N°2 / Regards de jeunes chercheurs sur l'art et la littérature d'Italie et d'ailleurs

Savinio e Mavilis: grecità, identità, lingua

Antonio Triente

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Antonio Triente

Savinio e Mavilis: grecità, identità, lingua

 

 

     Nel febbraio del 1935 Alberto Savinio pubblica sulla rivista Pan il profilo biografico di una personalità della cultura letteraria greca fino ad allora (e tutt’oggi) quasi sconosciuta in Italia e in Europa. Questo scritto, dal titolo Un poeta neogreco: Lorenzo Mabili, sarà poi ripreso in Narrate, uomini, la vostra storia, raccolta di biografie “vite” pubblicata da Bompiani nel 1942, col titolo semplificato Lorenzo Mabili. Savinio aveva conosciuto Lorentzos Mavilis nell’agosto (o forse settembre)1 del 1906, all’età di 15 anni, quando, insieme con la madre e il fratello, nel lasciare la Grecia (terra in cui egli era nato e vissuto fino ad allora), alla volta dell’Italia, aveva fatto una tappa a Corfù, proprio per fare una visita al poeta, al quale il «padre era stato stretto da amicizia».2
    Nato a Itaca il 6 settembre 1860 da famiglia nobile di origine spagnola, Lorentzos Mavilis è ricordato come poeta parnassiano e patriota greco, oltre che come uomo politico (fu eletto infatti nel 1910 al Parlamento greco come rappresentante di Corfù, l’isola nella quale aveva vissuto fin dall’infanzia). In un breve schizzo dal carattere “atomistico”, secondo una consolidata abitudine dello scrittore, che tanto ricorda alcuni procedimenti formali tacitiani (ed in particolare quelli relativi alla costruzione del cosiddetto ritratto “paradossale”),3 Savinio riassume efficacemente la sua formazione culturale:
 

Si dedicò giovanissimo agli studi. […]. A imitazione del poeta Dionigi Salomò [Dionysios Salomos] si appassionò al problema della lingua. Andò in Germania. Si laureò in filosofia all’Università di Erlangen. Durante i quattordici anni che passò in Germania, tradusse in greco «peloso»4 Virgilio, Schiller, Uhland, Bürger, Byron, Shelley, Tennyson. Studiò glottologia e Sanscrito. Penetrò i misteri dell’indianismo. Si dedicò alla filosofia.5

    

       Mavilis lesse anche con attenzione e si lasciò ispirare, in varie fasi della sua vita, da filosofi cari allo stesso Savinio, quali Kant, Schopenhauer e Nietzsche. Coinvolto nei moti nazionalistici greci dei primi anni Novanta dell’Ottocento, lottò per tutta la vita una battaglia in favore dell’affermazione dell’identità greca, che andava dall’opposizione ai turchi al riconoscimento della lingua demotica come idioma ufficiale dello stato, contro la vetustà della lingua istituzionale, la Katharevousa. Come ricorda anche Savinio nella biografia di cui trattiamo, in un discorso parlamentare del 1910, in risposta ad un suo oppositore che lamentava la “volgarità” della lingua popolare, egli espresse la famosa sentenza per la quale «Lingue vili non ci sono, ma uomini vili sì!»6. Ha lasciato cinquantotto sonetti in greco moderno e un nutrito corpus di traduzioni, fra le quali – oltre alle già dette – vanno menzionate almeno quelle delle poesie di Leopardi, che, a detta di Savinio, si rivela un autore fondamentale nella definizione della poetica dello stesso Mavilis (e, come è risaputo, per lo stesso Savinio).7 Prese parte alla guerra greco-turca, nel 1897, e, a cinquantadue anni, nel 1912, arruolatosi volontario nel corpo dei garibaldini, partecipò alla prima guerra balcanica (1912-1913). Morì in battaglia a Ioannina, in Epiro, il 28 novembre di questo stesso anno.   
     Questa breve sintesi della vita di Mavilis ci porta alla letteratura biografica di Alberto Savinio. Nel corso degli anni Trenta e parte dei Quaranta, egli infatti scrive una quindicina di biografie, secondo forme e stilemi riconoscibili nella sua poetica, ma molto lontani da quelli del genere. In ogni “vita” di Savinio brilla sempre un riflesso speculare, che va da biografo a biografato e viceversa, lasciando scoperto e ben visibile il fascio di relazioni che uniscono autore e soggetto. La “vita” di Mavilis non fa eccezione e prende avvio proprio dalla memoria e dall’infanzia di Savinio e non – come sarebbe più consono ai canoni del genere – da quelle del protagonista.8

 

La figura corporea di Lorenzo Mabili rivive in un mio ricordo d’infanzia.

     Era il 1906. Mio padre era morto un anno prima. La casa era chiusa, dispersi i mobili e sul finire dell’estate c’imbarcammo a Patrasso sul Romania della Navigazione Generale Italiana.

