Il 21 novembre 2017 abbiamo avuto l'occasione di conoscere ed apprezzare lo scrittore italiano Cosimo Argentina il quale, nel quadro delle iniziative promosse dal Dipartimento di italiano dell'Università di Montpellier, ha tenuto una conferenza rivolta agli studenti iscritti ai corsi di LLCER, Lea e Master e agli studenti del liceo Jules Guesde accompagnati dalla professoressa Gioda, tra il pubblico anche appassionati di letteratura e cultura italiane.
Nella presentazione dell'autore, la professoressa Biancofiore ha ricordato il percorso letterario di Cosimo Argentina, scrittore ed insegnante di diritto nei licei italiani, nato a Taranto, città pugliese nota un tempo per il suo porto e balzata negli ultimi anni agli onori della cronaca, forse sarebbe meglio dire al disonore delle cronache, per le travagliate vicende dell’ex Italsider. Ci riferiamo ad un impianto industriale che occupa un’area molto vasta, due volte e mezzo circa la città di Taranto, il più grande impianto europeo per la produzione dell'acciaio, fino al 1995 di proprietà statale, poi di proprietà della famiglia Riva, oggi conosciuto con il nome di Ilva.
La vicenda dell'Ilva è da anni al centro del dibattito politico italiano poiché è un'industria altamente inquinante, come dimostrano i numerosi rapporti pubblicati di recente sull'alto tasso di mortalità per tumori riscontrato tra i tarantini. Un'industria che ha cambiato in negativo le caratteristiche del contesto urbano nel quale è inserita e le vite degli uomini e delle donne che in tale contesto vivono, lavorano e crescono i loro figli, specie di coloro i quali abitano nei quartieri più vicini allo stabilimento, come ad esempio il quartiere Tamburi.
I cittadini di Taranto sono stati posti e lo sono tutt'ora di fronte al dilemma lacerante: continuare a lavorare nell'acciaieria pur sapendo di andare incontro ad un destino segnato o chiudere la fabbrica una volta per tutte, con il carico di dolore e sofferenze che ciò può comportare in termini di disoccupazione , povertà e senso di sconfitta per un' intera comunità. Dilemma di non facile soluzione, come possiamo immaginare, che divide in due parti contrapposte gli abitanti della città, come i fatti recenti ci ricordano.
Di tutto ciò narra il romanzo Vicolo dell'acciaio, romanzo che è stato al centro della conferenza dell'autore, delle domande del pubblico e dell'intervento di Romano Summa, dottore di ricerca del dipartimento il quale ci ha illustrato con l'ausilio di un video lo stato di degrado in cui versano i quartieri della città più prossimi all'Ilva e ha sintetizzato le vicende relative ai complicati rapporti tra magistratura, rappresentanti dello Stato italiano e attuali proprietari della fabbrica. Il protagonista “ufficiale” di Vicolo è Mino Palata, un ragazzo di diciannove anni che vive nel quartiere Italia-Montegranaro, un quartiere di Taranto dove è cresciuto lo stesso autore, abitato da famiglie di operai dell'ex Italsider.
Mino, infatti, è figlio di un operaio, il Generale, quest’ultimo è un uomo rude, grande lavoratore, di poche parole ma lapidarie, rispettato da tutti per la sua personalità e perché è un “prima linea”, cioè un addetto ai turni più pesanti nell'acciaieria. A nostro avviso è proprio quest’ultimo il vero protagonista del romanzo o meglio il mondo che egli rappresenta e di cui Mino si fa portavoce.
Secondo la mentalità del Generale gli uomini si dividono in prima linea ed imboscati e solo i prima linea hanno diritto a dire la loro sulle questioni della fabbrica, gli altri devono tacere.[1].
Il Generale, al secolo Camillo, è un uomo del Nord, quindi un emigrato al contrario, che parla il tarantino meglio dei tarantini stessi e rischia tutti i giorni la propria vita durante il suo turno in fabbrica, “ quando mio padre parla di se stesso dice sempre che il suo destino è segnato. Qui nel palazzo tutti muoiono di cancro ai polmoni. Il record della pista è nostro. Abbiamo in corpo, a famiglia, più benzene, polveri can- cerogene, diossina, policarburi aromatici e gas saturi di non so nemmeno io che cosa…”[2]. Nonostante ciò egli non abbandona il campo e come un vero eroe, un eroe del nostro tempo, continua ogni giorno la sua personale battaglia entrando nelle viscere del mostro, la fabbrica, senza alcuna garanzia di salvezza, anzi, “grato agli arrivati che gli somministrano lo stipendio…il salario è tutto. La fatica è uno strumento per cercare di venire fuori dalla fogna.”[3].
