senza mezzi termini:

 

I dialetti che sarebbe desiderabile di veder entrare nelle elaborazioni linguistiche della letteratura dei giovani sono, a mio giudizio, i padani, i settentrionali che già risentono della civiltà industriale, e lo straordinario gergo di formazione recente in cui si parlano e s’intendono, nelle grandi città del nord, milanesi ed immigrati meridionali, torinesi ed immigrati meridionali, genovesi ed immigrati meridionali, ecc., ecc.10

 

È l’elogio di una lingua duttile, in grado di riprodurre le mescolanze di dialetti che nelle periferie industriali del Nord Italia costituiscono una nuova forma di comunicazione, una sorta di lingua franca – quasi un esperanto della civiltà industriale –, prodotta dai movimenti migratori degli anni Cinquanta. A un testo come I giorni della fera di Stefano D’Arrigo (pubblicato proprio nel «menabò 3», 1960), Vittorini preferisce la letteratura d’ambientazione cittadina e industriale e si dichiara apertamente a favore delle scritture che raccontano il mondo delle fabbriche. Evidentemente sta pensando a Mastronardi e al suo racconto antropologico sul passaggio dal mondo artigiano a quello industriale, ma col pensiero precorre negli esiti l’ultimo romanzo dello scrittore lombardo, Il meridionale di Vigevano, che sarà pubblicato da Einaudi nel 1964 a conclusione della trilogia sulla sua città natale ed è forse l’esempio più rappresentativo delle metamorfosi prodotte dall’arrivo della civiltà del benessere. Solo quando la lingua è in grado di farsi strumento per la rappresentazione del cambiamento della società, dell’economia, dei processi produttivi essa diventa degna d’essere registrata nelle pagine letterarie.11

Qualcosa di analogo avviene nei confronti di Davì. Sin dalla stagione dei “Gettoni”, Calvino (suo interlocutore privilegiato all’interno dell’Einaudi) si dimostra incuriosito dalle qualità narrative dell’operaio-scrittore più che dal contenuto industriale dei suoi racconti e a più riprese ne sottolinea la «vivacità gergale e guappesca di periferia». L’interesse è catalizzato da elementi di «“folclore industriale”» solo quando questi esulano dall’ambito di fabbrica o politico-sindacale per concentrarsi sulla dimensione della vita nei sobborghi torinesi alle prese con l’arrivo improvviso del benessere12: «Parlare di lotte sindacali», scrive nel 1957, «già vorrebbe dire far entrare un linguaggio diverso dal suo solito gergo. E qui si tocca il vero problema del realismo d’oggi (o di sempre): la realtà è fatta di linguaggi diversi che si scontrano e si mescolano».13 Per Calvino quindi l’interesse per i capannoni di produzione si traduce in un fascino di tipo stilistico più che tematico e si appunta sulle espressioni gergali, mimetiche di un ambiente. La differenza con la posizione di Vittorini, però, è radicale: mentre per lo scrittore siciliano è un problema di rappresentazione del mondo industriale (come gli scrittori descrivono le fabbriche e con quali strumenti narrativi; in quest’ottica la mescidazione con i dialetti dell’Italia settentrionale è una delle tecniche per rendere più evidenti le trasformazioni socio-culturali), per Calvino l’oggetto della narrazione risulta abbastanza indifferente, ma rimane l’attenzione alle modalità stilistiche del racconto. Volendo semplificare attraverso l’uso di formule, se Vittorini guarda alle forme nuove per rappresentare i contenuti nuovi, Calvino è interessato alle forme nuove anche e soprattutto, si potrebbe dire, quando il contenuto nuovo non è. Del resto, all’altezza del 1961, per Calvino «il romanzo non può più pretendere d’informarci su come è fatto il mondo; deve e può scoprire però il modo, i mille, i centomila nuovi modi in cui si configura il nostro inserimento nel mondo».14 La novità si trasferisce cioè dal piano di ciò che è narrato alla forma assunta dalla narrazione stessa.

 