     Lasciavo la terra nella quale ero nato e avevo consumato la parte mitica della mia vita, partivo per un’altra terra di cui non avevo ancora se non una conoscenza ideale, ma alla quale mi sentivo legato da vincoli di sangue e di pensiero. 9

 

     Nella biografia dell’intellettuale greco emergono alcune delle tematiche fondanti della poetica di Savinio, quali – oltre a quelle della memoria, dell’infanzia e della morte – quelle legate alle questioni della lingua e, come abbiamo potuto vedere già da questa breve citazione, a quelle della grecità e della ricerca di identità.
     Lorèntzos Mavilis è un personaggio molto importante per Alberto Savinio, proprio perché situato lungo la linea della «prima profonda e simbolica cesura della sua vita»,10 ovvero il viaggio dalla Grecia all’Europa, che lo scrittore affronta, in età adolescenziale, insieme alla madre e al fratello Giorgio de Chirico. È questo il momento culminante in cui nella mente e nello spirito si imprimono gli archetipi che accompagnano l’uomo lungo tutto il percorso della propria esistenza. Di questo avvenimento l’immagine del patriota greco che svanisce alle spalle della nave che porta via il giovane e la sua famiglia orfana di padre sembra una sintesi altamente rappresentativa. Nella figura un po’ sciatta e smunta del poeta, Savinio vede svanire il luogo e l’epoca mitica della sua infanzia: un’immagine di profonda e malinconica tristezza che però, come vedremo, non prenderà il sopravvento su nessuno dei due scrittori.
 

Chi si accingesse a leggere una delle più apprezzate opere di Savinio, ovvero la raccolta di racconti dal titolo Casa “la Vita” (Bompiani, 1943), si imbatterebbe, nella prima pagina, in un amoroso e lirico ricordo della sua terra d’infanzia, dai toni marcatamente leopardiani.

 

Nulla è tanto propizio all’animo appassionato e curioso dei bambini, quanto gli aspetti colmi e misurati quali amavano e produssero gli antichi della terra ov’io nacqui. Scorgo talvolta sui campi che spaventati fuggono al passare del treno, rupestri città armate di tutto punto, che a poco a poco mi scoprono la cinta della loro antica forza; e mentre quelle precipitano all’orizzonte, ombre vane di una età consumata per sempre, ogni volta si sovrappone a esse la dolce città della mia infanzia. Allora come di lei mi risovviene, che si lasciava cogliere intera dai miei occhi di bambino, posata come nido candidissimo di albatri nella selvosa conca della valle, ben fortunato mi reputo di essersi formata laggiù la mia ragione, fra i templi portatili,11 le colonne che girano assieme col girare del sole, le statue animate di serena magia, quando brillanti nella compagnia degli alberi, quando levate oscure di contro l’amorosissimo cielo. 12

    

       Si può notare, in questo brano, una certa consonanza strutturale (molto libera, ovviamente, rispetto al modello) con il più conosciuto dei componimenti leopardiani: L’infinito. Lo scritto, dal titolo Alla città della mia infanzia dico, non è un vero e proprio racconto, ma una prosa lirica che ha funzione di apertura della raccolta, sotto forma di tributo alla magica città dell’infanzia di Savinio (Atene). Limitando l’analisi alle questioni più lampanti, dobbiamo almeno evidenziare la ripresa di alcune espressioni-chiave come “orizzonte”, “dolce”, “risovviene” e una sostanziale bipartizione della composizione, che risalta nel passaggio dalla dimensione del visibile a quella dell’invisibile, scandita, alla metà del testo di Savinio, da quell’«Allora come di lei mi risovviene», che porta lo scrittore nel regno della memoria e in una sorta di regressione all’infanzia, che fa da pendant all’oblio (alla fusione dell’Io con l’universo) cui si abbandona Leopardi nell’immergersi nel suo dolce mare.13
     L’impronta greca che informa la cultura di Savinio è spesso menzionato nelle opere dello scrittore e si esprime in quella che lui definisce “portatilità” del pensiero (vedi i templi portatili dell’ultima citazione). I caratteri profondi di una ragione formata in questa straordinaria terra sono quelli che la terra stessa esprime, e che altrove sono così descritti: 

 

S’intende per «Grecia» un modo di pensare, di vedere, di parlare, che la mente, l’occhio, l’orecchio possono afferrare di «colpo»: possono afferrare in un pensiero solo, in uno sguardo solo, in una sola audizione. S’intende per «Grecia» una mente portatile e nei modelli più alti tascabile.14 S’intende la facoltà consentita ad alcuni popoli e negata ad altri di intelligere la vita nel modo più «astuto», più lirico e assieme più «frivolo» (i nostri dèi sono leggeri)…15

