N°3 / Ecologie de la création

Postmoderno ed ecocritica: Problemi, paradossi, prospettive

Peter Carravetta

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Postmoderno ed ecocritica: Problemi, paradossi, prospettive

Peter Carravetta[1]

 

Where but to think is to be full of sorrow

          Keats, “Ode to a Nightingale”

1. Introduzione: a partire dal postmoderno rettamente inteso

Secondo ciò che affermano alcuni esponenti dell’ Ecocriticism (Joni Adamson), bisogna evitare di fare i critici  asetticamente distaccati dal loro oggetto di studio e introdurre, o lasciare che si esprima, una certa soggettività nel nostro lavoro. Devo dire subito che per buona parte della mia carriera mi sono occupato di avanguardie, e non solo di quelle letterarie e artistiche, ma anche di quelle dellealle frontiere del sapere in diversi campi, visto che, vivendo appunto tra due o tre mondi, due o tre  lingue e tre o quattro o cinque ambiti sociali e professionali, la nozione di limite, di frontiera, di attraversamento, mi è stata sempre presente. E come dirò tra poco, questa sorta di schizofrfrenia intellettuale intellettuale mi ha indotto indotto a indagare su cosa sia il sapere tout court, per cui, un po’ come Leopardi, da poeta sono diventato filosofo. E’ ironia della vita volle che nel tentacolare lungo varie frontiere cercando di capire come, dove e quando sappiamo quello che sappiamo, mi sono quasi sempre trovato a ritornare indietro, nel tempo e nello spazio, un po’ come il granchio, cha va avanti andando indietro (o cosi si diceva), e dunque nella geostoria, nei territori abitati da chi prima di me aveva vissuto simili condizioni di spaesamento, di nomadismo quantomeno della mente (per non fare il drammatico sulla mia esperienza personale di migrante).

Meno ponderosamente, nel dedicare oltre 30 anni allo studio della contemporaneità, con tre libri sul postmoderno (1984, 1991, 2009) ho anche tentato un modo per uscire dai vicoli ciechi in cui il postmoderno mi aveva condotto, con un libro dal titolo The Elusive Hermes. Method, Discourse, Interpreting (2012), di cui ci fu una versione preliminare in italiano, Il fantasma di Hermes (1996). La domanda alla quale voglio rispondere mi è stata posta dall’amica e collega Angela Biancofiore quando, allorché ricevette copia del suddetto The Elusive Hermes, fu colpita dalla citazione epigrafe al libro, pronunciata si dice dal Protagora storico: Panton chrematon metron estis anthropos, che tipicamente viene tradotta con “L’uomo è la misura di tutto” [o delle cose; oppure di cio’ che è] e che dunque, mi fa capire Angela, riflette in un certo senso un antropocentrismo che poco si addice ai tempi del post-umano, dell’ecologia,  della stessa critica che avevo effettuato nei riguardi dei modernisti e alcuni postmodernisti nell’altro mio libro, Del postmoderno. Critica e cultura in America all’alba del duemila (2009).

Ho spiegato subito che nel libro intitolato a Hermes, secondo un attento studioso, Edward Schiappa, o dei classici, Edward Schiappa una ricostruzione dell’uso di determinate frasi all’epoca dei presocratici, ci autorizza a tradurre l’epigramma con: “di tutto cio’ che è, la misura è l’umanità,” che è tutt’altra cosa, poiché toglie l’enfasi dall’individuo elevato a generalità, o del singolo che si atteggia a Essere Uno e/o quindi divino, in quella problematicissima commistione di monoteismo e platonismo di cui volens nolens siamo tutti eredi e di cui potremmo parlare ad infinitum. La nuova prospettiva aperta dalla ri-traduzione e quindi ripensamento del monito protaforeo ci dice che e’ l’essere umani, la nostra umanita’, la base ontologica e ontica su cui erigere qualsia sistema di socialita’, del sapere stesso. Ed e’ una pluralita’, un io-con-altri, che rappresenta l’essenza, non l’io singolo individuum, monade. In questa sede,in questo intervento ci limiteremo ad additarne solo alcuni momenti distruttivi se non nefasti un po’ più avanti. Sta di fatto che è la nostra umanità, il nostro sentirci esseri umani in una collettività e, potenzialmente, insieme ad altri esseri così diversi da noi, che ci impone diinfluisce sulle possibili strade uscire, in epoca tardo moderna, dalla schiavitù del cogito ergo sum, e la distinzione, pre, radicato ini un dualismo ontologico ed espistemologico, ad un tempo di res cogitans e res extensa.

In breve, avendo individuato certe irrisolvibili aporie nelle varie teoresi e pratiche dei critici postmoderni, avevo cercato una strada nuova predicata sulla tricotomia di teoria/metodo/retorica, e sulla necessità di   dover tener sempre presenti almeno tre riconoscere luoghi di riferimento in qualsiasi nostro atto interpretativo in cui l':   io del parlante in quanto membro di una società (icomunita’ (L’io deve esistere, i morti non parlano) emerge ): rispetto ad altri che lo determinano. e gli attribuiscono una identita’ come mebro di un gruppo o societa’. Non esiste un “io” senza “gli altri”, senza una comunità di sorta ti(Sartre docet), comunque un non-io con cui mi misuro e rispetto al quale decido come parlare, come manifestare la mia umanità, e quel qualcosa che c’è di mezzo, che per ovvi motivi euristici chiamo lingua, o quelche chose que nous permettre d’avoir une relacion, ma che potrebbe consistere in altro universostere in qualsiasi altro congegno semiotico, come pure il non-linguistico (le emozioni, la natura, la paura, l’alienazione, ecc.) ma che pero’, ancora una volta, make sense, acquistano valore intellettuale, connettivo, inter-soggettivo, atraverso una modalità espressiva, quindi secondo un modulo retorico, o l’uso del linguaggio questa volta storicamente e socialmente inteso.