Mino, la voce narrante del romanzo, sembra destinato ad una vita migliore: i genitori, infatti, hanno insistito affinché si iscrivesse all'università, a giurisprudenza. Ma i giorni passano e il giovane resta inchiodato sulla stessa pagina del libro, diversamente dalla sua combattiva fidanzata , Isa, bella e seducente “sembra un'araba, una sudanese con gli occhi nocciola chiari chiari, come miele...”[4]. Anche Isa è figlia di un operaio e risiede nello stesso caseggiato di Mino, in via Calabria 75, il vicolo da cui il romanzo prende il titolo. Lo scarso impegno negli studi dimostrato da Mino, in gran parte spiegabile con il pessimismo che frena, o per meglio dire ancora il giovane al destino dei “suoi simili”, secondo l’ideale dell’ostrica di verghiana memoria, convince Isa a troncare la relazione con quest’ultimo per andare incontro ad un destino di riscatto.
Un destino fatto di esami dati a ritmo serrato, di una laurea a pieni voti e di una professione conquistata con tenacia che le consentirà un livello di vita più agiato rispetto a tutti gli altri abitanti di via Calabria. Infatti, ci racconta Mino stesso nell'epilogo del romanzo “Di anni ne sono passati. Isa fa l’avvocato, s’è sposata con un uomo ambizioso ed è andata a vivere al Borgo, in un bell’appartamento vista mare”[5].
Secondo noi il senso più profondo del romanzo sta proprio in questa antitesi, da un lato Mino, ancorato strenuamente al mondo degli operai del quale egli stesso ci racconta con partecipazione sofferta le pene quotidiane, la lotta per la sopravvivenza, dall'altro Isa determinata e desiderosa di cambiare la propria situazione. In mezzo, dicevamo, le pene quotidiane degli abitanti del vicolo, via Calabria, simbolo di tutti coloro che oggi con fatica attraverso il proprio lavoro cercano di costruire per sé e per le proprie famiglie una vita dignitosa. Pene che comprendono, purtroppo, anche la morte, la morte degli operai sul lavoro con corredo di “consoli”, cioè di veglie al capezzale del defunto da parte di tutti gli abitanti del quartiere.
Sono questi i momenti in cui gli abitanti di via Calabria danno prova di solidarietà, portando ogni genere di prima necessità alla famiglia della vittima e cercando di confortare quest’ultima, ognuno a modo suo. Per il resto la vita è così dura che non c’è spazio per la comprensione, la partecipazione, la solidarietà, ogni giorno tutte le energie vengono spese per portare avanti la battaglia quotidiana. Argentina si adopera per riportare sulla pagina questa fatica, questa durezza del vivere e ci riesce descrivendoci le giornate degli abitanti del vicolo come fasi di una guerra[6], la narrazione è costellata da metafore “guerresche” con una forte carica espressiva.
Il senso del romanzo, dicevamo, sta nell’antitesi tra i due poli rappresentati da Mino e Isa. Mino non riesce o non vuole staccarsi dal mondo in cui è nato e con il quale si identifica fino in fondo al punto, a nostro avviso, da volerne condividere le sorti, restando “un via Calabria” per sempre, nonostante abbia chiare le conseguenze di una tale scelta. Così facendo segue le orme del padre al quale è legato da un rapporto difficile e non esente da scontri, sul quale, tuttavia, prevale il rispetto, il rispetto per un ideale di vita e valori di cui il padre è il simbolo e a cui Mino alla fine decide di rimanere fedele, anche se tutto ciò ha un costo umano non indifferente. Un ideale fatto di forza, sacrificio, sprezzo del pericolo ma anche di uno sguardo disincantato nei confronti di una vita difficile, quella dell’operaio alle acciaierie.
Una vita non illuminata dai bagliori dei media, sembra volerci dire Mino, come accade invece per la politica locale e più in generale per l’establishment diremmo noi, alla costante ricerca dell’esposizione mediatica, quasi come se tale visibilità fortemente voluta e conseguita potesse rappresentare in se stessa una soluzione ai problemi della città, soluzione a cui i personaggi del romanzo con l’eccezione di Isa, sembrano non credere più. Nel romanzo aleggia una forte delusione verso il mondo della politica, delusione espressa talvolta in forme anche sarcastiche, in sostanza, sembra volerci dire Mino, il tempo dei proclami è scaduto.