                                                                                                      *          *          *

Lo spirito greco risiederebbe dunque nella “portatilità” del pensiero, nel trasformare cioè le idee e la conoscenza in oggetto leggero e domestico, come ebbe a scrivere Giacomo Debenedetti (con tutte le implicazioni che in una legittima lettura freudiana il termine può avere).16 Questo è ad esempio ciò che accade col mito. Per lo spirito greco (che – come ricorda Savinio nelle pagine della “vita” di Mavilis – non coincide con lo spirito europeo o occidentale)17 il mito deve essere raffigurato con immagini lampanti che vivano tanto nel profondo dell’essere quanto nella superficie della quotidianità. La figura del Mavilis silenzioso e triste, che si delinea nella biografia a lui dedicata, ce ne fornisce un piccolo esempio. Conteso tra il frastuono dei campi di battaglia (sui quali aveva consumato il suo fervore patriottico) e il vuoto e il silenzio della sua casa di Corfù (nella quale trascorreva la parte più malinconica e sterile della sua esistenza), questo eroe-fantasma viene raffigurato con tratti vagamente umoristici, che svelano il contrasto fra la descrizione fatta dal padre di Savinio e la figura che questi si ritroverà di fronte:

 

«Mabili» diceva mio padre «è un Apollo». E poiché sapevo che Mabili era poeta, argomentavo che la somiglianza con questo dio fosse la condizione naturale di ogni poeta. Ma era un Apollo invecchiato, impinguito e poveramente vestito da uomo. Un po’ di oro brillava ancora nella barba. Gli occhi erano cilestrini, dolcissimi e lontani. Parlava adagio e come ritardato dall’asma. Faceva far anticamera alle parole. E quando si risolveva a pronunciarle, si capiva che non era la parola alla quale aveva pensato, ma un’altra.18

 

Veniamo, dunque, più segnatamente al momento in cui si concretizza, con un’espressione tanto breve quanto lampante, il segno di questa facoltà di ricreare e addomesticare il mito. La brigata composta dalla famiglia di Savinio, dal poeta greco e da sua sorella Ester è uscita per una breve escursione sull’isola di Corfù. L’abbigliamento poco curato e, in particolare, il copricapo del poeta attirano lo sguardo del suo ospite adolescente, andando ancora una volta a contrastare con l’immagine (fra l’altro poco amata dallo scrittore italiano)19 del dio della poesia:

 

Lorenzo portava una paglietta troppo grande per la sua testa. (Apollo in paglietta! Roba da Simplicissimus e da caricaturisti bavaresi).20

    

        L’irriverenza ironica di questa immagine sembra riservata ad Apollo, più che a Mavilis. L’estrema confidenza dell’uomo greco con i miti della sua terra e, in generale, con la creazione del mito, svincolano la poiesis dalla gravosa “serietà” che spesso si presume sia sua inscindibile caratteristica («i nostri dèi sono leggeri»!).
     Quella parte della poetica di Savinio che una certa critica ha visto come svilimento del mito in immagini borghesi non è altro che la prova più lampante della vitalità e della freschezza del mito stesso e della mitopoiesi saviniana. Un Apollo in paglietta, una Psiche sposa di un magnate della finanza tedesco, o un Ulisse con soprabito, cappello e bastone sono figure del tutto legittime. E anche se la critica accetta senza troppe riserve una simile modo di lavorare, non per questo la questione del mito in Savinio (e in altri scrittori e artisti che, come lui, si sono nutriti di un fecondo classicismo, contribuendo alla neoformazione e alla riutilizzazione del mito), sembra problematizzata sulla base di una profonda riflessione. L’imborghesimento del mito, che troviamo in Savinio, non serve semplicemente a «disinnescare le favole antiche del loro […] potenziale trascendente», come sostiene ad esempio Vanni Bramanti in suo lavoro su Savinio,21 ma è condizione naturale della vitalità del mito. Se il mito è la sintesi più profonda di pulsioni, contrasti, sensibilità e cultura di una collettività, in epoca contemporanea non potrà certo tenere fuori di sé la struttura borghese della società. L’idea di un “orizzonte mitico” come mondo che vive “al di là” della quotidianità e della storia è il portato di una mentalità che non possiamo certo definire classica, ma tutt’al più neoclassica, e che di greco, in realtà, non ha molto.
     Per chi, come Savinio, di grecità è intriso, il mito è parte fondante del reale e vive nella quotidianità, e della quotidianità deve assumerne il pensiero, l’iconografia e il linguaggio. È segno dei tempi che hanno conosciuto Freud e Dostoevskij, che sono passati attraverso la catastrofe di una guerra mondiale e la violenza delle ideologie nazionalistiche, il fatto, ad esempio, che l’eroe omerico, alla fine di Capitano Ulisse – opera teatrale del 1925, ma pubblicata nel 1937 – voglia porre fine alle sue interminabili avventure e, ormai sfiduciato e stanco dei suoi viaggi, rinunci all’ultima impresa comandata dalla dea-professore Minerva, in preda a quella che sembrerebbe proprio una crisi esistenziale, ed esca sul proscenio in tenuta borghese, lasciando il teatro insieme ad uno spettatore. Mito e classico non sono cadaveri da museo, come spesso ci ricorda Savinio; motivo per il quale, nell’atto della creazione, anche le figure più auliche del nostro immaginario non possono non compromettersi con il fango, il riso, e finanche lo scherno della più materiale quotidianità. Nel testo su Alberto Savinio, cui abbiamo già accennato, Giacomo Debenedetti rilevava che il carattere proprio della grecità è quello di «ricondurre tutto ciò che è dentro di noi […] a oggetti domestici, che si possono […] addirittura prendere in mano, […] e nella loro plasticità sono tali che li possiamo costruire con le mani: che è poi la ragione per cui i greci, inventando la parola poeta hanno voluto che etimologicamente significasse fabbricatore».22 
     I giocattoli che spesso ritroviamo nell’opera pittorica di Savinio sono proprio il simbolo dell’homo faber che lavora “manualmente” sul materiale intellettuale, addomesticando le idee che sono alla base dell’opera d’arte. Come possiamo vedere prendendo ad esempio qualcuna delle sue tele, si tratta di oggetti simili a giochi per la prima infanzia, geometrie plasmate dalla mano dell’uomo, forme primordiali dai colori vivissimi. Essi rappresentano, ad esempio, il sogno di Achille, nell’omonima tela del 1929 [fig. 1], o lo smarrimento di una nave, ne La navire perdu (1926) [fig. 2]; sono quindi la materializzazione dell’idea metafisica – addomesticata nell’immagine del gioco23 – che soggiace all’opera. Questi che sembrano giocattoli di legno sono proprio il simbolo di ciò che l’uomo può costruire, fabbricare, intagliare con le proprie mani. In altre parole, la poiesis.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Fig. 1. Alberto Savinio, Il sogno di Achille (1929).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