2. Codici della modernità

Che la «tematica industriale» – per usare il titolo di un intervento di Calvino sul «menabò 5»15 – non sia al centro della questione come argomento in sé è documentato da una lettera a Vittorini (scritta in occasione del difficile allestimento del «menabò 4»), nella quale Calvino propone di «uscire col solito Davì e le poesie di Pignotti, a testimoniare che questa famosa narrativa di fabbrica non esiste».16 Un’espressione del genere mina alla base il presupposto di Vittorini per la costruzione di un romanzo che possa stare al passo con le trasformazioni in atto nella società. Parrebbe quasi un atto di sabotaggio (coerente con il rifiuto del concetto di «romanzo operaio» o «racconto di fabbrica» che emerge dalle sue lettere editoriali),17 ma è un’affermazione che posa su un dato di fatto, sancito anche dalle riflessioni che Ottieri consegna al suo Taccuino industriale, il diario edito in parte nel fascicolo del 1961 e pubblicato l’anno successivo da Bompiani con il titolo La linea gotica. In queste pagine il giovane intellettuale – che secondo lo scrittore ligure incarna un’intera generazione18 – si interroga sulle forme più adatte per narrare l’ambiente industriale e giunge alla conclusione che si può leggere sulle pagine del «menabò 4»: «Quelli che ci stanno dentro possono darci dei documenti, ma non la loro elaborazione; a meno che non nascano degli operai o impiegati artisti». E chiosa: «il che sembra piuttosto raro».19 Con Il capolavoro (pubblicato nel medesimo numero) Davì dà la risposta più pertinente all’impasse dichiarata da Ottieri e si conferma uno dei pochi autori in grado di ritrarre la «situazione morale degli operai nella grande fabbrica».20 Anche se l’editoria dimostrerà in seguito il contrario (Memoriale di Paolo Volponi è del 1962, Il congresso di Libero Bigiaretti e L’amore mio italiano di Giancarlo Buzzi del 1963, Il padrone di Goffredo Parise del 1965) e continua a essere oggi particolarmente florida intorno all’ispirazione industriale,21 al momento della pubblicazione del «menabò 4» sembra prevalere la posizione sostenuta da Calvino. L’unico brano narrativo dei fascicoli quarto e quinto è proprio Il capolavoro, poiché i testi ad esso affiancati, se si escludono i saggi di Gianni Scalia, Agostino Pirella, Marco Forti e la testimonianza diaristica di Ottieri, sono poetici (Vittorio Sereni, Lamberto Pignotti, Giovanni Giudici).22

Industria e letteratura sembra sancire questa latitanza e denuncia l’incapacità degli intellettuali di adattarsi alle metamorfosi della società contemporanea. In effetti, ciò che Vittorini chiede agli scrittori è molto più complesso di quanto potrebbe apparire a uno sguardo superficiale, poiché egli non vuole tanto modificare temi o contesti nei quali o intorno ai quali ambientare le vicende («dalla fabbrica si può anche stare fuori», chiosa Cesare De Michelis riprendendo le parole di Ottieri in Taccuino industriale, «ma non dall’universo che attorno ad essa inevitabilmente ruota»), però «pretende un capovolgimento di prospettiva, un’inversione di segno nel giudizio sulla modernità».23

Il rifiuto del mondo delle fabbriche si inscrive allora – secondo la prospettiva vittoriniana – nel territorio dell’antimodernità: un territorio da scalfire con le armi della «commistione» e dell’«innesto», già adoperate dal poeta-ingegnere Leonardo Sinisgalli all’epoca del suo lavoro per la Società del Linoleum (1936-1937) e poi affinate nell’Ufficio Tecnico di pubblicità della Olivetti (1938-1940) e nella direzione di «Pirelli» (1948-1952) e «Civiltà delle Macchine» (1953-1957).24 Non è quindi un caso che il «menabò 4» si apra con Una visita in fabbrica di Sereni. Il suo componimento – l’unico a raccogliere consenso unanime in redazione – viene posto ad apertura del fascicolo, prima di Industria e letteratura, quasi a indicare anche visivamente la sua collocazione in una dimensione che sta al di qua dello spartiacque rappresentato dall’editoriale. La precedenza è concettuale («Sereni giunge al limite più alto della possibilità di pronunciarsi elegiacamente su un mondo imposseduto», scrive Vittorini),25 ma anche cronologica, poiché si riallaccia alla tradizione inaugurata dalla rivista della Finmeccanica sotto la guida di Sinisgalli, quando poeti e pittori ne alimentarono le pagine con i resoconti in prosa delle proprie «visite in fabbrica», insolite gite tra gli stabilimenti produttivi che talvolta assumono una connotazione ludica (i meccanici-giocolieri di Giovanni Comisso), altrove subiscono lo scacco dell’incapacità a raccontare con il vocabolario consueto un’esperienza estranea al proprio orizzonte (Giorgio Caproni all’Ansaldo di Sestri Ponente) oppure sono descritte nelle forme di un descensus ad inferos (ancora Caproni alla Centrale di Monte Argento).26 Così fa anche Sereni, che sull’immagine di «asettici inferni» – ordinati dalla suddivisione tayloristica del lavoro e dal ritmo regolare della catena di montaggio – conclude la propria poesia.