Ma, ripeto, questo Hermes viene dopo il Del postmoderno. E che cosa è, o è stato, il postmoderno? Riducendo ai minimi termini i concetti principali che lo contraddistinguono, ecco un decalogo, su alcuni aspetti sui quali magari possiamo ritornare. Essi sono da prendere nella loro implicita complessità, perché ho scoperto che non tutti i critici ecologici veramente hanno “superato” o hanno “assimilato” il meglio di quanto i teorici dell’epoca postmoderna ci hanno spiegato. Ripropongo una pagina dal mio Del postmoderno:

a) Tutta la realtà sociale è, senza possibilità di scampo, un gioco di simulacri, falsi idoli ed eventi incredibili ed inaffidabili (Baudrillard);

b) L’esplosione di un nuovo tipo di Impero (policentrico ed invisibile, secondo Negri, mentre per altri, come Harvey, brutalmente evidente nella sua spinta ad accumulare, o ancora controllabile, secondo Brzezinski);

c) Attacco del supercapitalismo planetario, della società di mercato, o dell’Età della Globalizzazione che condiziona tutti gli aspetti della vita (Robertson, Wallerstein, Jameson)

d) Trasformazione delle relazioni politiche internazionali in un Nuovo Ordine, o Dinamica Mondiale (Wright: teoria dei giochi a somma non-zero);

e) La teoria della Monomente, o del conformismo politicamente corretto (Kahn) e del controllo orwelliano dei mass media (Chomsky);

f) La visione epistemologicamente nuova degli orizzonti tecnovirtuali (Appadurai);

g) La complessa metafora critica della Creolizzazione come Weltanschauung della fin-de-millennium (soprattutto non-americani: Grizinski, Glissant, Cruz, Bhabha, Gnisci);

h) L’età sia del post-colonialismo, sia della crisi del nazionalismo (Hobsbawn, Spivak, Bhabha, Said);

i) Il punto di vista, ora quasi 'classico,' di Lyotard: l’età della fine delle grandi metanarrative illuministe, come l’emancipazione universale e l’idealismo;

j) Le culture del nichilismo e della resa alla tecnologia (filosofi continentali: Postman, Taylor ed altri);

k) Paradossi della formazione del canone, multiculturalismo e pluralismo di fronte a politiche di identità ed empowerment.

l) Fine della Storia, Fine della Metafisica e Fine dell’Utopia. Si potrebbe parlare di "Finismo" come metafora principale per la fine del millennio.

m) Dissoluzione della teoria e della pratica delle Avanguardie e decisivo trionfo della mercificazione dell’estetico e dei manufatti culturali

Nel mio libro dedico dei capitoli alla critica femminista, ai Cultural Studies, agli studi sulla popular culture, alla globalizzazione, alla filosofia continentale, al nuovo storicismo, e allo statuto delle poetiche e della critica letteraria. Mancano all’appello le migrazioni e l’ecocritica. Al primo ho poi dedicato un libricino a parte, al secondo…ho aspettato, sia perché era in parte influenzato dai post-colonial studies, sia perché non volevo che un libro di 500 pagine diventasse uno di 600!

2.  Storia e concetti dell’ecocritica.

Cerchiamo di abbozzare uno schizzo dei temi principali e rilanciare alcuni temi per sentire da voi se alcune mie perplessità hanno ragione di essere. Le origini di un campo di studio di solito si fanno risalire a chi per la prima volta ne ha metacriticamente messo in risalto l’esistenza, struttura e funzione, il che non vuol dire che non se ne fosse parlato prima. Testi diventati ormai di base sono i  lavori di Jonathan Bate, Romantic ecology (1991), Alexander Argyros, A Blessed Rage for Order (1991), Vandana Shiva, The Violence of the Green Revolution (1991) e Biopiracy: the Plunder of Nature and Knowledge (1997), Karl Kroeber, Ecological Literary Criticism (1994), Laurence Buell, The Environmental Imagination (1995), Joseph Carroll, Evolution and Literary Theory (1995), Robert Storey, Mimesis and the Human Animal (1996), David Abram, The Spell of the Sensuous. Perception and Language in a More-Than-Human World (1996), James McKusick, Green Writing: Romanticism & Ecology (2000), Steven Rosendale, ed., The Greening of Literary Scholarship. Literature, Theory, and the Environment (2002), Arundhati Roy, The God of Small Things (1997) e The Algebra of Infinite Justice (2002).  Utili le antologie di William Adams & Martin Mulligan, eds., Decolonizing Nature. Strategies for Conservation in a Post-Colonial Era (2003). Precursori che sono stati rivalutati dopo qualche anno, dopo, cioè, questa ondata degli anni novanta del secolo scorso, sarebbero  Joseph Meeker, The Comedy of Survival: Studies in Literary Ecology (1972), Alfred Cosby, The Columbian Exchange (1973) a Ecological Imperialism (1986),  e William Ruckert, Literature & Ecology. An Experiment in Education (1987) che ha coniato i termini “ecocriticism.”
Andando ancora più indietro, cioè ancora prima che la parola e il concetto venissero definiti, ma chiaramente opere fondatrici delle sensibilità che stanno a monte del progetto ecologico-letterario (dobbiamo mettere da parte l’ecologia come scienza per il momento, anche se non se ne potrà non parlare in qualche modo), sono due libri di Rachel Carson, The Edge of the Sea (1955) e il classico Silent Spring (1962). Quest’ultimo ha segnato un’epoca, dischiudendo i pericoli dell’intossicazione delle piante (anche quelle che consumiamo come alimentari), alla pari di Aldous Huxley, il quale con Brave New World marca l’arrivo delle distopie tecnologiche, e di Jane Jacobs, il cui The Death and Life of Great American Cities rinnova d’un colpo l’urbanistica. Infine c’è da ricordare Marshall McLuhan per le comunicazioni di massa con Understanding Media. Opera isolata nel passato è Aldo Leopold, Thinking like a mountain, del 1949. Libro che invita a superare l’impasse tra scienze e studi umanistici segnalati da S.P. Snow The Two Cultures e ancora da Huxley con Literature and Science, del 1963. Faccio menzione di questi testi perché un altro volume influente degli anni settanta e che ha avuto e continua suscitare dibattito negli studi ecologici è Edmund Wilson con Sociobiology, che all’epoca ricordo rigettai come un tentativo di riproporre sotto nuove spoglie il comportamentismo à la B.F Skinner (che si ispira nientemeno che al Thoreau di “Walden Pond” già nel titolo, Walden 2, o un nuovo positivismo coadiuvato dagli studi della neurobiologia.