Fig.2.  A. Savinio, La navire perdu (1926).

 

Veniamo ora ad un altro punto cruciale nel rapporto fra Savinio a Mavilis, che si lega strettamente anche all’idea di grecità, ovvero alla questione della ricerca di un’identità, che nel poeta greco si esprime attraverso le battaglie per l’indipendenza della Grecia e per il riconoscimento formale della lingua demotica. Nel gennaio-febbraio 1952, pochi mesi prima della sua morte, in seguito alla lettura di un profilo biografico pubblicato sul numero 91 della rivista Elleniké Demiourghia, Savinio scrive un nuovo testo su Lorentzos Mavilis, che pubblica in terza pagina sul Corriere d’informazione del 16-17 febbraio, col titolo “Metamorfosi del vecchio poeta”. In questo articolo, Mavilis assume una nuova forma, radicalmente diversa, almeno in apparenza, rispetto a quella che emerge nella biografia scritta diciassette anni prima. La figura dell’uomo dimesso e malinconico, il poeta leopardiano che Savinio aveva conosciuto nel 1906 cede il posto al patriota, che, nel 1912, a cinquantadue anni, scende nuovamente sul campo di battaglia contro i turchi, per l’indipendenza dei territori greci che erano ancora sotto il dominio ottomano.

 

Maledetta dalle madri, quale centrale di vita tuttavia è la guerra! Ricordo l’immagine di Mabili laggiù, nel 1906, sul molo di Corfù: il Mabili pesante, vecchio, povero, umiliato; e guardo qui davanti a me, nella Elleniké Demiourghia, la fotografia di Mabili sei anni dopo, capitano garibaldino: un Mabili baldo, aitante, giovane, nel quale energia e speranza hanno messo una nuova spina dorsale.24

 

La passione patriottica e la possibilità di far valere sul campo le proprie ragioni avevano incredibilmente rinvigorito il poeta.
     Dimenticando, forse, i suoi stessi trascorsi, e gli anni giovanili in cui anche lui aveva cercato con ardore un’identità nazionale,25 che la nascita greca gli aveva in parte negato, Savinio rivede in maniera leggermente critica il sentimento patriottico del poeta greco.

 

Non era il nazionalismo di Mabili un poco di maniera? Non era simile al filo gallismo di Apollinaire? Non era anche in lui, “sradicato”, il bisogno di riprendere radici nel suolo, in “un” suolo?26

 