A Sereni, come agli altri scrittori, Vittorini contesta il racconto di un «mondo imposseduto» – secondo l’espressione adottata in Industria e letteratura –, cioè di un ambiente che non è oggetto di conoscenza reale e quindi può essere osservato solo dall’esterno.27 La narrazione, in simili circostanze, non può che risultare anch’essa estranea a ciò che si vuole rappresentare. È in questione la capacità o, meglio, l’incapacità di adeguare i modi narrativi alla nuova realtà circostante, che condiziona la vita degli uomini e dovrebbe dunque riflettersi anche nello stile adottato:

 

Lo scrittore è di fabbriche e aziende che racconta ma non ha interesse agli oggetti nuovi e gesti nuovi che costituiscono la nuova realtà attraverso gli sviluppi ultimi delle fabbriche e aziende. L’interesse che lo muove si rivolge in fondo a ciò che succede della vecchia realtà «naturale» (e degli oggetti e gesti «naturali») nelle fabbriche e aziende: ed è in sostanza lo stesso vecchio interesse recriminatorio dei romantici tardi che a un certo momento ha puntato sul socialismo come su una possibilità di restaurare il presunto equilibrio «naturale» in seno alla natura lacerata.28

 

Se gli stilemi del naturalismo appaiono antiquati, pare sottolineare Vittorini, ciò accade in quanto oramai si vive all’interno di una società che non è più naturale, ma industrializzata. Si tratta evidentemente della prosecuzione sotto diversa forma di una polemica inaugurata da Crovi sulle pagine del «menabò 3».29 Le nuove linee di ricerca promosse e auspicate dalla testata einaudiana sembrano arrestarsi di fronte all’incapacità degli scrittori di leggere il mondo che li circonda alla luce della comunanza tra le «due culture», una comunanza che nel 1959 già Charles P. Snow aveva dato per sempre smarrita. Vittorini non fa che ribadirne l’insanabile separazione.

Non è un caso allora che nelle Due tensioni alcuni degli appunti collegati al fascicolo del 1961 vadano proprio sotto l’intestazione «natura»: «per noi la contrapposizione non è in effetti natura > industria», commenta Vittorini a proposito dell’intervento di Scalia, «ma natura contadina e industria – natura della civiltà contadina e industria».30 Così prosegue infatti il saggio di Vittorini sul «menabò 4»:

 

I significati di una realtà dipendono dagli effetti infiniti che si producono in essa a partire da una certa causa. La realtà contadina ha preso via via i suoi significati dal mondo grandioso e mutevole degli effetti che la coltivazione del suolo ha messo in moto. E la realtà industriale è dal mondo degli effetti messo in moto a mezzo delle fabbriche che può prendere i significati suoi. Poco importa che il mondo delle fabbriche sia un mondo chiuso. La verità industriale risiede nella catena di effetti che il mondo delle fabbriche mette in moto. E lo scrittore, tratti o no della vita di fabbrica, sarà a livello industriale solo nella misura in cui il suo sguardo e il suo giudizio si siano compenetrati di questa verità e delle istanze (istanze di appropriazione, istanze di trasformazione ulteriore) ch’essa contiene.31

 

Gli effetti del mondo industriale, per rendere chiara questa espressione, sono quelli che si ritrovano tra le pagine del Calzolaio di Vigevano. Mastronardi rimane in effetti l’unico degli autori tenuti a battesimo da Vittorini che riscuota il suo pieno consenso, poiché non è tanto l’industria che egli racconta, quanto una fase di passaggio, le metamorfosi che avvengono nel tessuto sociale quando il mondo artigiano dei calzolai si avvia verso il mondo industriale delle fabbriche di scarpe. Gli effetti sull’individuo, sui nuclei familiari, sulle classi sociali della piccola città in cui avvengono questi cambiamenti, sono profondi e improvvisi. Le trasformazioni sono ritratte non solo nell’evolversi dei fatti, ma anche attraverso la registrazione di una lingua che cambia, da una parte, al contatto con il mondo dei padroni d’azienda e della borghesia cittadina (nella quale aspirano a entrare i nuovi ricchi dell’industria, provenienti da un contesto popolare quando non di estrema povertà); dall’altra, con l’arrivo di lavoratori immigrati da differenti regioni d’Italia, specialmente dal Sud, i cui dialetti si fondono e si mescidano in una nuova koiné. La stessa, per fare un esempio d’ambiente e data diversi, in cui sono scritte le poesie di Franco Loi: il dialetto dell’autore di L’angel (1981) è in realtà quello del quartiere Casoretto, nei pressi di Lambrate, scalo ferroviario dove le parole meridionali e quelle della periferia milanese si mescolano in un originale pastiche.32

La capacità di rappresentare l’ambiente circostante è anche un fatto linguistico, non solo contenutistico, e la ricerca letteraria deve essere aggiornata in primo luogo sul terreno espressivo. «I prodotti della cosiddetta école du regard, il cui contenuto sembra ignorare che esistano delle fabbriche, dei tecnici, degli operai», scrive Vittorini, «sono in effetti molto più a livello industriale, per il nuovo rapporto con la realtà che si configura nel loro linguaggio, di tutta la letteratura cosiddetta d’industria che prende le fabbriche per argomento».33 L’ha ben compreso Scalia, l’ex collaboratore di «Officina» chiamato da Vittorini a partecipare al «menabò 4». Dalla natura all’industria (scritto insieme a Roberto Roversi e da quest’ultimo «idealmente firmato») è un testo «intenso di preoccupazione», scrive Scalia a Vittorini nel giugno del 1961, «e di speranze “trans-industriali”. E scientifiche, non “letterarie”».34 Lo sguardo, che scavalca la letteratura in direzione dell’antropologia («Allo scrittore spetta il compito a tutti comune di costruire una antropologia trans-industriale che conosca, comprenda e trasformi l’industria industriale nell’industria umana», sentenzia a conclusione del saggio), supera però anche l’industria stessa ed è orientato verso una teoria della comunicazione. «Rompere, con le parole, la solitudine, l’incomunicabilità dell’alienazione», attraverso le forme di «una nuova definizione “linguistica” della realtà trasformatasi industrialmente»: è questo lo scopo che la letteratura deve perseguire attraverso la comprensione e la rappresentazione di un contesto in cui la natura ha caratteri sempre più sbiaditi.35

