Lo scrittore Anselmo Botte ha dichiarato che è possibile parlare del passaggio da sfruttamento a schiavitù nei confronti dei migranti nel momento in cui gli si sequestrano i documenti. Secondo Lei, quando si verifica questo passaggio?
C'è schiavitù quando al grave sfruttamento si aggiungono forme più o meno manifeste di controllo dell'uomo sull'uomo. Il sequestro dei documenti è uno di questi, ma c'è anche il ricorso alla violenza materiale e psicologica, il controllo dei casolari, l'uso di guardiani nei campi e sui furgoni, per 24 ore al giorno. Quando l'assoggettamento diviene prolungato, c'è schiavitù. Ovviamente più il bracciante è fragile e isolato, più facilmente la sua autonomia sarà soppressa.
Considera la sua opera come un’inchiesta giornalistica oppure come un romanzo?
La considero un'opera letteraria che alterna inchiesta, reportage, digressione memoriale. Un'opera di non fiction che assembla materiali e registri diversi, in cui lo scavo dell'oggi si alterna allo scavo del passato, quello degli altri a quello della propria famiglia. Il giornalismo non può contenere tutto questo, né la semplice denuncia. Allo stesso tempo non è un romanzo (forse nel Naufragio c'è un maggiore tentativo di creare un romanzo dalla non fiction). Qui volevo creare un'opera ibrida.
L’inasprirsi della violenza è secondo Lei una delle novità rispetto alle antiche forme di sfruttamento nel lavoro agricolo? E a cosa è dovuto questo?
Non tanto la violenza in quanto tale, in Puglia la violenza era estrema anche in passato. Ma soprattutto la solitudine e l'isolamento dei nuovi braccianti. Sono ancora più fragili, perché si riducono quasi a zero i momenti di aggregazione e soprattutto perché non hanno in comune con il contesto in cui sono sfruttati quegli elementi di condivisione che poteva avere per esempio un cafone di ieri rispetto agli stessi potenti del suo paese: la lingua, la festa del santo patrono, un universo mentale comunque simile...
La Sua opera è e anche una denuncia contro atteggiamenti xenofobi e un invito a sensibilizzare gli italiani al confronto con l’alterità?
I libri non si scrivono per denunciare qualcosa, ma per affinare uno sguardo sul mondo, e mettere in campo soprattutto la propria relazione con quel mondo che si racconta. All'interno di questo approccio, il dire “io non ci sto” rispetto a un dato contesto o un dato fenomeno può essere più o meno forte, più o meno esplicito.
Il suo libro si pone l’obbiettivo di spronare lo stato e la politica italiane a delle azioni di forza contro il mondo del caporalato?
L'obiettivo era innanzitutto quello di raccontare un sottomondo la cui esistenza fino a sette-otto anni fa veniva apertamente negata. Parallelamente fare luce su un episodio del passato che aveva visto coinvolta la mia famiglia. In terzo luogo, gettare dei ponti tra quel passato e questo presente. Che poi questa conoscenza abbia avuto dei risvolti politici, tipo essere parte di un processo collettivo di illuminazione del caporalato, che ha portato a delle leggi a delle iniziative politiche o sindacali, ciò è avvenuto in un secondo momento. Ma, ripeto, sono cose che vengono dopo.