È importante, però, ricordare che negli ultimi dodici anni circa di vita (a partire, cioè, dallo scoppio della Seconda guerra mondiale fino al 1952) Savinio aveva sviluppato una forte avversione – scaturita anche dal ripudio del regime e della cultura fascista – nei confronti delle mentalità legata ad un pensiero unico e al desiderio di raggiungere inutili e inesistenti certezze; e forse l’idea stessa di nazionalismo era stata accostata a questa mentalità chiusa. Il confronto metaforico fra tolemaico e copernicano (sistema di pensiero chiuso su se stesso e sullo spazio angusto in cui riduce l’universo, il primo; aperto sulla pluralità delle infinite possibilità del cosmo, il secondo) diventa per lui un cavallo di battaglia. La sua ideologia poetica e politica si era riversata sempre più su posizioni di apertura all’altro – che, oltretutto, la sua cultura internazionale aveva comunque sempre favorito –, pur sulla base di un discorso nel quale le identità locali non dovessero affatto svanire a favore di un’unica identità sovra-personale e sovranazionale. Il discorso è affrontato più in sede poetica che spiccatamente politica (anche per una costituzionale, presocratica avversione di Savinio nei confronti della specializzazione dei saperi), ma porta comunque ad un gruppo di scritti che possiamo definire “politici”, pubblicati sul Corriere della sera fra 1943 e 1944, e raccolti in Sorte dell’Europa (Bompiani, 1945), dai quali si evince una peculiare posizione europeista, che non ha molto in comune con l’idea più diffusa di europeismo.
     Nonostante ciò, la sensazione di sentirsi sradicato e apolide non è scomparsa del tutto; e non può mancare, nel profondo dell’animo dello scrittore, una certa empatia nei confronti di chi sentiva il bisogno di trovare una propria identità, anche a dispetto di questioni anagrafiche (Savinio) o familiari (Mavilis). Il nazionalismo di Mavilis, infatti, non è distante da quello dello scrittore italiano nei suoi anni giovanili, e combatte contro le sue stesse origini non greche. Per lui, infatti, l’appropriazione di un’identità greca è una questione meditata e costruita su un contesto culturale e spirituale che gli si era radicato nel profondo, e che andava di pari passo con la sua formazione e la sua cultura di stampo chiaramente internazionalistico. La passione patriottica di Mavilis si inscriveva a pieno titolo nel contesto delle correnti nazionalistiche ottocentesche che si basavano sull’idea di liberazione da un potere tirannico e illegittimo, e che fondavano il proprio nazionalismo non sulla semplice affermazione di un potere che si riconoscesse in una comunità, ma sull’affermazione di stati e governi i cui cittadini potessero sentirsi liberi, oltre che uniti. Leggendo qualche riga di una lettera scritta dal fronte, in un italiano un po’ contorto, alla sorella Ester, vedremo che l’interesse degli stranieri verso la causa greca funge, per il poeta, addirittura da giustificazione della causa stessa.

 

…la nostra causa è santa e giusta, la più giusta che vi possa essere. Chi potrà tacciarmi di aver agito leggermente seguendo anch’io le sorti di questa guerra per cui si interessano tanto anche gli stranieri stessi da venirsi esporre agli stessi pericoli ai quali ci esponiamo noi?

 

Il frammento finale di questa stessa lettera è ripreso (ma con qualche licenza, finalizzata ad addolcirne un po’ lo stile)27 anche da Savinio, nella biografia dedicata al poeta. Ma citiamo ancora dall’originale:

Perciò, chi sa, forse potremo vivere assieme ancora[,] felici in una patria felice e libera[,] e onorati in una patria onorata.28

  

     Ma la parte più importante della conquista di un’identità, e segnatamente di un’identità greca, passa attraverso la lotta che Mavilis aveva condotto, anche dagli scranni parlamentari, per l’affermazione della lingua popolare, contro la lingua togata dell’ufficialità: la Katharevousa. La lingua è lo specchio dello spirito di un popolo, ed entrambi gli scrittori mostrano di saperlo. A tale questione – che soltanto nel 1976 giungerà ad una fine – Savinio dà grande rilevanza nella sua biografia di Mavilis (così come in altri scritti, quali ad esempio la già ricordata “vita” di Isadora Duncan). La Katharevousa, la lingua “pura”, aveva avuto una sua importante funzione per la popolazione greca nei secoli di dominio turco, proprio all’interno di dinamiche identitarie.29 Da tempo, però, aveva perso la sua duttilità e non era più parlata dal popolo, che aveva una sua lingua semplificata, ma non per questo priva delle più alte capacità espressive. Quella dei puristi, Savinio la definisce una lingua «imbalsamata», che imitava ancora il bizantino dei vangeli «nella rigidità delle articolazioni e nell’arcaicità dei vocaboli»; una lingua «inamidata» e «irta di spine», ovvero debordante di accenti e di spiriti, che ormai non aveva alcun futuro.
     La lingua demotica, invece, quella che lui chiama Maliarà (termine per il quale non abbiamo trovato altri riscontri), era l’unica che potesse assolvere il ruolo di mezzo d’espressione dello spirito greco e l’unica che potesse esprime la cultura di un popolo e farsi carico della sua tradizione.

 

La Maliarà è lingua colorita ed efficacissima. […] È ricca di sinonimi. Offre tali possibilità alla freddura, che l’argot in confronto ha la gravità di un linguaggio aulico. E per un popolo naturalmente spiritoso e caustico come il Greco, non fa bisogno dimostrare quale importanza abbia la freddura. La Maliarà insomma è una lingua duttile e giocosa, non meno certo, e forse più dello ionico di Omero e dell’attico di Platone. Strumento mirabile per una lingua che non respinge le sottigliezze, le sfumature, la varietà e molteplicità dei significati, che non ha paura di questo gioco divino: il bisenso.30

 

I caratteri fondamentali di una lingua risiedono proprio in questa sua capacità di sintetizzare un modo di vivere e di pensare, e quindi di essere attuale.