 

3. Letteratura e realtà

Lo spostamento della discussione verso le problematiche dell’alienazione e della comunicazione, come osserva Stefano Giovannuzzi, «circoscrive un territorio dove l’avanguardia si muove perfettamente a suo agio».36 Il «menabò 5» (1962), che prosegue il dibattito avviato l’anno precedente, ne è la dimostrazione: Ancora industria e letteratura di Vittorini compare come premessa al fascicolo, ma è collocato «fuori frontespizio», cioè in quella sezione della rivista che accoglie i materiali utili per «concludere provvisoriamente […] il discorso avviato», in contrapposizione con la parte collocata «entro frontespizio», la quale costituisce invece «la specifica del numero», con l’apertura agli esponenti del futuro Gruppo 63.37 Nel numero del 1962 si leggono tuttavia solo testi saggistici. Oltre a Vittorini e Calvino, partecipano alla discussione Bragantin, Ferrata, Forti, Fortini e Leonetti, ma non v’è segno, fuori frontespizio, di alcuna opera narrativa o poetica.38 La ricerca di forme letterarie che rispondano all’idea del mondo industriale sostenuta da Vittorini sembra destinata a rimanere frustrata. L’argomento si svilupperà presto secondo altre declinazioni e la premessa al «menabò 6» (1963) ne sancisce il definitivo esaurimento.39

Il fascicolo del 1963 rappresenta il terzo atto della discussione su industria e letteratura o, meglio, sull’argomento che ormai si è tramutato nei termini di «letteratura e realtà», come Vittorini annota anche in una lettera a Leonetti per sottolineare la metamorfosi del dibattito avviato nel 1961,40 poiché l’industria non è altro che la «realtà ultimamente presente in noi e intorno a noi».41 Tuttavia la trasposizione dell’endiadi «letteratura e industria» nel binomio «letteratura e realtà» non è una semplice sostituzione sinonimica. Sta a significare che l’interesse scientifico-tecnologico della letteratura scompare, travolto dallo stesso labirinto a cui nel «menabò 5» Calvino ha lanciato la propria sfida, e sancisce l’apertura di credito alle teorie della neoavanguardia.42 Se da questo momento in poi nelle pagine della rivista il tema non si propone più con la medesima compattezza, ciò avviene anche perché nel fascicolo del 1962 vengono pubblicati tre articoli di Calvino, Crovi e di Umberto Eco che sono ormai dotati di una loro «autonomia» (come per primo riconosce Vittorini) e introducono nel dibattito nuove questioni.43 Scomparso il mondo delle fabbriche, ad animare il dialogo rimane la querelle sugli autori del nouveau roman, già chiamati in causa da Vittorini nel 1961 e al centro della disamina di Calvino nel 1962, il quale mette in forse i labirinti in cui si aggirano Robbe-Grillet e gli scrittori della letteratura sperimentale francese (innescando così una vivace polemica con Angelo Guglielmi).44

Alla fabbrica come luogo fisico di lavoro e di confronto con le macchine, è ora preferito un rapporto con la realtà che si manifesti anche a livello verbale con le medesime dinamiche di complessità. In tale prospettiva, nel «menabò 8», un racconto come Vacuum Packed di Valerio Fantinel diventa emblematico, perché «descrive un ambiente proto-industriale (e il relativo caratterizzarsi attraverso trasformazioni dei rapporti sociali e delle relazioni psicomotorie individuali) come spazio-luogo di impacchettamento sotto vuoto dell’individuo», nel quale il personaggio si trova «sempre più disperatamente (quindi sempre più refrattariamente) alle prese con la sua nausea per le relazioni umane, ormai diacroniche e quasi del tutto automatizzate».45 Questo «macrocosmo grottesco», scrive Crovi,

 

viene rappresentato con un linguaggio del tutto analogico, stravolto, coordinato da una fitta rete di neologismi scientifici (della cosmologia, della genetica, della psicanalisi, della meccanica). L’autore intende offrirci una lussureggiante (atrofica-deforme-magmatica) metafora della condizione subumana dell’individuo che non ha più con la realtà (oggetti, sentimenti, immagini) un rapporto di creazione o di analisi, bensì un rapporto elementare di fruizione.46

 