Ma veniamo agli argomenti. La studiosa Val Plumwood ci fa notare che esiste un imperialismo ecologico che sfrutta le nuove tecnologie al servizio dei grossi capitali ma che è filosoficamente marcato da un dualismo di fondo (le vecchie opposizioni natura/cultura e uomo/ambiente). Purtroppo in quanto ecofemminista, anche qui troviamo l’annosa questione che la ragione stessa è maschilista, e viene piegata a un’ idea della natura che serve all’uomo, al maschio, che l’uomo domina. Abbiamo inoltre la prospettiva della biocolonizzazione e il nuovo problema della biopirateria, di cui parla Vandama Shiva, e secondo la quale ancora una volta le grossi multinazionali devastano forme di agricultura secolari con l’imposizione di semi geneticamente alterati e brevettati, creando aree di dipendenza e povertà, argomento trattato anche dalla Arundhati Roy nei sui scritti sulle sciagure apportate da Monsanto e Dupont in alcune aree dell’India. Questo stravolgimento di equilibri ancestrali mettono in risalto delle dinamiche di management planetario coatte.

Argomento scottante, perché slarga su altre aree di studio, è il razzismo ambientale. Secondo Deane Curtin, sia a livello di teoria che di prassi, esiste un tale rapporto tra razza e ambiente secondo cui l’oppressione dell’una è connessa all’oppressione dell’altro, e viceversa. Basta pensare alle favelas di Rio o alle bidonville attorno Nairobi. È un fenomeno che si studia in area sociologica per il modo in cui la connessione risalta: discriminare e radunare i poveri va tipicmente di pari passo con la disgregazione e deperimento dell’immediato ambiente, a partire dalle abitazioni e dai servizi sociali e di sanità e quindi al rapporto con il mondo nel senso più ampio. Qui come altrove nasce il pernicioso circolo retorico vizioso ove la discorsività – sono gente sporca – si ritorce sulla materialità, – vedi come vivono – che giustifica determinate decisioni sociali di mantenimento: p.e.,  quasi tutte le discariche tossiche e nucleari e le piante per il trattamento di residui o lo smistamento di rifiuti si trovano in zone di povertà abitate da marginali di vario tipo, in particolare gente di colore e indiani americani o amerindi.

Il limite di questa postazione critica è che generalizza troppo e utilizza le stesse coppie oppositive di cui si lamenta il continuato utilizzo nella retorica pubblica. Bianchi vs neri, aree salubri vs aree infette, primo mondo vs terzo mondo (anche quando il terzo mondo è un’isola all’interno del primo, come nel caso degli amerindi). Altra categoria della critica ecologica (e che non capisco bene) è lo “speciesism” ossia la tendenza a privilegiare in tutto e per tutto la specie animale homo sapiens a scapito di altre specie di viventi sul pianeta, le quali di conseguenza vengono automaticamente considerate disponibili e a nostro servizio (e abusi), o legittimate eticamente. Non fa più notizia che ogni giorno facciamo sparire centinaia di specie di animali e piante, come non ci sorprende leggere di come vengono allevati bovini, suini e polli.

Qui potremmo dire che secondo gli studiosi di biologia evolutiva negli ultimi 4-500 milioni di anni innumerevoli sono state le specie che sono nate e dopo millenni scomparse per varie ragioni. Ma la bioetica la pensa diversamente. La nozione è ovviamente radicata in un vasto processo storico. In un coraggioso capitolo del libro di Graham Huggan e Helen Tiffin, Postcolonial Ecocriticism. Literature, Animals, Environment (2010), intitolato “Christianity, cannibalism and carnivory” (162-184), ci si ricorda che già nel Genesi, nell’episodio dell’arca di Noè, abbiamo presenti tutti gli elementi della dominazione patriarcale – sessismo, razzismo, tortura, assassinio, e, appunto, specisism – ove ques’ultimo termine denota il privilegio che il dio d’Israele conferisce all’uomo, dalla manipolazione delle scelte sessuali alla gerarchia di razze inferiori, fino all’invenzione di un fantastico teologhema (elaborato poi dalla Cristianità) secondo il quale la distruzione del creato e l’assissinio, e la sottomissione dell’ambiente, diventano una storia morale di salvazione. Dopo di che questa impostazione viene considerate “naturale”…da cui sgorga l’ossessione con l’antropofagia, dicono gli autori: dopo aver consultato parecchi studi antropologici sull’argomento, sembra essere una preoccupazione più profonda per i cristiani che per gli aborigeni e altri “selvaggi” di altri continenti. Interessante connessione.

Un primo punto che possiamo fare qui è che per concepire una società post-imperiale e rifondata dal punto di vista ambientale bisogna innanzitutto rivedere la categoria dell’umano, la quale non va più pensata e definita in contrapposizione alla natura, ma come una parte, sia bene forse la più influente, nella catena dell’essere, per usare una vecchia frase di Lovejoy (che ambientalista non era). Prossimi agli studi sul colonialismo e alla storia di determinate discipline, le tematiche dell’imperialismo ecologico ci consentono di rivedere la storia d’Europa sotto altra luce. Sia coloni che colonizzatori, nel corso e dopo la Conquista, hanno trasferito pratiche e tecniche nelle Americhe che ebbero nefaste conseguenze, dai disboscamenti per nuove piantagioni ai prosciugamenti che hanno alterato le delte e i flussi d’acqua, all’introduzione di nuove piante che hanno causato radicali e veloci cambiamenti delle flora e della fauna locali, distrutto paesi e costruito città dove forse non era possibile, o non si doveva, costruire un centro urbano. Il risultato è risaputo: Non adeguarsi agli equilibri pre-esistenti significa introdurre trasformazioni che non sempre vanno nel senso che i progettisti si prospettano. Questa è una storia fin troppo nota, e non si discute sull’eccidio e meglio genocidio involontariamente causato dai batteri (morbillo, vaiolo, malattie sessuali) introdotti dagli europei in Nuova Spagna e altrove.