Taranto, l’altro polo pulsante del romanzo, insieme al vicolo che ne rappresenta una parte signficativa, è descritta spesso da Mino con toni dolenti, malinconici, come di chi vede un bene prezioso scivolargli dalle mani ma non è in grado di porvi rimedio: “Dalla veranda filtra luce di primavera. Aprile è un bel mese. A Taranto aprile apre varchi nell’imbuto fosco dell’inferno; lo fa attraverso giornate di sole e vento pulito che viene dal mare creando lo sbandieramento di germogli bianchi di alberi che se ne stanno in piedi, a sfidare i sette demoni in carrozza.”[7] Mino si allontana con riluttanza dal suo quartiere. “Ogni volta che ognuno di noi esce dal quartiere è disorientato. In un modo o nell’altro abbiamo bisogno di far quadrato anche se questa è una fesseria che ci siamo fatti nella nostra testa”[8].
Questo senso di spaesamento è spiegabile sia con l’attaccamento alle proprie radici a cui abbiamo accennato, sia perché anche quando il giovane esce dal suo perimetro “sociale”, la realtà del gruppo a cui sente di appartenere lo segue come un’ombra e la sagoma dell’Ilva, causa di tutto ciò, incombe. “..le case sono coperte di fuliggine e le vie finiscono in crateri che si aprono nell’asfalto azzurro e rosso di minerale. I palazzi sono al brillio. Le cassette con dentro frutta devitalizzata vanno e vengono e i morti verticali ciondolano un po’ovunque…collinette artificiali e un mostro arrampicato alle nostre spalle, eccolo il perché [di tutto ciò]. L’Italsider occupa un appartamento di questo quartiere. Purtroppo st’appartamento è due volte Taranto”[9].
Lo stabilimento infatti è visibile quasi ovunque e le tracce di questa presenza hanno plasmato inesorabilmente il territorio, quasi a ricordare al giovane protagonista che non si può sfuggire al proprio destino.
Eppure, a nostro avviso, l’orizzonte di Mino non è totalmente pessimista sul proprio futuro. Infatti ad un certo punto del romanzo Mino comincia a scrivere racconti, a fissare sulla pagina i suoi pensieri, la realtà del vicolo, trova cioè nella scrittura una sorta di compensazione alla sua decisione di non abbandonare il microcosmo in cui è nato e vissuto. Sceglie di raccontare ciò che vede, ciò che succede alla gente come lui con realismo, senza cercare di strappare una lacrima nel lettore del quale cerca, sì, la vicinanza, ma lo fa con le metafore scoppiettanti, con la comicità che talvolta si risolve felicemente in ironia, senza lasciarsi andare a facili pietismi.
Mino decide, quindi, di comunicare ciò che sente, ciò che vede, ciò che sa, la sua è una lezione di profondo realismo che in fondo è un’opzione poetica, la poetica di Argentina stesso il quale ci ha detto”…mi lascio andare su un foglio di carta dove narro una storia, uno scorcio di realtà sperando che possa trasformarsi in una via di salvezza”[10]. A dispetto della tematica, Vicolo è anche un romanzo divertente dove l’autore tratteggia un mondo che conosce bene e a cui è vicino, la stessa scelta del dialetto che potrebbe rendere alcuni passaggi di difficile comprensione, oltre ad essere rivendicata con convinzione dall’autore, testimonia l’ opzione di fondo del romanzo: aderire alla realtà, descrivere il più possibile oggettivamente uno spaccato sociale secondo la lezione di Zola e Verga, ci verrebbe da sottolineareanche ancora una volta.
La prosa di Vicolo è attenta ai valori fonici della lingua, tesa ad una rappresentazione ravvicinata dei fatti narrati, “quasi in presa diretta”, sembra infatti di sentirli davvero i rumori del vicolo, le grida dei bambini, le liti tra condomini e le battute del Generale e dei suoi amici, appoggiati al muro di mest’ Arture nei momenti di pausa dal lavoro. Il mondo di via Calabria ci viene descritto, dunque, con uno stile originale, lo sguardo di Mino accompagna spesso i fatti con ironia, dicevamo prima, ironia che denota partecipazione, come ci ha insegnato Pirandello, cioè vicinanza, adesione ai sentimenti, alle paure, alle piccole gioie degli uomini e delle donne che animano il quartiere.