 

Inutile dire che la parte più intelligente e viva della Grecia intellettuale parteggiava per i «Pelosi». Gli scrittori in gamba si adopravano per parte loro a fornire a questa lingua senza passato né tradizione31 le necessarie patenti di nobiltà. Uno degli apostoli più ferventi del «volgare» era il poeta Lorenzo Mabili. Si qualificava da sé «ultravolgarista».32

 

Con tale attributo, in effetti, Mavilis si definiva, in una lettera del 1907 ad Eliseo Brighenti33 – importante studioso italiano di letteratura greca e neogreca – contribuendo così a portare il suo «apostolismo» oltre i confini della Grecia.
     A questo punto, un ulteriore parallelo ci riporta alla vita di Savinio. Nelle dinamiche che accompagnano la sua ricerca di identità, anch’egli infatti – che non poteva definirsi madrelingua italiano – aveva dato una grossa importanza all’appropriazione della lingua, e alla costruzione di un linguaggio che, col tempo, si raffinerà sempre più, in direzione di un’illuminata semplificazione. In realtà, l’italiano del primo Savinio fonde disinvoltamente la tendenza alla sintesi con una sintassi che conserva un’eco ottocentesca (propria di chi, appunto, apprende un idioma, senza esserne madrelingua). Col tempo, però, pur senza abbandonare del tutto i suoi tratti più paradossali, acquisterà «chiarezza, leggerezza e amenità»,34 scrollandosi di dosso il gravame della retorica e del purismo. Non mancano esempi che dimostrano quanto esplicita e meditata sia per Savinio tale ricerca. Fra i tanti, sarà forse utile ricordare una postilla del 1940 a margine di una copia dei Lirici greci tradotti da Salvatore Quasimodo, con la quale lo scrittore fornisce una traduzione alternativa di un componimento di Saffo (Plenilunio), che ci dice molto sulle peculiarità della sua lingua: termini come astri e leggiadra sono sostituiti dai meno aulici stelle e bella, mentre l’andamento del periodo non teme di esprimersi in una forma più quotidiana, in cui è comunque visibile un certo lavoro di ricerca stilistica.35
     Sia per Savinio che per Mavilis, parliamo – tutto sommato – di un meccanismo di semplificazione del linguaggio, che non serve certo a banalizzare la vita e la cultura, bensì a chiarirla e ad approfondirne i fatti più reconditi. La ricerca di una lingua chiara e comune nasconde un desiderio di appartenenza cui un intero popolo possa far riferimento (Mavilis), ma anche la possibilità di fare agire la profondità della realtà sullo stesso piano di ciò che è in superficie (Savinio), e quindi nella quotidianità intellettuale e materiale, grazie ad un mezzo espressivo che possa coglierne appieno la totalità degli aspetti e portarli alla luce, sotto gli occhi di tutti.

 

 


1. Nonostante lo stesso Savinio collochi l’avvenimento nell’agosto del 1906, Gerd Roos, nel suo Giorgio de Chirico e Alberto Savinio: ricordi e documenti. Monaco Milano Firenze 1906-1911, Bologna, Edizioni Bora, 1999, p. 35, ritiene (con buona ragione) che quest’incontro sia avvenuto almeno alla metà del mese successivo.

2. Alberto Savinio, Narrate, uomini, la vostra storia, Milano, Adelphi, 1984, p. 133. Oltre che amico di famiglia, in realtà, Mavilis era anche parente dei de Chirico: «Mia nonna, spagnola, Adelaide Mabili y Buligni, era sorella del padre di Lorenzo Mabili, egli pure di origine spagnola» (A. Savinio, “Metamorfosi del vecchio poeta, in Corriere d’informazione, 16-17 febbraio  1952; poi in Id., Opere. Scritti dispersi. Tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di Leonardo Sciascia e Franco De Maria, Milano, Bompiani, 1989, pp. 1497-1501; e quindi in Id., Opere III. Scritti dispersi 1943-1952, a cura di Paola Italia, Milano, Adelphi, 2004). La questione è approfondita e chiarita anche in G. Roos, op. cit., p. 35.

3. La definizione di ritratto «misto» o «paradossale» è attribuita alla peculiare descrizione di alcuni personaggi delle opere di Sallustio e di Tacito. Esso è caratterizzato da una sintassi spezzata e incostante, fatta di frasi brevi e lampanti, e da accostamenti stilistici e contenutistici improvvisi e stranianti; il tutto secondo i criteri più riconoscibili dell’inconcinnitas. Tali definizioni si devono a Paolo Cugusi e ad Antonio La Penna. In particolare, per il ritratto «paradossale», cfr. A. La Penna, “Il ritratto «paradossale» da Silla a Petronio”, in Rivista di filologia e di istruzione classica, 3a serie, XXVII, 104, 1976, pp. 270-293; poi in Id., Aspetti del pensiero storico latino, Torino, Einaudi, 1978, pp. 193-221.