Il cronotopo dell’«ambiente proto-industriale» pone l’individuo in una condizione asfittica, di «impacchettamento sotto vuoto», come recita il titolo del racconto, che è restituita attraverso l’uso di una lingua straniata e politecnica. L’elemento umano e della coscienza scompaiono sotto il peso di una realtà che assomiglia sempre più al «mare dell’oggettività» descritto da Calvino nel «menabò 2»: anch’essa è «magmatica» come la metafora che secondo Crovi la descrive.47 L’individuo, immerso nel fluire degli eventi che lo circondano, finisce per annegarvi, rinuncia a instaurare con l’ambiente circostante un rapporto creativo o analitico. Lo scrittore – se mai vi fosse stato bisogno di una conferma – non è più un novello Adamo, ha abdicato alla sua funzione ordinatrice, non dà nome alle cose che lo circondano; e nemmeno le inventa attraverso la lingua poetica come il poeta-mago di pascoliana memoria: si limita a fruirne. L’osservazione, che qui assume una sfumatura se non negativa quantomeno disfattista, sembra ribaltare di segno quanto lo stesso Crovi aveva affermato un paio d’anni prima in Una linea di ricerca poetica, il saggio che accompagnava il «menabò 6» in una panoramica sulle poetiche della prima metà del Novecento. La chiave interpretativa era allora la dicotomia tra letteratura e scienza, poesia pura e impura, e univa così in un unico discorso le suggestioni scaturite dalle discussioni intorno al secondo e al quarto numero della rivista. Scartate le linee di derivazione ermetica (emblematiche di un’idea assoluta di arte, slegata dal contesto di produzione e sostanzialmente autoreferenziale), Crovi raccoglie il testimone di Vittorini e accorda la propria preferenza alla contaminazione di codici e linguaggi, alla sperimentazione linguistica non meramente formale, alla rivoluzione dei contenuti che si attua attraverso l’inclusione di materiali non letterari all’interno della sfera poetica. Se nel «menabò 6» poeti come Pagliarani e Pignotti erano additati a esempio positivo di come la «grande massa di dati cronachistici generici e di dati autobiografici specifici» potesse essere inclusa all’interno della poesia;48 nel «menabò 8», al contrario, si intravede quella che Calvino aveva definito la «resa al labirinto», una rinuncia implicita a intervenire sulla realtà circostante anche attraverso gli strumenti verbali.

Certo la rivista di Vittorini e Calvino ha il merito di avere portato attenzione anche critica su un filone (la letteratura d’ambiente industriale) che per la natura stessa del tema si colloca all’incrocio tra discipline differenti ed è un esempio di quel politecnicismo che caratterizza la testata. Dal punto di vista della produzione creativa si assiste tuttavia a uno scacco: l’incapacità da parte degli scrittori di calarsi nel mondo contemporaneo rappresenta un limite all’esplorazione della modernità a cui i due direttori reagiscono in modi affatto differenti. L’uno rivolge a narratori e poeti l’invito ad affrontare il nodo del rapporto con fabbriche e aziende; l’altro, constatata l’inadeguatezza della risposta, sceglie di sviare il discorso e, anziché spostare la questione sull’asse letteratura-realtà (come fa Vittorini), trasferisce il gusto per la commistione di codici in direzione delle scienze applicate alle speculazioni astronomiche. La stagione delle Cosmicomiche era già iniziata.

 

 

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ZINATO Emanuele, Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana, Quodlibet, Macerata, 2015, pp. 238.

 

* Il contributo rielabora parte di una ricerca pubblicata in Silvia CAVALLI, Progetto «menabò» (1959-1967), Marsilio, Venezia, 2017.

 

1. Elio VITTORINI, Industria e letteratura, in «il menabò», 4/1961; ora in Letteratura arte società. Articoli e interventi 1938-1965, a cura di Raffaella Rodondi, Einaudi, Torino, 2008, pp. 955-962.

2. Cfr. Gian Carlo FERRETTI, L’editore Vittorini, Einaudi, Torino, 1992, pp. 255-256.

3. Cfr. Raffaele CROVI, Il lungo viaggio di Vittorini. Una biografia critica, Marsilio, Venezia, 1998, pp. 445-451; Guido BONSAVER, Elio Vittorini. Letteratura in tensione, Franco Cesati, Firenze, 2008, pp. 215-216; Giuseppe LUPO, Vittorini politecnico, Franco Angeli, Milano, 2011, pp. 52-53.

4. Raffaele CROVI, Elio Pagliarani, [Milano, ottobre 1959], in AA.VV., «il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967), a cura e con postfazione di Silvia Cavalli, introduzione di Giuseppe Lupo, Aragno, Torino, 2016, pp. 117-118.

5. [N.d.R.], Notizia su Elio Pagliarani, in «il menabò», 2/1960, pp. 169-170: 170. La Notizia, redazionale, è attribuibile a Crovi per la coincidenza delle argomentazioni con quelle svolte nell’appunto autografo conservato tra i documenti dell’Archivio Einaudi e citato nella nota precedente.

