Carnet n°1 / De vive voix

Intervista ad Ascanio Celestini

a cura di Imen Adouni

Imen Adouni, Ascanio Celestini

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Intervista ad Ascanio Celestini

a cura di Imen Adouni

 

Lione 22 Maggio 2014

 

Imen Adouni : Il lavoro è al cuore della letteratura italiana contemporanea: dalla fabbrica al Call-center e dall’operaio al lavoratore precario. In generale, si usa il termine «lotta» per indicare diverse accezioni: una lotta contro la guerra, contro il nemico o contro qualcosa. Nel caso del titolo del suo libro ha usato un’espressione che non va molto di moda in questi tempi ovvero «lotta di classe». Che tipo di lotta di classe è quella che lei racconta in questo libro ?

Ascanio Celestini : I personaggi del mio libro utilizzano il concetto di lotta di classe per identificare qualcosa di diverso. Dicono “questa è lotta di classe” quando prendono coscienza della condizione che vivono. Una condizione di mancanza di consapevolezza che non li spinge mai a ribellarsi.

I.A.: Conflitto interiore/ rabbia/ precarietà sono parole che abbiamoriscontrato spesso nel suo romanzo. Fine a che punto la condizione del precariato può essere determinata da situazioni reali?

A.C : La precarietà è una condizione umana. Vederla solo attraverso il lavoro è fuorviante. Un operatore del call center nel quale ho fatto ricerca mi racconta che s’era fatto assumere per arrotondare ciò che guadagnava come musicista. Qualche anno prima divideva con un’altra persona un appartamento al centro di Roma. Ora è in periferia, in un appartamento con altre tre persone, suona raramente e il suo principale guadagno proviene dal call center.

La precarietà non è legata soltanto al lavoro. È tutta la vita a diventare precaria. Se quel lavoratore avesse un posto fisso e la certezza di una buona pensione al termine dell’età lavorativa, la possibilità di curarsi gratuitamente, un alloggio a prezzo basso, dei mezzi pubblici efficienti e poco costosi e magari anche un accesso alla cultura non limitato dai costi, allora potrebbe accontentarsi del suo stipendio. E invece sente la precarietà di una vita che gli sfugge e che diventa ingestibile.

 

I.A : Negli appunti per il film su “Lotta di classe”, che è una sorta di spettacolo teatrale che riflette ugualmente la precarietà nel lavoro di oggi, lei dice che oggi non è la cultura che permette all’individuo di appartenere ad una classe sociale bensì il denaro. Come può influire questo aspetto sui rapporti sociali e umani?

 

A.C : C’è una visione capitalista che ha messo il denaro al centro della maggior parte delle relazioni. In particolare ha trasformato il lavoro in un meccanismo che produce principalmente soldi. Soldi per il padrone, per gli investitori, ma anche per i subordinati. Cinquanta anni fa l’operaio si sentiva parte di una classe sociale che stava cambiando la società. Un operaio mi raccontava che da bambino andava insieme ai suoi amici a vedere i lavoratori che uscivano dalla fabbrica alla fine del turno “come si guardano i ciclisti quando passa il Giro d’Italia”. Quegli operai, nel giorno libero, indossavano la tuta da lavoro pulita che avrebbero messo l’indomani per andare in fabbrica. Sentivano che tra i principali elementi che caratterizzavano la loro identità c’era la fabbrica. Sentivano che la fabbrica era loro più di quanto non fosse del padrone per il quale lavoravano e contro il quale scioperavano. E prima della fabbrica i contadini sentivano il forte legame con la terra e in generale con la

natura. La loro cultura era quasi completamente autonoma rispetto a quella del padrone. Suonavano un’altra musica, avevano altre storie e spesso parlavano un dialetto che il padrone capiva a stento.

Negli ultimi trent’anni quest’appartenenza è andata via via scomparendo. L’omologazione ha schiacciato le differenze. Il benessere ha portato il confronto  in uno spazio che è gestito quasi interamente dal denaro. La differenza tra il ricco e il povero non è nella musica che ascoltano, nelle storie che conoscono o nel modo di parlare, ma quasi esclusivamente nella quantità di denaro che hanno a disposizione.

