I riflessi di Black Mirror. Glossario su immaginari, culture e media della società digitale, a cura di Antonio Tirino e Antonio Tramontana (Roma, Rogas, 2018), è un volume che raccoglie contributi interdisciplinari di diversi studiosi quasi tutti italiani – ad eccezione di Ivan Pintor Iranzo, dell’Universitat Pompeu Fabra di Barcellona -, anche se alcuni di loro afferiscono ad università straniere – è il caso di Vincenzo Susca e Fabio La Rocca, dell’Université Paul-Valéry Montpellier 3, e di Antonio Lucci, che lavora all’università di Hannover. La varietà degli approcci e dei percorsi lavorativi e personali degli studiosi che hanno collaborato al libro dà vita ad un prodotto eterogeno, capace di scandagliare la serie TV britannica attraverso punti di vista e metodologie diverse e fornire al lettore un’analisi approfondita sulle relazioni fra nuovi media, rappresentazioni della cultura popolare, relazioni sociali e tecnologia.
La serie televisiva britannica, infatti, ha una caratteristica peculiare: è una serie antologica, nella quale ogni singolo episodio è autoconclusivo e, pur annoverando lo stesso autore per le quattro stagioni proposte fino ad ora, può tranquillamente essere guardata senza continuità. Per tale ragione – e ovviamente per il genere affrontato, una fantascienza di approccio distopico incentrata sul rapporto fra esseri umani e nuove tecnologie – è stata considerata da una parte una continuazione, mutadis mutandis, della nota serie americana Ai confini della realtà, e dall’altra un prodotto culturale figlio delle tematiche dclla science-fiction inglese anti-distopica, come si evince dai romanzi, tra gli altri, di Orwell, Huxley e Burgess.
Il testo è costruito attraverso concetti-chiave – declinati per ordine alfabetico, da Algoritmo a Zootecnica, passando per Corpo, Interazione, Morte, Paranoia e altri – all’interno dei quali gli autori analizzano una o più puntate della serie. Non è quindi inusuale che lo stesso episodio venga preso in considerazione da autori e punti di vista diversi e talvolta opposti, elemento che rende il testo ancora più interessante e che contribuisce a chiarificare i diversi livelli di lettura di Black Mirror.
Come perfettamente visto dai curatori Tirino e Tramontana nell’introduzione, infatti, tutti gli episodi della serie britannica possono essere riassunti attraverso l’afferenza a tre macro-aree di riferimento: i conflitti dell’immaginario legati ad una nuova dimensione dei rapporti fra uomo e tecnica; la trasformazione dei sensi e delle qualità umane derivate da tali modifiche; la fenomenologia dell’esperienza mediale nell’era della post-televisione, in un cortocircuito che mette in relazione Black Mirror – che parla di media, fruizione, tecnologia, ma è esso stesso un prodotto tecnologico mediatizzato del quale si ha una fruizione di tipo nuovo – con lo spettatore, creando connessioni nuove e inquietanti.
Il corpo – anche il corpo dello spettatore – diventa così un oggetto mutevole, che può deformarsi, iper-svilupparsi, ma anche porsi come luogo di mancanze e vuoti (in particolar modo legati alla memoria affettiva) o addirittura, come accade in alcune puntate, superare la morte grazie all’aiuto della tecnologia. D’altronde agiamo già oggi in un mondo in cui l’esistenza virtuale e mediatica dei nostri corpi non sempre è parallela all’esistenza fisica e reale: il mondo virtuale mantiene tracce, immagini, registrazioni di noi stessi e dei nostri affetti, contribuendo a modificare la nostra modalità di relazione con gli altri. Black Mirror è efficace proprio perché, se da una parte, estremizzando alcune trovate tecnologiche del presente – come nelle puntate in cui al centro sono le valutazioni virtuali date ai personaggi, o in quelle costruite sui sistemi tecnologici che organizzano incontri sentimentali – introduce delle ipotesi di futuro, dall’altra non fa altro che scandagliare il presente, ridando allo spettatore l’immagine del suo mondo, solo leggermente deformata o ampliata.
È questa in fondo la funzione dello specchio da cui la serie britannica prende il titolo: lo specchio è al tempo stesso immagine fedele e deformata, soglia prima del quale si entra in una dimensione diversa, ma anche l’unico mezzo per vedere realmente noi stessi. Che sia elemento di conoscenza o ingannevole simulacro, lo specchio non mente rispetto a quella che è l’azione principale dei personaggi che popolano gli episodi della serie: cercare di modificare il mondo attraverso la tecnologia, in questo continuando la tradizione che, dall’età della pietra, genera un senso ambiguo e contraddittorio nel mezzo tecnico, ugualmente utile per migliorare la vita dell’umanità e potenziale strumento di morte.
Su tale punto gli autori sono concordi e cercano di analizzare i singoli episodi all’interno di un ampio prisma che va dalla fiducia cieca e ingenua nei confronti della tecnologia – essa risolverà i problemi dell’umanità! – ad una paura irrazionale – la tecnologia ha distrutto il mondo che amavamo. Il merito del libro è proprio quello di approfondire gli approcci diversi alle modifiche tecnologiche degli ultimi decenni e alle loro rappresentazioni, cercando anche di evadere dai facili assolutismi in un senso o nell’altro. A tale proposito vale forse la pane di citare, nell’intervento di Claudia Antimonelli dedicato al Corpo, una frase che ben riassume la complessità delle analisi ospitate nel volume: “Se si guarda Black Mirror credendo di stare osservando le possibili pieghe che prenderà il nostro futuro, tra le più potenti visioni vi è il cambio del paradigma che vedeva nel tecnocentrismo il contrario dell’antropocentrismo. Nel declino dell’antropocene sono altri i punti di fuga da considerare” (p. 102). Ora, sembra chiaro che la sfida inquietante che la serie pone allo spettatore non riguarda il valore della tecnologia in sé, ma l’uso che lo stesso spettatore riesce a farne. Umano e non-umano non sono infatti termini in opposizione ma, come mostrano con sensibilità critica i curatori e i collaboratori di questo volume, due elementi che vanno ricollocati e la cui relazione va oggi ripensata e rinegoziata.