 6. VITTORINI, Industria e letteratura, cit., p. 961.

7.  Giovanni GIUDICI, Alienazione, in Se sia opportuno trasferirsi in campagna, in «il menabò», 4/1961; poi senza titolo in La vita in versi, Mondadori, Milano, 1965; ora in I versi della vita, a cura di Rodolfo Zucco, saggio introduttivo di Carlo Ossola, cronologia a cura di Carlo Di Alesio, Mondadori, Milano, 2000, p. 35.

8. Umberto ECO, Del modo di formare come impegno sulla realtà, in «il menabò», 5/1962; poi nella seconda edizione del suo Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee [1962], Bompiani, Milano, 19672 e 2009, pp. 235-290.

9. Camillo PENNATI, Quindici poesie, in «il menabò», 2/1960; poi confluite in L’ordine delle parole. 1957-1963, Mondadori, Milano, 1964. Roberto ROVERSI, La raccolta del fieno, in «il menabò», 2/1960; poi parzialmente in Dopo Campoformio. Poemetti, Feltrinelli, Milano, 1962; successivamente in edizione riveduta, senza sottotitolo, Einaudi, Torino, 1965. Paolo VOLPONI, L’Appennino contadino, in «il menabò», 2/1960; poi in Le porte dell’Appennino, Feltrinelli, Milano, 1960; ora in Poesie 1946-1994, a cura di Emanuele Zinato, prefazione di Giovanni Raboni, Einaudi, Torino, 2001, pp. 125-143. Francesco LEONETTI, Il malpensante, in «il menabò», 2/1960, pp. 217-275. Per l’assenza di implicazioni industriali nel milieu di «Officina», cfr. Paolo VOLPONI, Officina prima dell’industria, in «Belfagor», 6/1975, ora in Romanzi e prose, a cura di Emanuele Zinato, Einaudi, Torino, 2002, I, pp. 1064-1069; Emanuele ZINATO, «Mi ricordo questo futuro»: l’attualità di «Officina», tra storia e prefigurazione, in Letteratura come storiografia? Mappe e figure della mutazione italiana, Quodlibet, Macerata, 2015, pp. 19-39.

 10. Elio VITTORINI, Notizia su Stefano D’Arrigo, in «il menabò», 3/1960; ora in Letteratura arte società, cit., pp. 905-907: 906-907.

 11. VITTORINI, Industria e letteratura, cit., p. 961.

 12. Lettera di Calvino a Vittorini, Torino, 7 giugno 1955, in Italo CALVINO, Lettere 1940-1985, a cura di Luca Baranelli, introduzione di Claudio Milanini, cronologia a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Mondadori, Milano, 2000, pp. 435-436. Cfr. anche AA.VV., La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, a cura di Vito Camerano, Raffaele Crovi e Giuseppe Grasso, con la collaborazione di Augusta Tosone, introduzione e note di Giuseppe Lupo, Aragno, Torino, 2007, III, pp. 1505-1506.

 13. Italo CALVINO, Il piemontese avventuroso, in «Notiziario Einaudi», 1/1957; ora con il titolo Luigi Davì, l’operaio che scrive racconti, in Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Mondadori, Milano, 1995, I, pp. 1052-1056: 1055.

 14. Italo CALVINO, Dialogo di due scrittori in crisi [1961], in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, con presentazione dell’autore, Einaudi, Torino, 1980; ora in Saggi 1945-1985, cit., I, pp. 82-89: 89.

 15. Italo CALVINO, La «tematica industriale», in «il menabò», 5/1962; ora in Saggi 1945-1985, cit., II, pp. 1765-1769.

 16. Cfr. lettera di Calvino a Vittorini, Torino, 17 novembre 1960, in AA.VV., «il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967), cit., p. 17.

17. Eraldo BELLINI, Calvino e «I libri degli altri», in «Vita e Pensiero», 2/1994, pp. 110-125: 113.

18. Lettera di Calvino a Ottieri, Torino, 26 maggio 1955, in AA.VV., La storia dei «Gettoni» di Elio Vittorini, cit., II, pp. 779-780.

19. Ottiero OTTIERI, Taccuino industriale, in «menabò», 4/1961, pp. 21-94: 21. Il diario è pubblicato, con alcune modifiche, in Ottiero OTTIERI, La linea gotica. Taccuino 1948-1958, Bompiani, Milano, 1962; ora in Opere scelte, scelta dei testi e saggio introduttivo di Giuseppe Montesano, cronologia di Maria Pace Ottieri, notizie sui testi e bibliografia a cura di Cristina Nesi, Mondadori, Milano, 2009, pp. 227-453: 361.

20. Lettera di Calvino a Vittorini, Torino, 30 settembre 1958, in AA.VV., «il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967), cit., p. 55.