4. Con questo aggettivo ironico e irriverente Savinio si riferisce alla lingua demotica, il neogreco.

5. A. Savinio, Narrate, uomini…, cit., p. 143.

6. Questa la traduzione fatta da Savinio. Ivi, p. 146. Purtroppo, non abbiamo a disposizione una versione originale del testo, ma cfr. anche Bruce Merry, Encyclopedia of modern Greek literature, Westport, Greenwood Press, 2004, p. 265, che traduce: «There is no such thing as a vulgar language; there are only vulgar people».

7. Cfr. il parallelo fra i due poeti che fa in Metamorfosi del vecchio poeta, ora in A. Savinio, Opere. Scritti dispersi. Tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di Leonardo Sciascia e Franco De Maria, Milano, Bompiani, 1989, p. 1499: «Questo Leopardi della Grecia [Mavilis] (Leopardi nella vastità e profondità degli studi, Leopardi nell’amore alla perfezione letteraria, Leopardi nell’amore alla libertà, Leopardi nel laicismo mentale, Leopardi nel sentimento malinconico della vita, Leopardi nel pessimismo, Leopardi nella retrovisione mentale)…». Sarà bene ricordare anche che Lorentzos Mavilis è stato il primo traduttore di Leopardi in Grecia. Nel 1885 aveva infatti tradotto in neogreco Il sabato del villaggio, anche se in una maniera che molti critici ritengono ampiamente indipendente dal testo originale. Proprio questa, però, è una delle caratteristiche che rende interessante tale traduzione, perché – in relazione a ciò che diremo in seguito sulla questione della lingua demotica – in questo frangente «l’originale leopardiano viene riconosciuto come un campo appropriato e molto fertile in cui sperimentare sia le capacità traduttorie sia l’efficacia della propria lingua» (Christos Bintoudis, Leopardi in Grecia, Roma, Bulzoni, 2012, p. 75; la citazione è tratta dalla recensione al saggio di Bintoudis fatta da Ilaria Batassa in Oblio, III, 9-10, 2013, p. 173. La rivista è reperibile gratuitamente in internet: http://www.progettoblio.com/downloads/Oblio,III,9-10.pdf). 

8. Questo schema di avvio che prende spunto dall’aneddoto personale per poi intrecciarsi con la vita del biografato si ripete in buona parte degli scritti biografici di Savinio.

9. A. Savinio, Narrate, uomini…, cit., p. 133.

10. G. Roos, op. cit., p. 14.

11. Corsivo mio.

12. A. Savinio, Casa «la Vita», Milano, Adelphi, 1988, p. 17.

13. Questo richiamo, però, non è certo privo di grandi differenze rispetto all’ipotesto. Lo sguardo di Savinio, infatti, per quanto vada dall’osservazione al pensiero (la memoria), rimane comunque confinato nel mondo materiale di una descrizione ambientale, che nella poesia di Leopardi è limitato ai soli primi tre versi. Mentre nel componimento leopardiano si marca una distinzione fra finito e infinito spazio-temporale, in Savinio si risolve tutto nella dimensione del tempo, visto il movimento che va dall’osservazione situata nel presente fino all’emersione di una memoria involontaria (e freudiana, diremmo), scaturita da un immagine feconda. Da questa prospettiva, quindi, Savinio sarebbe addirittura più vicino alla tradizione arcadico-petrarchesca, nella quale un pretesto descrittivo di un paesaggio mette in moto la memoria delle esperienze passate, ambientate in luoghi ben definiti, ma l’eco della poesia leopardiana e, in particolare, dello scarto improvviso fra piano esteriore e piano interiore, sembra troppo presente, in questo scritto di Savinio, per poter essere sottovalutata. Riguardo alle interpretazioni dell’Infinito utilizzate in questo confronto cfr. Michel Orcel, Il suono dell’infinito, Napoli, Liguori, 1993; Luigi Blasucci, Leopardi e i segnali dell’infinito, Bologna, Il Mulino, 1985; ma soprattutto Marco Santagata, La letteratura nel secolo delle innovazioni. Da Monti a D’Annunzio, Roma-Bari, Laterza 2009.

14. Corsivo mio.

15. A. Savinio, Vita di Enrico Ibsen, Milano, Adelphi, 1998, p. 9. In questa breve citazione è racchiusa buona parte della poetica e dell’ermeneutica saviniane. Uomo lirico e uomo frivolo coincidono nella visione del mondo dello scrittore. L’uomo leggero e «privo di scopo» , che – come vedremo – ingaggia un’inesauribile battaglia contro il gravame della retorica nella vita artistica e culturale, nonché quotidiana della modernità, può essere riconoscibile sia in Savinio che in Mavilis.