Ma per ció che riguarda l’assetto geologico, idrico, agricolo, forse è in qualche modo una critica facilona. Magari dopo parliamo delle critica alla dighe. Fatto sta che anche la gente  autoctona della nuova Spagna coltivava determinate piante – il mais, per esempio, e leggiamo che cercavano sempre di migliorare le condizioni e la quantità dell’usufrutto. L’introduzione di nuove tecnologie, connesse quasi tutte all’uso dei metalli, p.e.: una vanga di ferro non sarebbe stata necessariamente un disastro….se non fosse stato per il fatto che poi a zappare erano gli indios, e a comandare erano gli spagnoli. Cioè, non è necessariamente un male introdurre un fattore tecnico, utensili come estensione motore delle braccia, e dal momento che uomini e donne hanno effettuato la svolta dell’agricoltura, mettendo fine al nomadismo, credo sia accettabile l’ipotesi che tutti i popoli abbiano cercato di migliorare la produzione alimentare (anche Marx era d’accordo su questo).

In merito, Virginia Anderson scrive sull’importanza, in questo contesto, dell’introduzione di animali domestici, da soma e di guardia, e che ai nativi vennero presentati come modello di civiltà agricola che dovevano abituarsi a emulare e integrare nella loro vita. In questa prospettiva, che fa bensi’ parte del progetto di conquistare e sottomettere la natura, gli europei si ritennero superiori agli indigeni anche dal punto di vista etico-morale, perché i natives non avevano il senso della proprieté, non apprezzavano questo “bene” secondo alcuni divino, e che di conseguenza andava bene considerarli, alla fin fine, selvaggi. Anderson ci dà l’esempio della differenza, nella caccia, fra gli inglesi e gli amerindi, dove per gli uni è simbolo di uno sport, con tanto di ritualità urbanizzata (o aristocratica da vita di villa e di castello) per la classe medio-alta e comunque sempre in quanto incorpora uno stile del gruppo civile e colonizzatore, mentre per gli altri rientra in una dinamica di vita “naturale” nell’equilibro tra necessaria prodezza e abitudine del cacciatore per sopperire all’alimentazione, ma che vista dall’esterno automaticamente la qualifica come attività appunto da selvaggi.

Un altro punto sottolineato da McKusick è che tra gli obiettivi della Ecocriticism c’è la necessità di congiungere l’immaginazione all’impegno, advocacy in English. D’Accordo con lui è ancora una volta Deane Curtin (2005), quando sostiene che, nel caso dell’analisi letteraria che tenda a un’etica ambientalista, bisogna intravedere e tematizzare  una “giustizia ambientalista, una giustizia sociale, e una “giustizia economica” ma non come campi dissonanti o reciprocamente escludentisi, quanto come parti di un insieme fluido e comunque concreto. Da qui nascerebbe spontanea una certa advocacy, un tendere verso la promulgazione di precise azioni socio-comunitarie atte a risparmiare o proteggere il rapporto uomo-ambiente.

3. Problemi

Risorge qui, come si vede, il  paradosso su se la letteratura debba essere considerata prevalentemente un fatto estetico o un fatto di retorica strumentale mirante consapevolmente a dirigere il lettore/utente verso fini prestabiliti (e implicitamente più giusti e più equi). Non è difficile fare il passo ulteriore e capire da dove provenga la letteratura di protesta – vedi, p.e.: movimenti per la protezione delle foreste amazzoniche e delle miniere del Congo – la quale peró a ragione del suo obiettivo immediato deve realizzarsi tramite manifesti e slogan e azione diretta. Questo ci fa pensare, inevitabilmente, all’idea di engagement, o quantomeno di poesia civile nel senso che la letteratura, e le opere d’immaginazione in generale, debbano avere una funzione se non pedagogica, quantomeno di stimolo alla riflessione su determinati squilibri e abusi rispetto all’ambiente. Quasi tutti i testi che ho consultato ritornano in un modo o nell’altro su questa funzione, che va dall’informare nei testi critici o metacritici, a quello di  esemplificare (e vorrei aggiungere, allegorizzare, ma non tutti toccano questo tasto) i problemi del rapporto società/ambiente.

Qui si apre una questione che riguarda che tipo di letteratura, ossia quale genere, o retorica, da privilegiare, e sulla quale diremo tra un attimo. Ma una conseguenza teorica in senso alto, e complicatissimo nodo negli anni della crisi del marximo e dell’impegno politico negli anni 1970-80, riguarda la concezione del linguaggio che sottende questa prospettiva. Nel mio Del postmoderno ho esplorato le contraddizioni, le aporie, del nesso decostruzione-marxismo, nel senso che nel primo il linguaggio è primariamente inteso come sotto il dominio dei significanti, e con l’abolizione dell’importo della coscienza tetica (pensate alla generazione che segue Mearleu-Ponty, Sartre, Raymond Aron, ecc, come Roland Barthes, Jean Ricoardeu, Jacques Derrida, lo stesso Foucault,  e altri) non c’è possibilità concreta, o teoricamente coerente, per un discorso sul politico (e dunque sull’ambiente) poiché il significato, le signifié, e con esso il referente esterno al linguaggio, erano stati banditi, mentre per il marxismo e la critica impegnata (à la Sartre) ne costituiva l’asse portante: noi parliamo/scriviamo di/delle cose nel mondo, e noi parliamo/scriviamo per e con gli altri. In questa ottica, il ruolo medesimo del critico ecologico è messo in discussione, poiché non si vede come il suo intervento critico possa evitare di ricadere o nella babelica indecidibilità dei post-strutturalisti, e quindi sprigiona  contraddizioni ma non ne indica una strada plausibile per l’azione sociale, oppure rientra nella logica del discorso persuasivo delle realtà socio-politica, e tipicamente rischia di dileguarsi fra il politicizzante in mala fede e i mass media, o meglio, la propoganda e la pubblicità.