21. Cfr. Paolo CHIRUMBOLO, Letteratura e lavoro. Conversazioni critiche, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2013; AA.VV. Fabbrica di carta. I libri che raccontano l’Italia industriale, a cura di Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo, prefazione di Alberto Meomartini, introduzione di Antonio Calabrò, apparati bio-bibliografici a cura di Silvia Cavalli, Laterza, Roma-Bari, 2013, pp. 271-295.

22. Gianni SCALIA, Dalla natura all’industria, in «il menabò», 4/1961; poi in Critica, letteratura, ideologia. 1958-1963, Marsilio, Padova, 1968, pp. 141-157. Agostino PIRELLA, Comunicazione letteraria e organizzazione industriale, in «il menabò», 4/1961, pp. 115-119. Marco FORTI, Temi industriali della narrativa italiana, in «il menabò», 4/1961, pp. 213-239. Vittorio SERENI, Una visita in fabbrica, in «il menabò», 4/1961; in versione riveduta in Gli strumenti umani, Einaudi, Torino, 1965; poi in Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Mondadori, Milano, 1995; ora in Poesie e prose, a cura di Giulia Raboni, introduzione di Pier Vincenzo Mengaldo, Mondadori, Milano, 2013, pp. 167-172. Lamberto PIGNOTTI, L’uomo di qualità, in «il menabò», 4/1961; trentuno poesie poi accolte in Nozione di uomo, Mondadori, Milano, 1964.

23. Cesare DE MICHELIS, I romanzi della fabbrica, in AA.VV., Letteratura e industria, II. Il XX secolo, a cura di Giorgio Bàrberi Squarotti e Carlo Ossola, Olschki, Firenze, 1997; ora in Moderno antimoderno. Studi novecenteschi, Aragno, Torino, 2010, pp. 275-293: 291.

24. Leonardo Sinisgalli intervistato da Ferdinando CAMON, Il mestiere di poeta, Lerici, Milano, 1965; poi Garzanti, Milano, 1982, pp. 73-79: 76. Cfr. Giuseppe LUPO, Sinisgalli e le industrie milanesi (1934-1973), in AA.VV., Sinisgalli a Milano. Poesia, pittura, architettura e industria dagli anni Trenta agli anni Sessanta, con testi inediti, a cura di Giuseppe Lupo, Interlinea, Novara, 2002, pp. 213-262.

25. VITTORINI, Industria e letteratura, cit., p. 955.

26. Giovanni COMISSO, I giocolieri dell’officina, in «Civiltà delle Macchine», maggio-giugno 1956; Giorgio CAPRONI, Un poeta e un pittore in visita ai cantieri dell’Ansaldo, in «Civiltà delle Macchine», gennaio 1953; Id., La centrale di Monte Argento, in «Civiltà delle Macchine», novembre 1953; ora raccolti in AA.VV., L’anima meccanica. Le visite in fabbrica in «Civiltà delle Macchine» (1953-1957), a cura di Giuseppe Lupo e Gianni Lacorazza, Avagliano, Roma, 2008, pp. 109-110, 17-22, 61-69.

27. VITTORINI, Industria e letteratura, cit., p. 955.

28. Ibi, pp. 957-958.

29. Cfr. Raffaele CROVI, Meridione e letteratura, in «il menabò», 3/1960; ora in Diario del Sud, prefazione di Vincenzo Guarracino, Manni, San Cesario di Lecce, 2005, pp. 19-50: 50, dove vi è un’anticipazione del discorso vittoriniano: «Uno studio differenziale della letteratura meridionalista e della letteratura d’ambiente industriale le mostrerebbe – crediamo – entrambe viziate da manicheismo culturale. La letteratura meridionalista tende a ridurre la realtà nei suoi soli termini di natura, mentre quella d’ambiente industriale tende ad estraniarsi completamente da essi, negando persino che la psicologia sia una scienza morale. È uno scompenso che deriva dal mancato riconoscimento del fatto che l’essenza della realtà sta nel rapporto tra ideologia e storia».

30. Elio VITTORINI, Le due tensioni. Appunti per una ideologia della letteratura, a cura di Dante Isella, Il Saggiatore, Milano, 1967; ora con un’appendice di materiali inediti, a cura e con postfazione di Virna Brigatti, prefazione di Cesare De Michelis, Hacca, Matelica, 2016, p. 110.

31. VITTORINI, Industria e letteratura, cit., p. 961. Il riferimento è al primo paragrafo di OTTIERI, Taccuino industriale, cit., p. 21: «Il mondo delle fabbriche è un mondo chiuso. Non si entra e non si esce facilmente. Chi può descriverlo? […] L’operaio, l’impiegato, il dirigente, tacciono. Lo scrittore, il regista, il sociologo, o stanno fuori e allora non sanno; o, per caso, entrano, e allora non dicono più» (cfr. anche Id., Opere scelte, cit., pp. 360-361).