16. Anche se, in questa sede, non è possibile affrontare il discorso, si impone almeno un accenno alle tematiche del doppio e del perturbante, soprattutto viste le implicazioni che possono avere in una riflessione che parta dalla ricerca dell’identità in uno scrittore come Savinio. Che egli affrontasse il discorso dell’alterità partendo da una concezione freudiana è testimoniato da molti scritti di varia natura, a partire dagli anni Trenta. In particolare, il discorso filologico da cui Freud prende le mosse nel suo famoso saggio del 1919 Das Unheimlich, che porta, in sintesi, a far coincidere in maniera inquietante il domestico e l’estraneo, sembra avere un riflesso, ad esempio, nel racconto “Il compagno di viaggio” (pubblicato una prima volta su La Stampa del 23 agosto 1942; poi in Tutta la vita, Milano, Bompiani, 1945; vedi quindi l’edizione Adelphi, 2011, pp. 131-146), o nel brano finale dell’introduzione a Casa «la Vita», nel quale la morte, quest’oltre ignoto e incomprensibile, viene riconosciuta come «la più familiare delle condizioni» (cit., p. 16).

17. A. Savinio, Narrate, uomini…, cit., p. 137.

18. Ivi, p. 134.

19. Si vedano, ad esempio, la descrizione e la funzione del personaggio Apollo nella “vita” di Isadora Duncan – biografia “greca” anch’essa, che ha tanti punti tematici e narrativi in comune con la “vita” di Lorentzos Mavilis. Ivi, pp. 229-299.

20. Ivi, p. 136. Insieme allo Jugend (1896-1940), il Simplicissimus (1896-1967) era un’importante rivista umoristica illustrata, pubblicata a Monaco di Baviera a inizio Novecento, che – secondo Gerd Roos – i fratelli de Chirico conoscevano molto bene, e alla quale i due fanno riferimenti «indirizzati sia alla dimensione estetica sia a quella satirico-umoristica» (G. Roos, op. cit., p. 82).

21. Gli dèi e gli eroi di Savinio, Palermo, Sellerio, 1983, p. 33.

22. G. Debenedetti, Savinio e le figure dell’invisibile, Parma, Monte Università Parma Editore, 2009, pp. 33-34.

23.  Non dimentichiamo che il gioco è icona dell’infanzia, e che questa è una delle maggiori tematiche della poetica di Savinio.

24. A. Savinio, Metamorfosi del vecchio poeta, cit., p. 1500.

25. Tante le testimonianze concrete, a tal riguardo, a partire proprio dalle prose di Hermaphrodito fino agli articoli scritti su «La vraie Italie» o allo scambio epistolare con Ardengo Soffici. Fra i testi in cui è affrontata (mai in maniera esaustiva) la ricerca di identità nazionale in Savinio, cfr. almeno Paola Italia, Il pellegrino appassionato. Savinio scrittore 1915-1925, Palermo, Sellerio, 2004.

26. A. Savinio, Metamorfosi del vecchio poeta, cit., p. 1500.

27.  Addolcirne lo stile non per un retorico desiderio di armonia di impronta “classica”, ma quasi per restituire allo stesso Mavilis (e di riflesso riconoscere a sé stesso) quella limpidezza e leggerezza del linguaggio che entrambi gli scrittori – in un modo o nell’altro – hanno costantemente ricercato.

28. Lettera spedita da Arta, datata 4 aprile 1897, riportata in Ta érga tou Loréntsou Mavílī, Alessandria d’Egitto, Kasimátīs & Iōnás, 19232, p. 201. Il volume è disponibile gratuitamente in internet all’indirizzo: http://www.projethomere.com/travaux/bibliotheque_homere/Lor_mabilis.htm

29. La permanenza della lingua della liturgia ortodossa, in particolare, aveva contribuito a sorreggere lo sforzo secolare di mantenere cultura, tradizioni e identità greche, contro la cultura ufficiale imposta dall’Impero ottomano.

30.  A. Savinio, Narrate, uomini…, cit., p. 139.

31. Bisognerebbe forse specificare che mancava di passato e tradizione ufficiali.

32. Ivi, p. 142.

33. Lettera scritta da Corfù, datata 9/22 settembre 1907, in L. Mavilis, Ta érga…, cit., p. 202.

34A. Savinio, Avvertenza alla seconda edizione di Dico a te, Clio, Firenze, Sansoni, 1946, ora ristampata nell’edizione Adelphi del 1992.

35. Le postille apposte su una copia del libro (catalogata come SAV. 668) presente nella biblioteca privata dello scrittore  (interamente custodita presso l’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Scientifico Letterario G.P. Vieusseux di Firenze) sono pubblicate da Simone Dubrovic, “Le postille di Alberto Savinio ai lirici greci”, in Filologia e critica, XXXI, 3, 2006, pp. 357-375.

 

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Paola Artero

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