È vero che Chryll Glotfelty, tra altri, insiste che è cruciale che si approfondisca questo rapporto tra letteratura e ambiente fisico, anche per via della bioetica e la filosofia dell’ambiente, ma non affronta la questione filosofica di fondo, ossia fino a che segno il linguaggio si puó fare portavoce del mondo fisico (argomento già affrontato nell’800, con Pascoli per esempio). Infatti, il paradosso risale a Shakespeare: “a rose by any other name will still smell as good?” Una rosa sotto altro nome avrà lo stesso profumo? Tra i problemi e i paradossi, non ho trovato gran che sulla critica della scienza medesima (quindi dell’ecologia in senso stretto) in quanto anche questa è una costruzione sociale, ossia un sapere linguisticamente costituitosi (anche i numeri sono segni, come insegnano Husserl e Derrida) e legittimato da una certa comunità in un determinato periodo storico. È questo un grande tema del mio ultimo libro, The Elusive Hermes (2014), in cui dimostro che l’invenzione e sviluppo dei metodi non è discinto dalla sua natura retorica, dalla sua natura linguistica, e interpersonale (il sapere, l’epistema, è per qualcuno...), anche se dal 1600 in poi ci hanno fatto credere che col metodo si accede al sapere suprastorico, obiettivo, e con la retorica si accede al verosimile, alla doxa. In effetti, se avete letto di Foucault Les Mots et les Chose vi ricorderete che tra 5 e 600, con l’arrivo di quella che lui chiama l’Age Classique, la rappresentazione soppianta la somiglianza, e la simbolizzazione che prima, anche in Europa, legava persone e fatti, emozioni e mitologia, ambiente immediato e cosmo, cede il passo al regno dei segni che de-terminano, a distanza, l’oggetto, e lo spogliano di residui che non rispondono alla logica, alla tassonomia, a un sistema di manipolazione dello stesso sapere che andava costituendosi.

Jospeh Meeker già nel 1974 scriveva della necessità di esplorare diversi saperi e pensare in termini veramente interdisciplinari in maniera che scienza e arte non occupino settori non-comunicanti e antagonistici. È vero che poi gli umanisti hanno strafatto con l’ importazione di metodi e modelli razionali e matematici nella critica letteraria, ma quella ubriacatura è passata, e il dialogo tra l’umano e il non-umano è forse pronto a decollare. Assieme a Hogan e Tiffin, sembra che per la letteratura sia cruciale ricuperare la dimensione estetica,  onde evitare che si trasformi in metodologia ecocritica. Questo va bene, la critica è sempre metacritica e l’opera letteraria è sempre qualcosa di più ampio. Ma non ricadiamo in altro dualismo in questo caso, distinguendo quasi crocianamente tra la sfera estetica e quella logica o metacritica?

4. Possibilità

Dunque bisogna pensare al terzo-incluso, come dicevamo all’inizio, al linguaggio non solo del testo ma del contesto connettivo, che può benissimo trasmettere immagini e concetti, figure e cifre. Ciò non è elaborato dagli ecocritici che ho esaminato, ma quando dicono che la letterautra ci fornisce una riserva di metafore (e di simboli geoculturalmente collocati), forse siamo sulla buona strada. Le metafore collettive infatti si possono infine tradurre in operazioni di intervento socialmente trasformativi. Ora queste proposte, utili e stimolanti, possono dare adito a perplessità, perché sotto certi profili non posso non intravedervi un pizzico di idealismo utopistico. Per esempio, secondo Laurence Bell, l’ecocritica non è limitata a preferire il realismo ambientale e la scrittura naturalistica, ma è attenta anche a quelle forme di fiction (e, aggiungerei, di poesia) che sottolineano la natura o gli elementi naturali – paesaggio, flora, fauna – come entità a sé stanti, anziché come supporti per l’agire umano. Ottima idea, condivisa da quanti mirano a un inquadramento della natura senza la manu longa di homo sapiens. Ma poi mi domando:

A) entità a sé stanti? Davvero? Ma non siamo di nuovo  nella metafisica delle essenze, del platonismo più astrattizzante a sciatto, alla fenomenologia eidetica? E

B) ma non c’è sempre implicita una selettività, una scelta cosciente e quindi operativa quando dico ai miei studenti e colleghi e a tout le monde, guardate, questo scrittore – diciamo,  Chinua Achebe --  vi fa capire che abbiamo imposto a un paesino della Nigeria la nostra lingua, la nostra tecnica, la nostra forma mentis, e stravolgo il loro mondo “naturale”, e che, di conseguenza, bisogna passare un giudizio, sostanzialmente che, 

b1) non è giusto, e

b2) che dovremmo magari riparare il danno, e

b3) che non possiamo andare avanti cosi’ in futuro.

Una volta impostato questo modello, non sto anche dicendo che altre persone, altri campioni di homo sapiens, hanno usufruito dell’uso della ragione/retorica e, trovandosi al potere, hanno realizzato tale pirateria ambientale nel senso più ampio del termine? Nei miei due libri ho accettato l’idea che non esiste un dio o paradigma trascendente o transcendentale valido per tutte le genti del mondo, ma ho anche stipulato che, accettando l’idea dell’esistenza senza fondamenti, il flusso perenne, l’unico spazio-tempo concessomi per intervenire deve essere di natura regionale, circoscritta, in base a cio’ che un preciso ambiente mi sollecita a fare e dire rispetto ai membri della mia comunità. E a ragione di questa prospettiva, secondo me vera o plausibile possibilità di cogliere il meglio del postmoderno, che dico, forse come gli ecocritici, ricuperiamo qualcosa del passato che potrebbe frenare lo scempio di popoli e mondi ecologimante intesi, e cioè l’idea che bisogna riconquistare, o foggiare, una versione contemporanea della nostra umanità, nel senso anche della figura etimologica, del nostro humus, del nostro essere (ahimé, figura già cesellata nell’imo di uno dei più grandi monoteismi) fatti di terra e di spirito (pneuma, anima, soul), e in aggiunta, secondo l’altro grandissimo canone culturale, di fuoco e di acqua!