 

I.A : Ho letto che lei è una persona versatile, attore cinematografico, attore teatrale, cantante ma anche, ovviamente, uno scrittore che si è recentemente occupato della questione del call center. Questa versatilità le è stata utile per trattare la precarietà nel suo romanzo ?

A.C : Ho iniziato a fare ricerca tra i lavoratori dei call center perché volevo scrivere la sceneggiatura per un film. Nel frattempo ho portato a teatro uno spettacolo teatrale, ho registrato un disco e girato un documentario su quel tema. Infine ho scritto un libro e ho pensato di non poterci fare un film. Non mi sentivo abbastanza libero da svincolarmi dalla storia che avevo prodotto per rovesciarla e portarla verso un mezzo diverso. Però la possibilità di trasferire quei racconti dal video alla musica, dalla parola detta a quella scritta mi ha aiutato ad entrare in una storia complicata perché in continua trasformazione.

 

I.A : Nel suo libro, mi ha colpito molto l’immagine del personaggio Nicola, la cui situazione tragica viene paragonata ad una bomba. Come fa a scegliere le storie dei suoi personaggi?

A.C : Sono personaggi inventati, ma per me hanno un corpo e una voce veri. Hanno le facce di persone che conosco o ho conosciuto. Per questo motivo buona parte delle storie che scrivo sono precedute da un lavoro di ricerca sul campo. Per inventare una storia devo farla passare attraverso la dimensione del reale. Per la Pecora Nera ho fatto tre anni di interviste nei manicomi. Per Lotta di classe ho seguito le lotte di un collettivo di lavoratori. Persino nei racconti di Discorsi alla nazione, dove lo scenario è quasi sempre surreale, cerco di far emergere dei meccanismi reali.

I.A : Lotta di classe ha avuto certamente un impatto importante sul pubblico, quale ritorno ne ha ricevuto?

A.C : Il romanzo è arrivato al termine di un percorso. Del lavoro che stavo facendo se ne era già parlato molto e altri prima di me avevano affrontato l’argomento in libri, film e spettacoli. Io ho cercato di dare un taglio diverso alla storia. Di non parlare solo di lavoro. Ho cercato di porre l’attenzione anche sulla precarietà esistenziale dei personaggi, di seguirli attraverso la loro rabbia nella loro vita quotidiana. perciò l’attenzione che ha avuto questo libro non l’ha

chiuso in un ambito di denuncia sociologica. Chi non conosce questa condizione ha avuto la possibilità di avvicinarvisi, chi la vive ne ha letto la complessità e l’ha contestualizzata.

 

I.A: Ascanio Celestini ha pescato a piene mani dalla tradizione orale e popolare, ha trasposto nel suo spettacolo teatrale il libro Fabbrica che è una storia di operai di un mondo quasi scomparso. Come riesce questo racconto teatrale in forma di lettere a far riflettere sul passato della fabbrica, sul suo presente e sul suo avvenire?

 

A.C: Ho raccolto storie di lavoratori per due anni. Operai e contadini, donne e uomini. Ma ero interessato soprattutto alla dimensione mitica del lavoro. Mi interessava il posto di lavoro come spazio per un viaggio iniziatico.

Mi piacevano i racconti dei minatori che gestivano le loro paure spostandole al di fuori della miniera, che utilizzavano uno strumento culturale antico. Tra i minatori di Perticara, per esempio, ho raccolto storie che parlavano dell’orologio di San Pasquale, un rumore che credevano di sentir provenire dai muri delle loro case e che li terrorizzava, o degli angoli delle strade dove non si doveva passare di notte perché si sentivano le voci dei defunti. Uno di loro aveva persino scritto una canzone d’amore per la miniera. Non mi interessava l’aspetto sindacale o di denuncia. Volevo parlare dell’uomo, delle sue paure e perplessità, della sua fragilità. Da questo punto di vista la fabbrica somiglia al bosco di Cappuccetto Rosso, l’altro mondo che la bambina deve attraversare per diventare grande o anche al labirinto di Teseo dove è facile entrare, ma difficile uscirne vivi. Insomma una fabbrica che non è legata ad un periodo storico, ma che rappresenta una condizione umana che ci appartiene da sempre.

I.A: Lei attualmente sta collaborando con altri scrittori che trattano la precarietà?

A.C: No, in questo periodo sto lavorando alla produzione di un film che spero di poter girare in autunno.

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