32. Cfr. AA.VV., La poesia italiana dal 1960 a oggi, a cura di Daniele Piccini, Bur-Rizzoli, Milano, 2005, in particolare la nota introduttiva del curatore alla poesia di Franco Loi, pp. 403-415: 405. Per l’uso dei dialetti in Loi, autore peraltro nato a Genova da padre cagliaritano e madre colornese, cfr. anche Franco Brevini, Introduzione, in Franco LOI, L’angel, San Marco dei Giustiniani, Genova, 1981, pp. 9-16: 11.

33. VITTORINI, Industria e letteratura, cit., p. 959.

34. Lettera di Scalia a Vittorini, [Bologna, giugno 1961], in AA.VV., «il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967), cit., p. 188.

 35. SCALIA, Dalla natura all’industria, cit., pp. 157, 143, 150.

36. Stefano GIOVANNUZZI, «Industria e letteratura». Vittorini, «il menabò» e oltre: metamorfosi di un dibattito, in «Levia Gravia», 14/2012, Cinquant’anni dopo: letteratura e industria, a cura di Loredana Palma, pp. 1-42: 17. Ma cfr. anche le pagine dedicate alla voce «alienazione» in VITTORINI, Le due tensioni, cit., pp. 148-151, 156-157, 160-162, 299.

37. Elio VITTORINI, Ancora industria e letteratura, in «il menabò», 5/1962; ora in Letteratura arte società, cit., pp. 1002-1006: 1002.

38. CALVINO, La «tematica industriale», cit. Gianluigi BRAGANTIN, La questione del potere, in «il menabò», 5/1962, pp. 10-18. Giansiro FERRATA, L’«arretratezza», in «il menabò», 5/1962; ora in AA.VV., «il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967), cit., pp. 247-252 (cfr. anche la lettera di Ferrata a Vittorini, [Milano], 21 settembre 1961, ibi, pp. 200-202). Marco FORTI, Un duplice fronte, «il menabò», 5/1962, pp. 25-29. Franco FORTINI, Astuti come colombe, in «il menabò», 5/1962; poi in Verifica dei poteri. Scritti di critica e di istituzioni letterarie, Il Saggiatore, Milano, 1965; ora in Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di Luca Lenzini e uno scritto di Rossana Rossanda, Mondadori, Milano, 2003, pp. 44-68. Francesco LEONETTI, Un supplemento di società, in «il menabò», 5/1962, pp. 46-68.

39. Elio VITTORINI, [Premessa], in «il menabò», 6/1963; ora in Letteratura arte società, cit., pp. 1031-1033.

40. Lettera di Vittorini a Leonetti, [Milano], 13 novembre [1962], in AA.VV., «il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967), cit., p. 394 (il corsivo è nel testo).

41. VITTORINI, [Premessa al «menabò 6»], cit., p. 1031.

42. Cfr. Italo CALVINO, La sfida al labirinto, in «il menabò», 5/1962; poi in Una pietra sopra, cit.; ora in Saggi 1945-1985, cit., I, pp. 105-123.

43. Lettera di Vittorini a Calvino, [Milano], 28 maggio [1962], in AA.VV., «il menabò» di Elio Vittorini (1959-1967), cit., pp. 294-295: 295. Cfr. Raffaele CROVI, La trasformazione di realtà, in «il menabò», 5/1962, pp. 329-332; ECO, Del modo di formare come impegno sulla realtà, cit.

44. Italo CALVINO – Angelo GUGLIELMI, Corrispondenza con poscritto a proposito della «Sfida al labirinto», in «il menabò», 6/1963; ora con il titolo Corrispondenza con Angelo Guglielmi a proposito della «Sfida al labirinto», in CALVINO, Saggi 1945-1985, cit., II, pp. 1770-1775. Cfr. Angelo GUGLIELMI, Una «sfida» senza avversari, in «il menabò», 6/1963; poi con il titolo Contro il labirinto Don Chisciotte combatte l’ultima battaglia, in Avanguardia e sperimentalismo, Feltrinelli, Milano, 1964, pp. 63-74. L’articolo di Guglielmi e lo scambio epistolare con Calvino sono ora raccolti, con il titolo Una sfida senza avversari (e dibattito con Italo Calvino), in Angelo GUGLIELMI, Il romanzo e la realtà. Cronaca degli ultimi sessant’anni di narrativa italiana, Bompiani, Milano, 2010, pp. 70-89.

45. Raffaele CROVI, Notizia su Valerio Fantinel, in «il menabò», 8/1965, pp. 268-269: 268. Cfr. Valerio FANTINEL, Vacuum Packed, in «il menabò», 8/1965; poi confluito nel volume omonimo, con presentazione di Giorgio Zampa, De Donato, Bari, 1968.

46. CROVI, Notizia su Valerio Fantinel, cit., p. 269.

47. Cfr. Italo CALVINO, Il mare dell’oggettività, in «il menabò», 2/1960; poi in Una pietra sopra, cit.; ora in Saggi 1945-1985, cit., I, pp. 52-60.

48. Raffaele CROVI, Una linea della ricerca poetica, in «il menabò», 6/1963, p. 97.

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