5. Prospettive

In base a questa sintesi di problemi e possibilità aperte al pensiero critico, ritengo che bisogna ricuperare, magari in maniera “debole,” qualche forma di intersoggetività. In questo senso, quando Huggan e Tiffin spostano l’ago della bilancia verso il politico, non possiamo non essere d’accordo, posto che ci rendiamo conto che entriamo nell’agora e nella assemblea dello scambio di idee, e non vorremmo per nulla imporre la nostra sola definizione di umano versus non-umano, perché ricadremmo nella stessa dialettica (non hegeliana) di inclusione vs esclusione, ossia del mio parere come adeguato a “salvare la terra” contro il tuo che evidentemente la “distrugge.” Anche perché di belle idee nobili e progressive ne abbiamo avuto nel nostra passato, europeo e non, e non sempre mi pare con risultati da emulare.

In altre parole, “non esiste una chiara frontiera tra il sostrato materiale e il contenuto cognitivo dell’informazione [enfasi aggiunta],” o della cultura amalgamata al nostro medesimo modo di pensare e relazionarci al mondo, almeno “da un punto di vista evolutivo” (McKusick 17)

Ma ritorniamo alla letteratura. Fatto sta che per secoli la letteratura ci ha di “riflesso” esposto un rapporto di dominio sulla natura e sugli animali in particolare, i quali sembrano esistere e posti là, pronti a servire, per i nostri bisogni, o per rappresentare, attraverso varie tecniche poetologiche come il correlativo oggettivo, e prima ancora attraverso una allegoresi semioticizzata, le nostre – di homo sapiens – visioni, fobie, desideri, progettazioni e attese e via dicendo. Chi non si ricorda delle grandi allegorie del politeismo greco, e romano, e indiano? E i bestiarii. E sappiamo inoltre che il paesaggio stesso spessissimo – in poesia come in pittura e cinema – incarna stati d’animo (nel tardo settecento venne teorizzato il Sublime moderno appunto partendo da riflessioni sul paesaggio).

Il compito della critica di fronte a questa tradizione, dominante, formativa, epidermica ormai, è di cimentarsi con il compito delicato di rilevare gli aspetti di sviluppo o di manipolazione subdola dell’ambiente contenuta o meglio mascherata dall’effetto estetico. Questo ovviamente va fatto con riferimento a come gli occidentali hanno visto, o registrato, il paesaggio non-occidentale, ossia come si sono inventati una concezione dell’oriente, e come l’hanno mutuato, trasfigurato, reso strumentale anche nel campo delle emozioni e dell’estetico. Ma per aggirare il problema dell’aut aut, se è A non è B, bisogna che non si butti via l’acqua col bambino, ovverosia, l’idea di sviluppo in sé non è ontologicamente né buona né cattiva, quindi va bene mettere in risalto, sempre in Achebe, per stare con l’esempio, che l’incombente sviluppo apportato dagli occidentali è disastroso, ma non per questo bisogna rifiutare qualsiasi tipo di sviluppo. Ricordo anni fa che in un colloquio sui danni e pericoli della scienza, all’invettiva contro gli eccessi delle applicazioni scientifiche e tecnologiche, il sempre brillante Umberto Eco disse, va bene, ma non è la scienza tout court cui imputare i disastri del mondo: 40 anni fa mio nonno aveva un forte raffreddore, gli venne un’infezione, e ne morì. Quando io ho avuto un raffreddore, ho preso degli antibiotici, ed è passato!

La forma letteraria che tradizionalmente tratta di aspetti della natura è la Pastorale, dove il locus del labor è tipicamente reso in maniera da evidenziare una certa  symbiosi tra l’uomo, gli animali (domestici e non) e il mondo vegetale. La terra stessa (detta inorganica dall’ottocento tassonomico) assume valenze simboliche se non mitologiche e teologiche. Non c’è bisogno di ritornare a Virgilio, basta leggere Melville, o Tolstoy. Se la letteratura è, in quanto forma d’arte, una creazione caratteristica della specie umana, come sostengono alcuni ecocritics,  essa va studiata con attenzione per scoprire il suo impatto sull’agire umano (nel senso che ne influenza la visione e percezione del mondo, oltre che di sé stessi), e quindi su come si sono rapportati, e come verosimilmente potrebbero rapportarsi, l’umano e il non-umano (conio un po’ infelice, perché in odore di logicismo, di negazione assoluta), forse continuero’ a dire umano/ambiente, perché, come scrissi ad Angela Biancofiore in risposta alla sua osservazione di cui sopra, se non cè l’umano, se non ci sono sul pianeta uomini donne e bambini, quanto potrebbe importare al mondo, alla terra, se il ghepardo della savana svanisce e al suo posto s’ingrossano le mute degli sciacalli? Dal punto di vista dell’impietosa legge dell’evoluzione e della selezione, forse la letteratura potrebbe restituirci una comprensione maggiore (infatti filosofica) delle forze che spesso travalicano la stessa volontà umana o animale che sia. 

Ci sono altri aspetti dell’ecocritica di cui potremmo parlare. Penso per esempio all’importantissimo topos delle città, e come si possa combaciare un’etica ecologica con gli sviluppi di centri urbani, visto che quasi 40% della popolazione mondiale vive in città, e vista la vertiginosa crescita delle megapolis negli ultimi tre o quattro decenni. E c’è la questione di cosa succederà man mano che le strutture e legittimazioni politiche e giuridiche dello stato-nazione si affievoliscono e vengono meno, e nuovi “tribalismi” o “regionalismi” emergono che esigono riconsocimento sociale, politico e  giuridico. E c’è la questione delle migrazioni, le quali di per sé già mettono in crisi qualsiasi nozione di ambiente-nazione-regione chiusa, e infatti, rappresentano il vero motore della storia sociale di tutti i popoli (Carravetta 2004). E poi c’è la pressante questione delle fonti di energia per sopperire ai bisogni di alimentazione, trasporto e comunicazione tra la gente, dai clan isolati e sperduti alle tribù, dalle province agli stati agli imperi. Si parla di progetti e pianificazioni che siano “sostenibili”....ma sostenibili per chi?