Per Mino la scrittura è un’ancora di salvezza, una zattera che lo traghetta nel fiume in piena della vita, consapevole di stare tra coloro che da un momento all’altro possono essere inghiottiti dai flutti. Attraverso la scrittura egli impara anche a conoscere e a tenere a bada le ansie che lo agitano in profondità e getta un ponte tra queste e il lettore, un ponte che può diventare un dialogo fecondo e aprire nuovi orizzonti, questo sembra volerci dire l’autore, rivolgendosi a noi lettori attraverso la voce narrante del giovane protagonista. Nuovi orizzonti mentali aggiungeremmo noi che possono costruire concretamente, senza facili illusioni, un percorso di riscatto per la propria città, nel caso di Mino città amata e al tempo stesso odiata. Amata in quanto terra natìa, odiata poiché specchio di un decadimento fisico e morale di cui Argentina è pienamente consapevole e che non riguarda solo la città di Taranto ma il “sistema Italia” nel suo insieme.
Qui si intende per sistema Italia il complesso intreccio tra la politica economica nazionale e la salvaguardia dell’ambiente e del patrimonio artistico culturale su cui si fonda l’idea di una nuova cittadinanza attiva e consapevole. Condizione necessaria, quest’ultima, per l’affermazione di una reale società democratica, dove i cittadini non siano più pedine da spostare a piacimento sulla scacchiere dei grandi interessi economici privati. Il riscatto passa dunque attraverso la presa di coscienza e poi attraverso il racconto onesto, pulito senza orpelli linguistici, della sua Taranto. Per il resto la vita quotidiana lungo via Calabria è scandita da ritmi sempre uguali, il turno in fabbrica, le incombenze quotidiane, lo scambio di notizie tra gli operai a riposo, su tutto ciò si posa lo sguardo attento di un giovane adolescente e di tutto ciò si prende cura egli stesso decidendo di dare voce a chi voce non ha[11].
Per concludere Vicolo è un romanzo duro, sofferto, certamente impegnato, dove la questione ambientale balza in primo piano, ricordandoci che vi è un intreccio inestricabile tra i destini degli uomini e il territorio nel quale essi vivono.
[1] “…Se non hai provato i turni pesanti in acciaieria, i turni pesanti in prima linea, non hai diritto a parlare…solo quelli che si lordano possono dire la loro…io li vedo ogni giorno, Lilli, ogni santo giorno li vedo…cristiani com’a me.. mi stanno morendo intorno e io quella è la strada che m’attacca…” C. Argentina, Vicolo dell’acciaio, Roma, Fandango Libri, 2010, pag.19.
[2] C. Argentina, cit., pag.12.
[3] C. Argentina, cit., pag.130.
[4] C. Argentina, cit., pag. 34.
[5] C. Argentina, cit., pag. 259.
[6]lo stesso autore ha dichiarato di ispirarsi alla letteratura di guerra che resta “la migliore in assoluto e noi narratori di oggi siamo un tutti un po’ orfani degli eventi bellici del secolo scorso..” Intervista di Maddalena Marchetti a Cosimo Argentina, Montpellier 21 novembre 2017.
[7] C. Argentina, cit., pag.206.
[8] C. Argentina, cit., pag.163.
[9] “….Dal suo domicilio , un centomila vani e accessori, il siderurgico se ne sbatte del divieto di immisioni, del divieto di atti di emulazione e di tutte le regole condominiali possibili e immaginabili. Gli altri abitanti ne hanno chiesto lo sfratto. Morosità? Disturbo? Omicidio doloso? A loro basterebbe che se ne andasse e nel frattempo…sbocchi di sangue e carcinoma polmonare, formazioni polmonari primitive e secondarie, e cristi e madonne!”. C. Argentina, cit.,
pagg. 163 e 164. Il rione Tamburi qui descritto è il quartiere più vicino all’Ilva, queste sono le riflessioni di Mino mentre accompagna l’amico Stefano presso un ufficio del comune per richiede un loculo al cimitero dove seppellire il padre di quest’ultimo, Michele Cara, una vittima del siderurgico.
[10] Intervista, cit..
[11] “Mì…mi hai fatto stare male per la violenza, ma...il finale...Mino!...Mino, non so ..ma com’è che hai fatto a farlo venire così bene?...Mì: tu c’hai il dono!”. C. Argentina, cit., pag. 107.