6. Casi

Per non chiudere su tale  deprimente prospettiva, consentitemi di ritornare velocemente a un aspetto del diabattito dell’ecocriticism che nelle humanities  solleva un certo interesse. Questo riguarda il problema della nostalgia, e il fatto che tanti testi che gli ecocritics ci dicono sono lì ad attendere un nuovo modello di lettura, quanto dire una nuova sensibilità di ricezione, incontrano resistenze varie, dovute più che altro alla documentabile influenza di scuole di critica accademica che pensavano di aver detto l’ultima parola su determianti autori. Il monito sembra essere: Riapriamo il dossier romanticismo, per esempio.  E Il dossier delle letterature nazionali. Negli USA si sa che un forte movente del Rinascimento americano  degli anni 1840-60 fu quello di distaccarsi dalla letteratura e della cultura europea. La bibliografia qui è sterminata. Ma alcuni studiosi hanno sottolineato che, allorché Throreau ed Emerson e Melville e altri s’impuntavano su questo topos, -- “Invano cerco il poeta che descrivo” -  scrive Emerson nel suo saggio “Il poeta” del 1844 -- ...il riconciliatore, l’uomo appropriato ai tempi, alla nuova religione che, come Dante, ha osato scriverer le asua autobiograpfia in “lettere colossali,” universali....”l’America è un poema ai nostri occhi, la sua sterminata geografia acceca l’immaginazione, e non attenderà molto per il suo poeta.” Ebbene, la nuova e forse vera voce, almeno dell’America dell’800, non tardó a farsi sentire: si chiamava Walt Whitman, con le Foglie d’erba del 1855. Ma un po’ di filologia presto evidenzia come  quasi tutti i trascendentalisti, se da un lato volevano sopprimere o ignorare l’Europa, sotto sotto, e spesso apertamente, citavano Wordsworth, Shelly, Coleridge e Byron,  e altri del grande romanticismo inglese e tedesco. Già, i laghisti, il poeta di “Tintern Abbey”, l’invito ad insiemirsi (parola dantesca) con la natura, poesie che già cantano lo sfacelo delle comunità umane, della humanitas di homo sapiens, di fronte all’irrompere delle fabbriche e la demonizzazione dei poveri e degli operai della prima grande ondata della cosiddetta rivoluzione industriale. Questi poeti vedevano il tutto dell’esistere al mondo come una sorta di grande casato, “a dwelling place”, per le attività umane, non pensavano tanto al “progresso” quanto alla distorsione dei rapporti uomo-natura. Wordsworth accresce la consapevolezza dell’ambiente e se, poeticamente, ricrea la natura, è comunque una voce che parla per la natura:

Sweet is the lore which nature brings
Our meddling intellect
Misshapes the beauteous forms of things;
We murder to dissect…

he è un’esplicita condanna alla frenesia per le nuove emergent scienze. E altrove:

The naked trees,
the icy brooks, as on we passed, appeared
to question us: “Whence come ye? To what end?”
They seemed to say, “What would ye,” said the shower,
“Wild Wilderness, wither through my dark domain”?
The sunbeam said, “be happy.”

E poi ci sono tantissime poesie che parlano proprio  dell’estetica sensuale del luogo, the place (as opposed to Space), cioè non solo perché è bello vedere le farfalle e sentire gli uccelli, ma perché è proprio bello essere li, in una simbiosi totale, fuori dal tempo e dalla storia, come conviene alla natura. Nei casi più intensi, si sfocia nell’animismo. Si pensi al D’Annunzio de “La pioggia nel pineto”.

Il romanticismo e i decenni che vi susseguono costituiscono un’epoca in cui fioccano i journals, i travelogues, le osservazioni dette a-posteriori “naturalistiche,” ma che fornivano a chi non poteva viaggiare una chiara idea di come si poteva stare in una certa armonia con il mondo ambiente. Quasi prevedibilmente, buona parte della critica del secondo novecento lesse questi scritti come inzuppati di nostalgia, conservatori, anti-progressivi, non riflettenti preoccupazioni socialiste, e via dicendo.. Mentre sappiamo che ci fu il grande visionario William Blake, che nelle poesie su Londra aveva già captato come la mente umana veniva  gradualmente  incatenata, e come la povera gente, i bambini, soffrivano nel miasma urbano che cresceva molto più velocemente di quanto le autorità riuscissero a controllare (o a capire...):

I wander thro’ each chartered street,
Near where the charter’d  Thames does flow.
And mark in every face I meet
Marks of weakness, marks of woe.
In every cry of every Man,
In every infant’s cry of fear,
In every voice, in every ban,
The mind-forg’d manacles I hear…

È vero che non per tutti la natura è questo grembo, sappiamo bene che contemporanei di Wordworth avevano capito che la natura è indifferente, che l’ansia di vivere e di ricavare un senso alla vita non  risiede nella natura, la quale all’occhio spietato di un Leopardi è addirittura matrigna, “... né di sospiri è degna la terra” (da: “A se stesso”). E tuttavia....si sente facilmente come uomo e natura comunicano e la seconda è alimento al primo, pur nello spazio del passato e dell’irriconcialibile. Si pensi al leopardi de “Le ricordanze”:

E la lucciola errava appo le siepi
E in su l’aiuole, susurrando al vento
I viali odorati, ed i cipressi
Là nella selva; e sotto al patrio tetto
Sonavan voci alterne, e le tranquille
Apre dè servi.
E che pensieri immensi,
Che dolci sogni mi spiró la vista
Di quel lontano mar, quei monti azzurri
Che di qua scopro, e che varcare un giorno
Io mi pensava, arcani mondi, arcana
Felicità fingendo al viver mio.

Che la natura sia uno con lo spirito umano, non tanto nel senso di una unità platonica o cristiana, ma nel senso che la natura ci dà le coordinate per la nostra misura, il nostro metron, si trova in un grande numero di poeti. Neruda:

Cantas, y sol y cielo con tu canto
Tu voz desgrana al cereal del día,
hablan los pinos con su lengua verde:
trinan todas las aves del invierno. 
(da: Cien sonetos de amor, 52)

Il grande Baudelaire cantò l’inno alla natura, che troppi hanno visto come “mero” antropomorfismo. A lettura più sintonizzata, il poeta ci fa capire che la natura ci parla in maniere misteriose, che il suo linguaggio è tale da richiedere un continuo impegno a decifrare non solo le sue molte voci ma anche il moto e le forze cinetiche che animano il nostro spazio vivente – come sa la nostra amica Luisella Carretta, che elogia il volo delle api e delle aquile.

La ricognizione che siamo umani grazie alla natura, ma una natura che, al di là di Leopardi, ci ricorda non solo che siamo soli al mondo, nel senso proprio ontologico dell’essenza dell’unico, ci dice anche che siamo creature che appaiono nel tempo solo quanto basta per capire che dobbiamo sparire nel tempo. E in questo non vedo dissidio tra la mia nozione di umanità e le prerogative di base de una critica ecologica. Ció che rimane, ció che per qualche numero di rivoluzioni terrestri intorno a Helios, ci dà il senso della vita, è proprio riconnettere con la nostra essenza  umile, da homo humanus, uomo della terra, terragno, terrone, terrestre, tellurico.

Questo il nostro dono, la nostra eccellenza come specie: Noi siamo natura, ma siamo anche esseri particolari dotati di coscienza, per cui una volta entrai nel grembo della natura, sappiamo che abbiamo consapevolezza dei limiti, dei nostri e di quelli della natura. Nella grande keatsiana “Ode all’usignuolo”, dopo aver cantato la bellezza e la (supposta) felicità stupenda dell’uccello che non sa di essere felice e libero e in sintonia con tutto l’universo, e dopo aver dedicato una strofa al desiderio di s/perdersi in quell’immaginario trans-terreno per via, pateticamente, di un buon vino (dalla descrizione parrebbe un sangiovese!), egli [la persona poetica] ritorna al sé, e incita l’usignuolo a volare via, dicendogli:

svanisci, sparisci, e dimentica ció
che tu tra le foglie non hai mai saputo:
la stanchezza, la febbre, e l’ansia quaggiù
dove stanno gente a sentir l’un l’altro grugnire,
dove la paralisi scuote qualche  tardo e grigio pelo,
dove i giovani crescono pallidi e sottili come spettri e muoiono,
dove pensare vuol dire riempirsi di tristezza
e, disperazione dagli occhi plumbei
dove la bellezza non riesce a tenere i suoi occhi brillanti
o nuovi amori struggersi per lei oltre il domani.

Rileggiamo Keats nell’originale:

Fade far away, dissolve, and quite forget
What thou among the leaves hast never known,
The weariness, the fever, and the fret
Here, where men sit and hear each other groan;
Where palsy shakes a few, sad, last gray hairs,
Where youth grows pale, and spectre-thin, and dies;
Where but to think is to be full of sorrow
And leaden-eyed despairs;
Where beauty cannot keep her lustrous eyes,
Or new love pine at them beyond tomorrow.

La giustapposizione tra una natura presumibilmente “innocente” e un mondo della civiltà decisamente non idilliaco e profondamente ingiusto e brutale, laddove un noto topos della critica romantica, non ci toglie che possiamo leggervi una riflessione sulla condizione di alienazione dalla natura, idealizzata che sia, e che forse è ora di ri-sensibilizzarci ad essa. In questo l’ecocritica evidenza una pulsione etica.

7. Considerazioni metacritiche

Il problema sorge che prima della rivoluzione industriale e la crescita esponenziale delle citta, per millenni si visse in rapporto molto più ravvicinato alla natura, e quindi alle sue miriadi di manifestazioni. Ma nella letteratura la natura è stata usata essenzialmente come “specchio” di una presunta interiorità superiore al tutto, in particolare sotto l’influsso dei monoteismi e del platonismo; e in epoche più recenti come correlativo oggettivo di stati d’animo. Una critica ecologica incontra la condizione di dover stabilire a priori cosa cercherà nei testi della tradizione: se l’autore (o la persona poetica) ama rotolare sull’erbe, o appicca fuoco alle foreste? Coltiva un rapporto di affetto e tenenerezza verso animali cosidetti domestici, o li tratta “da bestia”? Che cosa si cerca di evincere, che per secoli fino a pochi decenni fa i testi non parlano mai di determinate preoccupazioni riguardo a come le nostre attività sociali e civili deturpano e alterano o storpiano le spontanee dinamiche dell’ambiente, della stessa fisiologia della terra? Se si va in questa direzione, ci si mette teoricamente sulle stesse strutture del vecchio marxismo, che cercava nei testi solo i casi in cui si riflettesse una consapevolezza di classe, sia esplicita come in certo “realismo” che occulta, come accade in molti classici. Questo potrebbe essere riduttivo, a meno che non lo si faccia à la Pasolini, indicando attraverso la letteratura i diversi modi di relazionarsi all’ambiente naturale (si pensi a “il pianto della scavatrice”) senza per questo dover negare i mondi culturali che ci siamo costruiti e, contemporaneamente, registrare l’insoddifazione dell’esistente che vorrebbe che frontiere non esistessero tra mo(n)do del proprio corpo e mondo intero. L’epoca postmoderna ci ha resi consapevoli che sistemi chiusi e geometrici di analisi non funzionano più, e che invece la sfida risiede proprio nell’inoltrarsi tra gli spazi intermedi tra natura e cultura, e analizzare i luoghi in cui si sovrappongono e sfaldano tradizionali certezze. In questo la bioetica è già sulla strada giusta.


[1] Peter Carravetta, Full Professor, Italian and Italian American Studies, Stony Brook University (SUNY), www.petercarravetta.com

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